L'Argentina vista come è/Ricchezze e miserie
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RICCHEZZE E MISERIE.1
Nel mese di aprile l'esodo di emigranti dalla Repubblica Argentina ha superato l'arrivo di 3032 individui, secondo le statistiche dalla Direcion de Emigracion. La differenza fra i partiti e gli arrivati sembra che aumenti di mese in mese in proporzione geometrica; il sintomo non è equivoco; l'Argentina è stata finora uno dei paesi che hanno assorbito la maggiore quantità di emigrazione europea, e debbono essere ben vaste e profonde le perturbazioni che oggi creano un tale rigurgito nella regolare corrente immigratoria che si era formata.
Questo solo fatto basterebbe a dare la misura delle gravissime condizioni della Repubblica Argentina, le cause delle quali abbiamo sommariamente e alla meglio rintracciato negli articoli precedenti, esaminando la politica, il governo, la giustizia, l'esercito e la società di quella giovane nazione.
A queste cause, che sono pur troppo permanenti, si aggiungono anche cause occasionali e transitorie — come ora la deficienza dei raccolti — le quali trovano l’organismo della nazione già spossato, incapace di resistere, e producono danni enormi, come quelle malattie di stagione che non danno che un leggero malessere ai forti, e colpiscono a morte gl’indeboliti. Mi diceva un giorno il governatore Freyre — il quale è salito da poche settimane al Governo di Santa Fè con un programma largo di promesse — che «se ci fosse un buon governo nell’Argentina basterebbero soli tre anni di raccolto sopra cinque per star bene.» Anzi l’eccellente uomo — il quale naturalmente trovava che il suo governo faceva eccezione alla regola — dopo un istante di riflessione ha soggiunto che «due soli anni di buon raccolto ogni cinque sarebbero tuttavia sufficienti alla prosperità del paese.»
In fondo, salvo l’esagerazione ottimista che ogni uomo di governo prova in presenza di un giornalista straniero, egli diceva la verità. Le sciagure argentine vengono dagli uomini e non dal paese. Il paese è ricco.
È ricco; ma potrebbe paragonarsi ad una miniera d’oro in mano a gente inetta e dissipatrice, di una Chartered che sperperi, che amministri in modo disastroso, che sfrutti ciecamente la ricchezza, che faccia dei debiti enormi. Intorno alla miniera d’oro si finirebbe per soffrire la fame. E la fame si soffre ora nell’Argentina.
La responsabilità degli uomini che reggono i destini di quel paese appare più grave ai nostri occhi se si paragona ciò che è l’Argentina oggi a ciò che potrebbe essere; se la tristissima e squallida miseria alla quale centinaia di migliaia di stranieri sono condannati, si pone a confronto delle prosperità che quella terra avrebbe potuto dar loro, in meritato compenso dei sudori e delle virtù che vi hanno prodigato.
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La prima ricchezza dell’Argentina è la vastità. L’Italia potrebbe esservi contenuta dieci volte; la Germania sei. Dalle regioni tropicali del Gran Chaco e di Missiones si svolge fino alle nevi eterne dello stretto di Magellano ed ai fiords ghiacciati della Terra del Fuoco; quasi tutti i prodotti della terra potrebbero esservi coltivati. Essa offre tutti i climi e tutte le altitudini. Le sterminate pianure delle Pampas, quell’oceano di terra, potrebbero offrire il grano per mezzo mondo. Gl’immensi fiumi Uruguay e Paranà, il Rio Colorado, e più giù nella Patagonia il Rio Chubut, il Rio Senger, il Rio Deseado potrebbero alimentare l’irrigazione di territorî sconfinati, e servire di via ad un immenso traffico fluviale che colerebbe nei porti marini per ripartirsi sulla terra. Nei boschi impenetrati del nord, quasi fuori del dominio umano, si celano i legni preziosi, il cautciù, la china, e nei boschi della estrema Patagonia e della Terra del Fuoco crescono gli abeti colossali e i pini che potrebbero essere la grande riserva dei legnami da costruzione del mondo. È vero che a dieci leghe da una ferrovia o da un imbarco il valore dei prodotti è assorbito dal trasporto; ma è anche vero che pochi paesi come l’Argentina si prestano a gettarvi attraverso delle strade ferrate, rapidamente e a buon mercato. Infine sulle pianure argentine pascolano ventidue milioni di buoi, quattro milioni e mezzo di cavalli, settantaquattro milioni di pecore. Pensate quale eldorado potrebbe essere questo infelice paese, dal quale tanti emigrati fuggono!
