L'Argentina vista come è/Il lusso nell'Argentina
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IL LUSSO NELL'ARGENTINA.1
Il popolo criollo, che si trova quasi estraneo alle assorbenti cure del lavoro, che ha a portata delle sue mani le facili ricchezze alimentate dalla inesauribile sorgente del lavoro straniero, che — con un’esagerazione che le teorie dell’atavismo giustificano — ha ereditato dai suoi padri spagnuoli insieme alle virtù della fierezza e dell’orgoglio anche i difetti della tendenza spendereccia, della manìa delle apparenze, dell’amore alle grandiosità — come ha ereditato dalle antiche madri aborigene la passionalità e la dolce mollezza — non poteva resistere alla piacevole malattia del lusso. «Il lusso sterile si è subitamente introdotto nei nostri costumi — ha scritto un saggio argentino —; ma la ricchezza male acquisita va lasciando dietro di sè molte rovine morali; poichè l’oro è come l’acqua d’un fiume, che desola e rovina se inonda subitamente, mentre porta in ogni dove la fecondità e la vita se giunge lentamente per mille condotti.»
In trenta anni o quaranta dalla tradizionale semplicità della vita campesina si è giunti al più assurdo lusso, assurdo perchè il meno sapiente, un lusso che si è infiltrato a poco a poco in tutte le classi, che si rivela negli atti più semplici della vita, che è divenuto quasi una necessità. Nelle epoche dei grandi guadagni e delle speculazioni colossali, che sono così recenti e sembrano favolose, si sono create delle abitudini che resistono tuttavia, e resisteranno pur troppo fino a che sarà facile sacar plata — trovar denari — a chi ha il privilegio di vivere nell’immensa rete dell’intrigo politico.
Il primo sintomo caratteristico della malattia del lusso, lo straniero l’osserva appena sbarcato, prima di vedere e sapere nulla, niente altro che allo scorgere il modo con il quale l’argentino porta in tasca il suo denaro. Noi abbiamo la meschina abitudine del portafoglio che, se i borsaioli lo rispettano, serve a conservare i nostri biglietti di banca ben piegati e classificati. Qui il portafoglio per il denaro è una gretteria che fa sorridere di disprezzo fin l’ultimo almacenero; l’argentino porta la sua carta monetata insaccata nelle tasche dei pantaloni. Qualunque somma è portata così, come il fazzoletto. Per pagare si tira fuori un pugno di biglietti, se ne getta uno tutto spiegazzato al venditore con un’inimitabile aria di disdegno, e si ripone il resto con noncuranza nella solita tasca, picchiandoci sopra un colpetto per diminuirne il volume.
Questa strana ostentazione di disprezzo per il denaro, forma una caratteristica argentina veramente rivelatrice. È una questione di amor proprio, di orgoglio curiosamente sentito; in fondo è una contraddizione patente che costa molto e che forma da sola una delle principali spese di lusso. Non si guarda alla spesa purchè il gesto sia bello. C’è sempre una certa ricerca dell’effetto. Ho visto una sera in un caffè a Buenos Aires un giovanotto, un compadrito (teppista elegante), il quale, ferito alla testa da una bastonata consegnatagli da un suo buon amico, si asciugava la ferita con biglietti da un peso — i più correnti — che gettava via insanguinati, e questo perchè non aveva un fazzoletto. Era sublime; ma certo quel bravo ragazzo avrebbe semplicemente domandato una salvietta al cameriere se nessuno fosse stato lì a guardarlo.
Al caffè, al restaurant, se si è in un gruppo di amici, è sempre uno che paga per tutti, per legge inviolabile. Si va al teatro in comitiva? Chi è più vicino allo sportello dei biglietti compera le poltrone, gl’ingressi, i programmi per tutti; e guai allo straniero che tenta il modesto rimborso. Il più umile impiegato della municipalità pone le mani in tasca con l’aria di un Grande di Spagna; salvo poi, tornando a casa solo, a fare i conti sotto un lampione di quanto costa la grandiosità.
Ho cominciato dall’accennare a queste minuzie perchè sono sintomatiche, e fanno già comprendere il carattere del lusso argentino. Non è il lusso d’un paese che col migliorare delle sue condizioni economiche sente aumentare i bisogni e si adatta progressivamente ad un maggiore comfort; il raffinamento della sensibilità in un popolo ha un processo molto lento, e la prosperità argentina sorse in pochi anni d’affari tumultuosi. È il lusso sterile di chi spende per spendere, per «figurare», di chi poco conosce il costo del denaro; ed è il lusso più pericoloso perchè non ha una norma fissata dal livello dell’intellettualità del popolo, la quale ha un limite, ma è invece regolato dall’ambizione e dallo snob che non hanno limiti.
La conseguenza principale — dal nostro punto di vista di stranieri cointeressati — è uno sperpero inutile d’enormi ricchezze, il quale fatalmente non può non indebolire le resistenze morali alla corruzione. Ricercando le cause dei mali argentini, per i quali tanti italiani soffrono, non possiamo tralasciare il lusso, e tutto quanto il lusso si trascina appresso, le cui conseguenze materiali e morali sono vaste e profonde.
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Il lusso infesta tutti i campi, come una splendida ortica, e vegeta persino sul bilancio di Buenos Aires. La Capitale si comporta come una signora un po’ civetta, la quale comperi un cappellino che costa un occhio a chi.... lo paga, per la sola ragione che qualche amica ne ha comperato un altro. Si fanno boulevards perfettamente inutili perchè Parigi ne ha; si creano parchi e giardini dispensabilissimi per non essere al di sotto delle grandi capitali; si gettano milioni in un giardino zoologico, dove le scimmie abitano villini arabi e i leoni dimorano in tempî greci, solo per poter dire che il Zoo di Londra non è così bello; facendo un grande serbatoio d’acqua potabile si è voluto che la costruzione rappresentasse un grandiosissimo palazzo del rinascimento francese, tutto ricoperto di maioliche inglesi, spendendo due milioni e mezzo per la pura e semplice ornamentazione. Non si è mai pensato che tutta la popolazione dell’Argentina non arriva a cinque milioni e che un popolo di cinque milioni deve spendere un poco meno di quelli sette o otto volte più grandi; si è detto e scritto che Buenos Aires avendo quadruplicato il numero dei suoi abitanti in ventotto anni, «raddoppia di popolazione ogni quattordici anni», e non si è pensato all’assurdo di una tale premessa, secondo la quale fra cinquanta anni Buenos Aires dovrebbe avere dieci milioni di abitanti. Si è speso sempre basandosi sul fantastico, ipotecando un lungo avvenire, senza far mai i conti con le risorse del paese, ripetendo eternamente che il paese è vasto e ricco e che pagherà tutto. L’importante è che Buenos Aires mantenga il suo posto di «segunda ciudad latina del mundo» — la prima, si sa, è Parigi — e poco preme che le finanze si rovinino, che i debiti crescano in proporzioni spaventose. Nulla importa purchè «il gesto sia bello»! La collettività fa lo stesso lusso dell’individuo, sterile, inutile lusso, in modo assurdo e sproporzionato alla potenza finanziaria del paese.
L’apparenza è tutto. Quel serbatoio d’acqua potabile diventa quasi un simbolo: il simbolo della esteriorità argentina. Un ricchissimo sfarzoso castello scintillante di ceramiche policrome, all’esterno; all’interno... acqua potabile!
Non si fa del lusso in proporzione a ciò che si è, ma a ciò che si vuol parere; lusso esagerato negli edifici, negli arredi, negli abiti, in ogni cosa. Non si ha idea, per esempio, delle somme che si spendono laggiù per le toilettes. La stagione dell’Opera viene preventivata venti o trentamila pesos nelle famiglie della buona società. Nei negozî principali di mode si ottengono delle rivelazioni interessanti sulle spese femminili. Conti di quaranta e cinquantamila pesos sono pagati correntemente dalle signore, cioè volevo dire dai mariti, dell’aristocrazia portegna. Tutto quanto è moda costa caro perchè tutto è importato. Parigi, questa fata morgana dell’Argentina elegante, assorbe per le sue mode e i suoi gingilli, in proporzione, due volte e mezza più di ricchezza dal Sud che dal Nord-America. Ah! quella Parigi si è fatta una gran clientela di repubbliche, esportando i diritti dell’uomo e poi i.... cappellini della donna!
Non parliamo di quanto si spende in feste, feste pubbliche, private, religiose, di beneficenza; non parliamo del lusso nei clubs, nei teatri, in ogni dove. Vi è in tutto questo qualche cosa d’una immensa mise en scene; si sente il fittizio.
Le spese eccessive portano un dissesto endemico nei bilanci domestici, che vengono a rispecchiare così il bilancio dello Stato in proporzioni ridotte. Lo sperpero cieco del denaro conduce per conseguenza ad una caccia altrettanto cieca al denaro, la quale ha per forma più mite il giuoco. La questione del giuoco è così grave che ora tutta la stampa argentina unanime a grandi gridi ne invoca la estirpazione. Ma non è con dei saggi articoli di fondo che, specialmente ora, potrà svellersi la mala pianta del giuoco, i cui sottili viticchî, si può dire, avvolgono ogni anima.
La folla giuoca alla «loteria nacional» — che è una specie di lotto colossale — con un accanimento incredibile.
Le corse di cavalli offrono un altro sfogo alla manìa del giuoco. Vi sono a Buenos Aires sopra a trecento agenzie dette «casas de sport», specie di totalizzatori, dove tutti corrono a giuocare sopra i risultati delle corse che hanno luogo una volta alla settimana all’Ippodromo; e notate che queste «casas de sport» sono colpite da una tassa proibitiva di duecentomila pesos all’anno. Queste agenzie ricevono per ogni giorno di corsa 180,000 giuocate. 100,000 ne riceve il «Jockey Club» sul campo delle corse, e ciò porta ad un totale di circa mezzo milione di pesos per giornata, ossia ventiquattro milioni di pesos all’anno, eguali a sessantadue milioni di lire circa (giornale El Pais, 28 marzo). Sessantadue milioni puntati dalla sola Buenos Aires in un solo giuoco d’azzardo!
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Ma il giuoco che ha le conseguenze più disastrose per il paese è quello di Borsa. Alla Borsa di Buenos Aires si giuoca accanitamente. Le oscillazioni nei cambî prodotte dalla speculazione mettono spavento; si è visto il cambio dell’oro passare da 240 (ossia che ci vogliono 240 pesos in carta-moneta per ogni 100 in oro), a 238, poi a 241 e infine a 246 tutto in uno stesso giorno. Immaginate quali liquidazioni! Questo giuoco si basa sulla politica. Durante la questione col Cile si sono visti dei gelosi segreti diplomatici immediatamente propalati e discussi sui giornali provocando rialzi dell’oro di molti punti. Quando un giornale pubblicava un bollettino speciale troppo allarmante, bastava fare alla Borsa un’inchiesta dissimulata per sapere che il direttore di quel giornale aveva comperato in quel giorno, per mezzo dei suoi agenti, quaranta o cinquantamila pesos d’oro. Ricordo che quando venne ritirato il ministro plenipotenziario Portela da Santiago, io, con un certo orgoglio di pubblicista bene informato, osservai ad un signore mio conoscente, il quale gode relazioni politiche, che sapevo la notizia dal giorno prima; ed egli mi rispose sorridendo:
— E io ero prevenuto quattro giorni fa!
— Impossibile!
— Ecco la prova — e mi mostrò il conto del suo agente di cambio che attestava la compera di non so quante decine di migliaia di pesos d’oro fatta precisamente quattro giorni prima.
La speculazione non ha limiti. Con una politica incerta e convulsa come in generale sono sempre le politiche americane, col desiderio smodato in troppa gente di profittare delle occasioni per il proprio interesse, e con l’aggravante d’una crisi che ha molto assottigliato l’adipe della nazione rendendola più vivamente sensibile alle variazioni economiche di qualsiasi genere, l’influenza della speculazione di Borsa così esercitata è veramente disastrosa. Si sa bene, pur troppo, che in tutte le Borse si specula, come del resto in tutti gli ippodromi si giuoca; ma sono la natura e l’estensione del giuoco e della speculazione che qui rendono il male spaventoso. Rovinati dai cambî, molti negozianti cercano di rifarsi sui cambî, giuocando e alla Borsa di Buenos Aires vi sono nientemeno che quattromilacinquecento soci; una popolazione! Le grandi oscillazioni rendono più allettevole il giuoco; un solo colpo buono può essere una fortuna. Il giuoco poi per un fatale concatenamento mantiene grandi le oscillazioni. Sapendo le grandi somme che l’Argentina deve pagare all’estero, in oro, per gl’interessi dei prestiti non fosse altro, si comprende quanto il cambio fittizio fissato dalla speculazione sia rovinoso. Senza contare i disastri provocati da ogni liquidazione un po’ fuori della media prevista, senza contare la sfiducia e il discredito che vanno sempre più circondando nell’Argentina quanto è materia di finanza!
Che dire poi del giuoco vero, il giuoco classico e genuino che si fa intorno al tradizionale tavolo verde? Le bische sono innumerevoli. La città, i sobborghi, i paesi dei dintorni, i luoghi di villeggiatura e di bagni sono pieni di bische. Non ho cifre esatte sulle bische di Buenos Aires, ma si può immaginare quante mai potranno essere, sapendo che nella piccola città di Cordoba, la città detta la Santa e anche la Dotta, si conoscono quattrocentoventiquattro bische. In proporzione Buenos Aires dovrebbe averne diverse migliaia.
Sono queste bische che impensieriscono tanto oggi i Catoni della stampa, dei quali non pochi fanno come quel padre che, accorso in una casa di giuoco per sorprendervi il suo figliuolo scapestrato, e trovatolo ad un tavolo di baccarà, gli gridò con accento indignato: — Disgraziato, che fai? perchè, perchè... prendi carta sul cinque? Guarda come si fa — e si assise severamente al suo fianco.
