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da quali misere case fossero venute a quello stanzone, pegnorate con tutta l’altra masserizia, tra i pianti, gli strilli e le imprecazioni degli antichi padroni; e una, ch’era più sfilata delle altre, diceva ch’era stata ridotta così da una povera madre, la quale per ore e ore ogni sera cullava il suo piccino, che, non trovando latte ne le mammelle vizze, non voleva, non poteva prender sonno.... Forse da esse, o dal pavimento, o dalle pareti, spirava nello stanzone quel tanfo misto, indefinibile, d’appassito. Dal tetto, affumicato in giro, pendeva una lampada su la tavola apparecchiata, come sperduta lì in mezzo.
Vi stava già seduto a cenare Antonio Pentàgora, il padre, grosso omaccione sanguigno, il cui volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante su la nuca. Dalla camicia floscia, aperta, gli s’intravedeva il petto irsuto.
Niccolino e la zia presero il loro posto e cominciarono a cenare anch’essi, tranquillamente, come se nulla fosse stato.
Poco dopo, Rocco apparve su la soglia, cupo, disfatto.
— Oh, bravo Roccuccio, eccolo qua! — esclamò allora il padre, volgendosi e fregandosi le grosse mani ruvide, piene d’anelli massicci.
Niccolino levò, sopra il capo della zia che gli