L'Esclusa/Parte Seconda/Capitolo VII
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VII.
La lettera di Gregorio Aivignani era, come ogn’altra manifestazione de’ suoi sentimenti, sincera in parte.
Veramente a Roma egli aveva sentito ciò che nella lettera chiamava “la voce sincera della nostra natura....„
Il troppo lavoro sedentario, l’attività mentale incessante, la persistenza prolungata, ininterrotta di sforzi, a cui era costretto non solo per sostenere quella vita signorile ch’era abituato a condurre, ma anche per nutrire, giustificare e imporre altrui la pronta sua ambizione ai poteri politici; non compensati dal sonno necessario, dai necessari riposi intermittenti, lo avevano alla fine stremato, gli avevano cagionato un gran perturbamento nervoso.
E una mattina, innanzi allo specchio, gli era avvenuto di notare il pallor fosco del volto quasi disfatto, le rughe alla coda degli occhi, la piega triste delle labbra, i capelli di molto diradati; e se n’era rammaricato profondamente. Entrato poi nello studio e sedutosi innanzi alla scrivania tutt’ingombra di pesanti incartamenti disposti con ordine, non aveva saputo metter mano al proseguimento d’alcun lavoro iniziato. Gli s’era imposta così, d’un tratto, la coscienza della propria incapacità d’agire, e aveva pensato che un lungo riposo gli era addirittura indispensabile.
In quei giorni, per giunta, era disgustato della guerra bassa e sleale che alcuni suoi colleghi movevano trivialmente, sia nell’aula del Parlamento, sia nei giornali, al Ministero, di cui anch’egli era oppositore. L’aggressione di quei pochi in mala fede minacciava di coinvolgere tutta l’opposizione nel disgusto, nella nausea della pubblica opinione. Aveva preveduto che la Camera si sarebbe chiusa tra breve con la proroga della sessione parlamentare. E difatti la chiusura era avvenuta pochi giorni dopo.
Divisò egli allora d’allontanarsi da Roma per ricostituire col riposo le forze e prepararsi così alla prossima lotta inevitabile. Parlò anche lo specchio ai penosi sentimenti che lo agitavano. Egli era già su l’altro declivio della vita: s’era messo a discendere: temeva di precipitare; sentiva il bisogno d’aggrapparsi a qualche cosa.
Nella breve carriera parlamentare era stato molto fortunato. S’era messo in vista fin quasi dal suo primo apparire, suscitando invidie e simpatie, destando serie speranze e guadagnandosi preziose amicizie. Ottenuta così, troppo agevolmente, la vittoria, le immancabili amarezze della politica, molte disillusioni lo avevano afflitto tanto più, in quanto che nessuno intorno a lui aveva intimamente gioito e palpitato dei suoi trionfi, come nessuno adesso lo confortava delle amarezze. Era solo.
Le condizioni non liete della famiglia, dopo la morte del padre, avevano determinato in lui come un’esaltazione di tutte le energie giovanili ed eccitato un intenso sforzo alla conquista della vita.
Il sentimento della responsabilità gli era servito di sprone, ma così pungente, che d’un subito era trasceso all’eccesso di lavoro, schivando fin d’allora — ed era quasi ragazzo — qualunque cosa avesse potuto distrarlo. Quante energie così eran rimaste in lui senza lo sfogo necessario? In seguito, quella produzione d’attività sovrabbondante che il suo organismo sviluppava per l’esercizio gradevole di facoltà non impegnate nelle quotidiane occupazioni, era stata in queste occupazioni esaurita anch’essa da lui. Morta la madre, per sentir meno il vuoto intorno a sè si era profondato anche più nel lavoro. Gli era sorta l’idea della deputazione, e subito s’era messo all’opera per attuarla, imponendosi in società la parte più acconcia per riuscire.
In quegli anni di fervida preparazione e di lotta, una sola debolezza: la mezza avventura con Marta.
Ma s’era trovato allora nelle identiche condizioni d’adesso. Il cervello, esausto dall’eccessivo lavoro, aveva prepotentemente reclamato un riposo, una distrazione. E invano egli aveva lottato contro sè stesso. Pensando, dopo lo scandalo, al danno cagionato, aveva attenuato subito il rimorso col falsare innanzi a gli occhi suoi stessi la ragione di quella sua prima resistenza. Ma, per altro, quanti fastidii, quante controversie non gli eran venuti da questa avventura.
Sinceramente egli credeva così; credeva che gli fosse costata troppo. Ma, infine, non aveva rimediato del suo meglio alla sciagura di Marta? Sì: ma perchè poi, nell’annunziarle il trasferimento a Palermo, aveva lasciato trasparire sotto le linee un segreto intendimento d’amore? Nè amore nè intenzione in lui di rannodare una relazione che certamente gli avrebbe procurato nuovi ostacoli e più gravi fastidii. Tuttavia, gli avrebbe senza dubbio arrecato piacere di tanto in tanto, così da lontano, qualche lettera di Marta: un’eco amorosa e disinteressata ai clamori delle sue vittorie, al lamento dei suoi sconforti.
Intanto era stato deluso: Marta non aveva risposto a quella lettera.
— Non ci si pensi più!
Ci aveva però ripensato di quando in quando. Ora la sua condizione era ben altra. Ma che ne godeva? E già cominciava per lui la sera.... Quanti guasti nella sua persona! È vero, ai guasti del corpo suppliva il prestigio morale. Sì, ma la gioventù!
Era tutto finito così?
L’Alvignani non rispondeva direttamente alle domande che sorgevano spontanee al ricordo di Marta: si sarebbe immerso, facendolo, in troppe preoccupazioni intorno all’avvenire di lei e suo; e istintivamente ne rifuggiva. Da un altro canto, troppo vivo e urgente era il bisogno di riposo, di distrazione. Sarebbe partito unicamente per riposarsi, ecco; se poi, per caso, gli fosse avvenuto di distrarsi in qualche modo, tanto meglio; ma senza alcuna compromissione dell’avvenire.
Aveva fatto in fretta i preparativi della partenza, e, appena in viaggio, aveva provato un subitaneo sollievo quasi insperato, come se le nebbie gli si fossero a un tratto squarciate attorno: un nuovo flusso vitale, un benessere ineffabile lo avevano colto e invaso. Ecco il sole! ecco il verde nuovo delle campagne! E il treno volava, sbuffando. Egli beveva a larghi sorsi l’aria mossa, sibilante, dal finestrino della vettura. “Vivere! vivere!„ E l’esaltazione era cresciuta durante tutto il viaggio. Gli era parso di vedere il mondo, la vita quasi sotto un aspetto nuovo: ogni suo criterio n’era stato turbato, commosso: la vita, così, senza nesso, sotto il sole, nella beatitudine immensa, azzurra e verde della stagione, gli era entrata nell’anima, dilagando e scacciando ogni pensiero, ogni cura.
Trovò, pochi giorni dopo l’arrivo a Palermo, la casa che in quel momento gli conveniva meglio, in una via deserta, fuori Porta Nuova: in via Cuba, assai lontana dal centro della città, quasi in campagna.
Era una palazzina d’un sol piano, di signorile aspetto, con un balcone in mezzo e due finestre per ciascun lato.
— Un paradiso! Non ci si può morire.... — gli disse il portinajo nell’aprire il portoncino sotto il balcone.
Appena attraversato l’androne, Gregorio Alvignani, nel porre il piede sul primo dei tre scalini d’invito, che mettevano in una specie di corte, larga, ammattonata, cinta di muri e scoperta, sussultò improvvisamente a una strepitosa volata di colombi, che andarono ad allinearsi in capo ai due muri di cinta, grugando.
— Quanti colombi!
— Sissignore. Sono del padrone del casino. L’ho in custodia io.... Se vossignoria non li vuole, si portano via.
— No, per me, lasciateli; non mi disturbano.
— Come vuole. Vengo io a dar loro da mangiare, due volte al giorno, e a far pulizia.
E il vecchio portinaio li chiamò con un suo verso particolare e col frullo delle dita. Prima uno, poi due insieme, poi tre, poi tutti quanti scesero nella corte al noto richiamo, tubando, allungando il collo, scotendo le testine per guardare di traverso.
A sinistra, accostata al muro, esteriormente, sorgeva la scala in due brevi branche molto agevoli. Questa scala a collo, in quella corte, con quei colombi, dava all’abitazione un’aria villereccia molto modesta e allegra.
— Non c’è soggezione di sorta.... Vossignoria può guardare tutt’in giro. Nessun occhio ci vede qua dentro: solo Dio e le creature dell’aria.... — spiegò il vecchio portinaio.
Salirono a visitare la casa internamente. Erano otto stanze ammobiliate con una certa pretensione d’eleganza. L’Alvignani ne rimase contento.
— Il signorino ha famiglia?
— No, solo.
— Ah, bene. E allora, se volesse cambiato questo letto a due, con uno piccolo.... I padroni abitano qui a due passi, sul Corso Calatafimi. Se volesse mangiare in casa, fanno anche pensione.... Potrà avere insomma ciò che vorrà....
— Sì, sì, c’intenderemo.... — disse l’Alvignani.
— Aspetti: il terrazzo! Deve vederlo: una delizia! Le montagne, signorino mio, si possono toccare, così, con le mani.
Ah sì, sì: quello era il rifugio che ci voleva per lui: lì, al cospetto dei monti, alla vista della campagna....
Due giorni dopo vi prese alloggio.
— Qui mi riposerò.
