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stava di fronte, la testa secca, orecchiuta, per veder l’aria del fratello. La zia non si mosse.

Rocco stette un po’ a guardare i tre seduti a tavola, poi si buttò su la prima seggiola presso l’uscio, coi gomiti su le ginocchia, le pugna sotto il mento, il cappello su gli occhi.

— Oh, e alzati! — riprese il Pentàgora. — T’abbiamo aspettato, sai? Non mi credi? Parola mia d’onore, fino alle dieci.... no, più, più.... che ora è? Vieni qua: ecco il tuo posto: apparecchiato qua, come prima.

E chiamò, forte:

— Signora Popònica!

— Epponina, — corresse Niccolino a bassa voce.

— Zitto, bestia, lo so. Voglio chiamarla Popònica, come tua zia. Non è permesso?

Rocco, incuriosito, alzò la testa e brontolò:

— Chi è Popònica?

— Ah! una signora caduta in bassa fortuna, — rispose allegramente il padre. — Vera signora, sai? Da jeri ci fa da serva. Tua zia la protegge.

— Romagnola, — aggiunse Niccolino, sommessamente.

Rocco ripiegò la testa su le mani; e il padre, soddisfatto, si recò pian piano alle labbra il bicchiere ricolmo; lo scoronò con un sorsellino càuto; poi strizzò un occhio a Niccolino e, facendo schioccar la lingua, disse: