L'Utopia (1863)/Libro secondo/Dei servi

Dei servi

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Tommaso Moro - L'Utopia (1516)
Traduzione dal latino di Anonimo (1863)
Dei servi
Libro secondo - Pellegrinaggi degli Utopiensi Libro secondo - Della guerra
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Dei servi.


Non tengono per servi quelli che sono presi in guerra, ancorchè fosse fatta da loro, nè i figliuoli dei servi, nè alcuno che serva appo altre nazioni, i quali possono comperare; ma quelli che per qualche mancamento sono da loro dannati alla servitù, ovvero altri di esterne nazioni, che sono lor dati a tale supplicio, per qualche delitto; il che avviene sovente, e molti ne hanno per vilissimo prezzo. Tengono questi servi in continua fatica, ed in catene, ma trattano i loro propri più duramente, giudicando che siano incorreggibili e degni di più grave supplicio, poichè essendo tanto egregiamente nudriti alla [p. 63 modifica]virtù, non si hanno potuto raffrenare dal vizio. Evvi un'altra sorte di servi, quando alcuno di altra nazione, avvezzo alla fatica, povero e di bussa condizione elegge di servir loro. Questi (eccetto che danno ad essi alquanto più fatica) trattano benignamente, e li tengono poco meno che per loro cittadini. Se alcuno vuol partirsi, il che di rado avviene, non lo tengono contra sua voglia, nè lo mandano via senza doni. Gl'infermi, come dicemmo, trattano con gran carità, non tralasciando cosa alcuna circa le medicine ed il governo del vivere, che vaglia a rendere a quelli la sanità. Se alcuno è incurabile, tenendogli compagnia, parlando con lui, e servendolo, alleggeriscono la sua calamità. Che se l'infermita sua è di perpetuo dolore, i sacerdoti ed il magistrato lo confortano, che essendo già inetto agli uffici della vita, molesto agli altri e grave a sè stesso, non voglia sopravvivere alla propria morte, e nodrire seco la pestifera infermità: e che essendogli la vita un tormento, non dubiti di morire: anzi che, avendo buona speranza, liberi sé stesso da si acerbo carcere, o si lasci dagli altri liberare; e che farà opera da prudente, quando che le calamità saranno da lui lasciate morendo, non i comodi: oltre che seguendo il consiglio dei sacerdoti interpreti degli Dei, farà opera santa e pia. Coloro che sono a questo persuasi, ovvero con astinenza finiscono la vita, ovvero dorineudo sono uccisi. Ma non ne fanno morire alcuno contra sua voglia, nè mancano di servirlo nell'infermità parendo loro che questa sia onorata cosa. Ma se alcuno si uccide senza il consentimento dei sacerdoti e del magistrato, egli senza esser sepolto viene gettato in una palude. Le femmine non si maritano innanzi degli anni dodici, ed i maschi dei sedici. Se il maschio o la femmina sono trovati a lussuriare innanzi al matrimonio, vengono puniti gravemente, e privati in perpetuo del matrimonio medesimo, ove il principe non si muova a pietà di perdonar loro tal fallo. Il padre e la madre di famiglia, sotto il governo dei quali avviene tal [p. 64 modifica]mancamento, sono infamati come poco attenti al dover loro. E il motivo di tanto severa punizione e il prevedere che pochi si mariterebbero volentieri, per non vivere tutti gli anni con una sola, e non tollerar le molestie del matrimonio, quando fossero avvezzi a liberi piaceri. Nel l'eleggere le mogli tengono un modo a mio parere ridicoloso, ma riputato da loro prudentissimo. Una onesta matrona mostra la vergine, o vedova che sia, nuda allo sposo; e parimente un uomo di gravità mostra il giovane nudo alla giovinetta. E biasimando io questo costume come inetto, essi all’incontro risposero che si meravigliavano assai della pazzia delle altre genti, le quali nel comperare un cavallo, ove si tratta di pochi danari, vanno tanto cautamente che lo vogliono vedere senza sella, acciocché sotto quella non avesse qualche piaga, e in elegger la moglie, la quale può dare o sollazzo o dispiacere mentre che dura la vita, sono tanto negligenti che si contentano di veder la donna quasi tutta coperta, anzi di non vederne che il volto: e tuttavia potrebhe essa nascondere qualche difetto, pel quale non mai si vorrebbe averla presa. Né tutti sono di tanta sapienza, che mirino solamente ai costumi; anzi nei matrimoni dei savi uomini, le doti del corpo fanno più grati i doni dell’animo. E veramente tale bruttura potrebbe nascondersi sotto gli abiti, che la moglie sempre fosse odiosa al marito; ed a questo si debbe provvedere con leggi, prima che segua l’inganno, quando che essi soli di tutte quelle nazioni sono contenti di una sola moglie, nè si scioglie il matrimonio se non per l'adulterio, o per altra intollerabile molestia. In tali casi il senato concede all'innocente di rimaritarsi, ed il colpevole resta infame e privo in perpetuo del matrimonio. Non vogliono che la moglie non colpevole sia ripudiata contra sua voglia, ancorché cadesse in qualche calamità del corpo; parendo loro una crudeltà che si abbandoni la persona, quando ha maggior bisogno di consolazione; perchè la vecchiezza, che porta con sè infermità, ed è l'infermità stessa, sarebbe [p. 65 modifica]dalla compagnia abbandonata. Avviene alle fiate, che i coniugi non si confacendo dei costumi, e trovando amendue con chi sperano di vivere più soavemente, si separano, e rimaritansi, con l’autorità però del senato, il quale non ammette il divorzio, se prima non ne conosce e non ne fa dalle proprie donne investigare le cause. Ed anco si rende difficile a questo, acciocché non si speri di mutar facilmente il matrimonio. Gli adulteri si puniscono con durissima servitù: e se alcun di essi non era celibe, si concede che i coniugi offesi, ripudiati gli adulteri, si maritino insieme, ovvero con altri. Ma se quello che è offeso, tanto ama l’offensore che non voglia fare divorzio, non gli è vietato di mantenere il matrimonio, purché voglia seguire nell’opera il dannato. E sovente è avvenuto, che la sollecita pazienza dell’innocente ha ottenuto la libertà al colpevole. Ma chi adultera dopo questo perdono, è punito nella testa. Alle altre colpe non si assegna determinato supplicio, ma secondo il mancamento segue il supplicio più o men grave come pare al senato. I mariti castigano le mogli, i padri i figliuoli, se non fosse qualche enorme mancamento, che si dovesse punire pubblicamente. Ma quasi tutte le gravi colpe sono punite con servitù, il che non meno spiace agli scellerati, ed è più comodo alla repubblica che ucciderli, perchè giovano più con la fatica che con la morte, e con l’esempio continuo ammoniscono gli altri a guardarsi da simili colpe. Se in tale stato sono perversi ed inobbedienti, allora come bestie indomite gli uccidono. I pazienti non sono fuori di speranza, che tollerando i travagli e le fatiche, e mostrando che più loro spiaccia il peccato che la penitenza, non siano francati o venga loro mitigata la servitù per autorità del principe o suffragi del popolo. Non meno puniscono chi ha provocato alcuna persona a lussuria, che se avesse commesso l'errore: parendo loro che la volontà determinata a peccare, ancorché non possa venire ad effetto, sia degna dello stesso supplicio. Si pigliano piacere de' buffoni, ma [p. 66 modifica]non è lecito far loro ingiuria. Nè gli danno in governo a chi non si diletta delle loro facezie, temendo che non siano ben trattati. Non si concede il farsi beffa d’alcuno, che sia tronco o sciancato, parendo sconvenevole schernire quel vizio, che è venuto nell’uomo senza sua colpa. Siccome tengono per da poco chi non ha cura di conservarsi la bellezza naturale, così biasimano quelli che con belletti studiano di aumentarla; avendo per certo che la bontà dei costumi assai più vale a render grata la moglie al marito, che alcuna bellezza corporale. Non solamente si rimangono dalle scelleraggini per tema dei supplicj, ma sono invitati alle virtù con egregi onori. Rizzano nella piazza statue agli uomini, che per la repubblica hanno fatto qualche degna impresa, acciocchè si conservi la memoria delle opere illustri, ed i loro discendenti siano alla virtù incitati. Chi cerca di avere alcun magistrato ne viene privato al tutto. Vivono assieme amichevolmente, perchè i magistrati non sono terribili; si chiamano padri, e si portano da padri; ed i popoli gli onorano spontaneamente. Il principe non è dagli altri conosciuto per diadema o corona, ma per un manipolo di frumento, che più viene portato innanzi, ed il pontefice per un torchio. Hanno poche leggi, e biasimano gli altri popoli, che empiono di leggi e d’interpreti smisurati volumi. Parendo loro che sia iniquità obbligare a tante leggi l'uomo, che non si possano leggere, e tanto oscure, che non siano intese. Non ammettono avvocati, anzi vogliono che ognuno in giudizio dica la sua ragione, perchè in tal guisa si disputa meno, e meglio si cava la verità senza ornamento di parole. Il giudice sollecitamente spedisce ogni causa, e favorisce agli ingegni