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— Mi lasci così? — esclamò Rocco, esasperato.

— E che vuoi che ti faccia? Se parlo ti secchi.... Debbo stare qua? Ebbene, stiamo qua....

Soffiò su la candela e sedè su una seggiola presso il canterano. Il gatto gli saltò sulle spalle.

Rocco passeggiava per lo stanzone, mordendosi a quando a quando le mani o facendo con le pugna serrate gesti di rabbia impotente. Piangeva.

Niccolino, seduto ancora a tavola, sotto la lampada, arrotondava con l’indice pallottoline di mollica.

— Non hai voluto darmi ascolto, — riprese, dopo un lungo silenzio, il padre. — Hai.... hem!... sì, hai voluto fare come me.... Mi viene quasi da ridere, che vuoi farci? Ti compatisco, bada! Ma è stata, Rocco mio, una riprova inutile. Noi Pentàgora.... — quieto, Fufù, con la coda! — noi Pentagora con le mogli non abbiamo fortuna.

Tacque un altro pezzo, poi ripigliò lentamente, sospirando:

— Già lo sapevi.... Ma tu credesti d’aver trovato l’araba fenice. E io? Tal quale! E mio padre, sant’anima? Tal quale!

Fece con una mano le corna e le agitò in aria.

— Caro mio, vedi queste? Per noi, stemma di famiglia! Non bisogna farsene.

A questo punto, Niccolino, che seguitava ad arrotondare tranquillamente pallottoline, sghignò.