Scendendo ogni mattina in città per il Corso Calatafimi, passava innanzi al Collegio Nuovo; guardava il portone, le finestre del vasto edificio; pensava che Marta era là, e si prometteva che l’avrebbe riveduta, sì, non foss’altro, per curiosità. Ma come? Bisognava trovar l’occasione. Pensava: — “Potrei entrare, anche adesso; farmi annunziare, e vederla e parlarle. No. Così all’improvviso, no. Sarà meglio prevenirla. Ella non sa neppure ch’io sia qui, tanto vicino a lei. Chi sa come la rivedrò? Forse non sarà più come prima....„.
Passava oltre, lieto d’avere ancora un buon tratto di via deserta innanzi a sè, prima d’ entrare in città, dove avrebbe senza dubbio incontrato tanti seccatori.
Era profondamente persuaso del proprio valore, dell’importanza sua; ma intanto, per ora, l’aria di spigliatezza un po’ petulante, a cui s’abbandonava lungi da Roma e dagli affari, modificava a gli occhi altrui piacevolmente quanto d’assoluto era in quella persuasione.
Non aveva ancora ben definito come avrebbe occupato il tempo del suo soggiorno a Palermo. In ozio completo, no: ozio e noja eran per lui sinonimi. E l’ozio inoltre gli sarebbe riuscito molto pericoloso. Già, da quand’era arrivato, non aveva che un solo pensiero, o (com’egli diceva) una sola curiosità: riveder Marta.
— Comprerò qualche libro nuovo di letteratura. Leggerò. Continuerò poi, se me ne verrà la voglia, i miei appunti su l’Etica relativa. Basta, vedrò.
Non voleva fermarsi a lungo sopra alcun pensiero. Il suo spirito sonnecchiava nel benessere e si ristorava.
— Non si vuol morire; sfido!... Anche quando il cervello è annebbiato di pensieri, il corpo trova tante ragioni di godere: nella mitezza della stagione; in un bel bagno, d’estate; accanto a un buon foco, d’inverno; dormendo, desinando, passeggiando. Gode, e non ce lo dice. Quando parliamo noi? quando riflettiamo? Solamente quando vi siamo costretti da cause avverse; mentre poi in quelle che ci danno diletto il nostro spirito riposa e tace. Pare così che il mondo sia soltanto pieno di mali. Un’ora breve di dolore c’impressiona lungamente; un giorno sereno passa e non lascia traccia....
Questa riflessione gli parve giustissima e originale, e sorrise di compiacimento a sè stesso. Ma come trovar l’occasione, il mezzo di riveder Marta? Per quanto cercasse di distrarsi, ritornava col pensiero sempre lì; e sempre si ritrovava intento a escogitare il modo d’ottenere quell’incontro, senza compromissione nè per lui nè per lei.
Usciva di casa. E, camminando, pensava: — “Se potessi vederla almeno per istrada, prima, senza farmi scorgere. Ma, e se poi ella s’accorge di me? Dal primo incontro dipenderà tutto....„
Tutto — che cosa? Gregorio Alvignani rifuggiva dal pensarlo.
“— Dal primo incontro dipenderà tutto....„
L’occasione a un tratto gli s’offerse, e gli parve molto propizia. Fu invitato a tenere una conferenza sopra un soggetto di sua scelta nell’aula magna dell’Università. Quantunque non avesse con sè che pochi libri e si trovasse affatto impreparato, pure accettò, dopo essersi lasciato molto pregare. Un largo, eloquente esame della coscienza moderna lo aveva sempre tentato: aveva con sè gli appunti per uno studio iniziato e interrotto su le Trasformazioni future dell’idea morale: se ne sarebbe giovato. Dall’esame della coscienza intendeva passare all’esame delle varie manifestazioni della vita, e principalmente di quella artistica. — Arte e coscienza d’oggi — ecco il titolo della conferenza.
— Le scriverò. La inviterò ad assistere alla conferenza. Così la vedrò, l’avrò innanzi a me, parlando.
Era sicuro del buon successo che non gli era mai mancato, e lo solleticava molto il pensiero che Marta lo avrebbe riveduto lì, tra gli applausi d’un numeroso uditorio.
Tracciò lo schema della conferenza, lo meditò punto per punto, poichè avrebbe parlato e non letto; e, quand’ebbe chiara la linea e intero il concetto, soddisfatto di sè, scrisse a Marta la lettera incendiva.
Il trionfo oratorio rispose quel giorno alla conferenza, come e forse più che l’Alvignani stesso non si fosse aspettato; ma non rispose Marta all’invito. Egli la cercò con gli occhi nell’ampia sala zeppa di gente; scorse la direttrice del collegio, sola: Marta non era venuta. E, come se non avesse inteso, dimenticò di rispondere a gli applausi con cui l’immenso uditorio lo accolse su l’entrare.