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mia. Din don dan, din don dan. Sbuca un vecchio topo, sbucano i topicini; si mettono a giocare con un sassolino, sulla balaustrata del campanile. Le campane ronzano, le campane sbadigliano al cielo; han la lingua ciondoloni; hanno fame di vento, le campane. Quant’arsura, nell’estate! Pioggia, pioggia, lava le campane. Spunta l’erbuccia della frescura.... Dan dan, dan dan, le monacelle della badia. Corvo, diavolo che vi porta via!
Queste erano le sue filastrocche, quand’era di buon umore. Per lo più, però, era ingrugnata; e quella sera, quella sera più del solito.
— Zà Sidò, a tavola, — venne a dirle Niccolino, il nipote, pallido, con aria stordita. — Papà dice, non c’è perchè restar digiuni. Rocco, però, non è ancora tornato. Come si fa?
La vecchia guardò un tratto il nipote, con le ciglia aggrottate, quasi non avesse inteso; poi scattò in piedi, alzando le braccia a un gesto vivacissimo di noncuranza sdegnosa, e s’avviò di furia, curva, grufando, alla sala da pranzo.
Era un tetro stanzone, dalle pareti basse, nude, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole tutte scompagne. Di notte, queste seggiole conversavano fra loro, con sommessi scricchiolii; fra loro e con la vecchia matta, a cui narravano la loro storia,