semplici contro i malvagi ed accorti: il che a fatica si può osservare appo le altre nazioni tra tante dubbiose leggi. Appo loro ciascuno è giureconsulto, perchè hanno pochissime leggi, e commendano sommamente la più semplice interpretazione, che loro si dia. Perchè la sottile interpretazione non può esser da tutti intesa; il [p. 67 modifica]che è contra la intenzione delle leggi, le quali si danno, acciocché siano a tutti manifeste. I popoli vicini, che sono liberi, ma dei quali molti hanno sofferto la tirannia, mossi da queste virtù, dimandano dagli Utopiensi i magistrati per un anno, ed anco per cinque; e quando hanno fornito il loro ufficio, li rimandano onorevolmente e ne conducono degli altri. Ed in vero questi popoli ottimamente provveggono alla loro repubblica, la cui salute o rovina dipende dai costumi dei magistrati, nè potevano fare miglior elezione; quandoché sono gli Utopiensi di una tale costanza, che non si piegano a prezzo alcuno, ed avendo da ritornare alla patria, non hanno occasione di far ingiustizia, massimamente che non conoscendo quei cittadini, non possono da alcuno agevolmente esser persuasi di contravvenire al giusto. Questi due mali, amore ed avarizia, quando hanno potere nei giudizj, pervertono ogni giustizia, ed indeboliscono ogni nervo della repubblica. Gli Utopiani chiamano compagni quei popoli, ai quali danno magistrati, ed amici quelli a chi hanno fatto beneficj. Essi non fanno con altre genti confederazioni, le quali tanto sovente appo altri popoli sono fatte e rinnovate. Perchè si hanno da fare, dicono essi, confederazioni alcune, bastando ad amicarsi l’uomo la comune natura, la quale non giovando, che potranno più valere le parole? Sono in questo parere, perchè le convenzioni e patti tra principi in quei paesi, poco fedelmente si osservano. Ma in Europa e specialmente dove regna la fede di Cristo, si conservano inviolabilmente le confederazioni, parte per giustizia e bontà dei principi, parte per riverenza e timore dei sommi pontefici; i quali, siccome non commettono cosa alcuna, che contravvenga alla religione, così comandano che gli altri principi mantengano le loro promesse, e con scomuniche severissime sforzano i contumaci a serbare la loro fede. E meritamente in vero tengono per biasimo vituperevole, che non si osservi fede nelle confederazioni da coloro, che specialmente si nominano [p. 68 modifica]fedeli1. Ma in quel nuovo mondo tanto dal nostro distante, quanto sono ancora i costumi dissimili, non si fidano di confederazioni, quando che non si possono fare con tante cerimonie e sacramenti, che non si trovi nelle parole qualche calunnia postavi a studio, e non vi si occulti un uncino da eluderle. Ed è singolar cosa che se trovano simili accortezze o inganni nei contratti degli uomini privati, li dannano come sacrileghi e degni di morte quegli stessi consiglieri de’ principi, i quali si gloriano d’essere stati autori delle fraudolente confederazioni, acciocchè si potessero rompere. Indi avviene, che non vi sia altra giustizia, se non l’umile e plebea, e molto inferiore dalla regale maestà; come se vi fossero duo giustizie, una del volgo umile e bassa, la quale avvinta con molti nodi, non ardisca levarsi, l’altra dei principi alta e magnifica, alla quale tanto sia lecito quanto loro piace. Io credo che gli Utopiensi non facciano alcuna confederazione perchè i principi di quel paese tanto sono a contravvenire ad ogni loro promessa disposti: tuttavia, se vivessero in queste parti, muterebbero proposito. Benchè essi giudicano, ancorchè fossero osservate le confederazioni ottimamente, che non sia bene il farle; perchè si potrebbero tenere per nemici quei popoli, che sono divisi con un rivo o con un colle, non avendo tra loro tal segni di patti, ed indi guerreggiare insieme. Anzi fatte le confederazioni, non si stringe però l’amicizia; e resta la licenza di saccheggiare, non avendosi per imprudenza potuto porre nella confederazione ogni cautela sufficiente a ribattere l’ingiuria. Ma essi all’incontro giudicano che non si tenga alcuno per nemico, dal quale non si abbia ricevuto ingiuria. E che basti la compagnia naturale in luogo di confederazione: perchè gli uomini più volentieri e con maggior fermezza si uniscono cogli animi, che per confederazioni o parole.

Note

  1. Sa ognuno quanto a queste parole del buon Raffaello sia conforme la storia specialmente de’ tempi suoi. L’America gli avea fatta ben dimenticare l’Europa.