La stampa non risparmia accuse veramente gravi e precise alle autorità che dovrebbero sorvegliare alla esecuzione della legge, la quale colpisce severamente le bische come le «casas de sport» con tasse proibitive. Ma chi ci bada? Il giornale Los Principios è arrivato persino a denunziare un commissario di polizia come... proprietario di una bisca!
Quanti milioni non passano giornalmente sui tavoli da giuoco? Non dimentichiamo poi di aggiungere alle bische i clubs dove si giuoca tremendamente. Cito un dato: il Club del «Progresso» incassa per le sole tasse di giuoco, ossia per la sola vendita dei mazzi di carte — il cui prezzo può variare a seconda l’entità del giuoco fino a quindici pesos — incassa, dico, dagli otto ai dodicimila pesos al mese; ossia, in un club solo i giuocatori pagano più di centomila pesos all’anno (250,000 franchi circa) per i mazzi di carte. Quale disordinato spostamento di ricchezze non deve portare un tale giuoco nella società bonearense?
A poco a poco tutto tende a diventare giuoco, dalle imprese alla politica; la via del lavoro è sempre più schivata come mezzo per raggiungere la prosperità e la ricchezza, perchè è una via troppo lunga e aspra e difficile in confronto delle altre. Si spende rapidamente; è necessario guadagnare rapidamente. Ne viene uno squilibrio nelle manifestazioni della vita sociale. La compagine morale della società s’indebolisce: e guai quando si rallenta o cessa di funzionare quel potente regolatore delle azioni umane che è la coscienza!
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Fra i mali che sono causati dal lusso e dal giuoco ve n’è uno che a noi interessa di più perchè ha un’influenza diretta sulle transazioni di denaro e perciò sugli affari. Intendo parlare dell’usura. I saggi d’interesse sono normalmente alti nell’Argentina (l’interesse legale ipotecario è del 12%) per la richiesta di capitale dovuta al rapido sviluppo della produttività del paese, ma ancora più per le diffidenze dei capitalisti, per i rischi provenienti dalla «indelicatezza» commerciale, ecc. Sono poi resi enormi quando a tutto questo si aggiunge la ricerca disordinata del denaro provocata dal lusso e dal giuoco.
L’usura diventa una cosa normale. Un’infinità di famiglie va avanti impegolandosi sempre più nei debiti in attesa della volada — un colpo di fortuna — o di una nuova pioggia di ricchezze, come nel ’90. Gl’impiegati che sono al corrente dello stipendio spesso lo scontano ai primi del mese; quelli che da mesi non lo possono ritirare vendono il loro credito verso il Governo o la Municipalità per i due terzi o per la metà.
Nel piccolo prestito il 50% si chiama un interesse onesto. L’«interesse onesto» però non è comunissimo. Secondo le circostanze si vede applicato un tasso dell’80, del 100, del 200%. L’interesse si calcola a mesi, e si dice perciò modestamente il 5, l’8, il 10%. Ciò che in realtà è il 60, il 96, il 120%. Pullulano gli ufficî di prestito su pegni e su garanzie che fanno operazioni dal 4-1/2 per cento in su (al mese, s’intende). Il male è così vasto che non si nasconde più. Si «opera» alla luce del sole. Si vedono degli avvisi agli angoli delle vie, sui giornali, nell’interno dei tramways, sui siparî dei teatri, che dicono: «Dinero! Dinero! Chi ha bisogno di denaro vada in via tale, numero tale, ecc., succursali in tutta la città». Sono stabilimenti molto riconosciuti! La réclame applicata all’usura è l’ultima parola del progresso. L’usuraio diventa una persona per bene, un essere rispettabile e rispettato, bene accolto. Se ne incontrano per tutto, nei clubs, nelle Società e persino nelle redazioni dei giornali. Alla domanda: Chi è quel signore? — vi rispondono con indifferenza: uno strozzino — come vi dicessero un avvocato, un ingegnere, un dottore.
Vedremo, parlando dei nostri connazionali, la rovina che l’usura porta nella campagna. Le sue conseguenze sulla prosperità generale sono evidenti.
Il lusso, il giuoco e l’usura formano tre anelli d’una stessa pesante catena che cinge le braccia della Repubblica Argentina. In essi troviamo ancora una ragione concomitante della gravissima crisi presente, e non certo la più lieve. E per questo male non v’è che una guarigione: il lavoro. Il lavoro domina le manìe dissipatrici.
Gl’italiani, nell’Argentina, sono generalmente tacciati d’avari. Essi conoscono troppo quanto costa il denaro per poterlo gettare, poichè lo pagano col sudore della fronte, che è quanto di più sacro e di più prezioso possa dare un uomo!
Note
- ↑ Dal Corriere della Sera del 12 giugno 1902.