Quelle cifre hanno pur sempre un grande fascino per chi le considera astrattamente senza tener conto di tutte le circostanze che abbiamo esposto. Di quelle cifre si parla all’estero, e non si parla del resto. Il quadro descrittivo dell’Argentina è sintetizzato così: due milioni e mezzo di chilometri quadrati, dei quali ottocentomila coltivabili, cento milioni di animali da pascolo e meno di cinque milioni d’uomini; è una ricchezza senza riscontri nel mondo. Tutto il resto appare transitorio; i popoli si modificano, i cattivi governi passano, gli uomini muoiono, e la terra resta con i suoi tesori inesauribili. L’avvenire dell’Argentina è fulgido e sicuro! Correte a prendere i primi posti o folle di emigranti! perchè indugiate? correte presto; e che importa se voi e anche i vostri figli morrete soffrendo prima che si alzi il sipario! Pensate alle future civiltà neo-latine, e correte....
È bello fantasiare sul futuro, ma noi non possiamo uscir fuori della vita attuale per mirarne la storia attraverso la seducente prospettiva dei secoli. Non possiamo fissare unicamente, impassibili, i lontani successi d’una guerra senza vedere nè voler vedere la infinita schiera dei caduti, senza sentirci chiamati dal disperato appello dei loro gridi, senza sentirci trascinati a lenire le loro sofferenze, sopra tutto quando si tratta di nostri fratelli, e la guerra è per altri paesi: e specialmente poi quando riconosciamo che le vittime cadono non per la fatalità ineluttabile, ma per le inettitudini e le colpe di altri!
Nell’Argentina bastavano i caduti nella conquista della terra selvaggia, nella tenace lotta contro la natura che difende strenuamente i suoi possessi incontaminati. I nostri lavoratori hanno forte il cuore come forti le braccia; essi accettano con l’animo lieto di speranza quella lotta pericolosa la quale porge poi bene spesso il conforto e il compenso del trionfo.
Ma tutti gli altri caduti? Tutti coloro che dopo anni ed anni di tenace lavoro debbono abbandonare la terra da essi vinta alla Pampa, flagellati dalla miseria che ha tolto loro persino gli attrezzi del lavoro, che li ha sorpresi deboli e sfiniti, sfruttati e spremuti, alla prima avversità? Vedremo il seguito come da Entre Rios, da Cordoba, da Santa Fè, da ogni parte giungano le notizie della nera miseria di quegli infelici, che sono oggi più poveri di quando giunsero laggiù perchè non posseggono più il fatato tesoro della speranza.
Più volte nelle campagne ho incontrato piccole carovane d’emigranti, col volto logorato dalla sofferenza, curvi sotto il fardello dei cenci, e percorrenti così intere regioni per centinaia di chilometri in cerca di lavoro, domandando ricovero nelle capanne, arrestati spesso dalla sfinitezza, sferzati sempre dalla fame! Parlando particolarmente dell’emigrazione dovrò disgraziatamente intrattenere l’amico lettore su questi fatti, che sono mostruosi in un paese dove pascolano cento milioni di animali.
Cinquecento italiani disoccupati a Bahia Blanca hanno pubblicato un manifesto che dice: «Ci troviamo senza pane nella più squallida miseria. Molti di noi da due giorni non mangiano; le nostre mogli e i nostri figli hanno fame. Noi non chiediamo che della terra da lavorare!...». Non è inesplicabile questo nel paese che ha quasi un milione di chilometri quadrati di terra che aspettano il lavoro?
Il numero dei disoccupati che veniva calcolato a centoquarantamila tre mesi or sono, ora si ritiene aumentato di un buon terzo a causa dell’inverno australe che porta anche in tempi normali un rallentamento in molti lavori. A Buenos Aires oggi i disoccupati sarebbero ottantacinquemila, secondo notizie degne di fede. A tanto è ridotta quella terra promessa, da tutti quei mali che conosciamo. L’immensa piovra della politica oligarchica la tiene sotto le spire dei suoi tentacoli, e le assorbe il sangue della ricchezza. L’Argentina ha dissipato molto più di quanto ha prodotto, fino a stremare alcune fonti della sua stessa prosperità, a indebolire la sua attività produttrice. Perchè in fondo le ricchezze del suolo argentino, che sono immense, fanno pensare ad un tesoro chiuso in una cassa forte della quale non si è buoni a girare la chiave. Il tesoro c’è, ma non si può contare certo su di esso per un immediato sollievo. È inutile che l’Argentina sia sconfinata e varia; il ricco deserto oggi non conta che come un insieme di nomi e di segni geografici; l’Argentina vera sulla quale pesa tutta la miseria del presente è relativamente piccola, e non sorpassa i confini della parte sfruttata. Questa parte sopporta tutti i mali; e poniamoci bene in mente che ogni espansione rappresenta uno sforzo che il paese non potrà mai fare finchè non si sarà sollevato dalla prostrazione che lo accascia. È il problema del presente che s’impone dunque; esso si deve studiare fin dalle sue origini, e lasciamo le splendide fantasticherie dell’avvenire all’avvenire!
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I governanti argentini vedono le cose semplicemente: la produzione risulta insufficiente di fronte alle spese? Aumentiamo dunque la produzione. E come? Con nuova immigrazione. Così si assiste al curioso spettacolo del Governo argentino che chiede emigranti persino al Transvaal, mentre più di duecentomila operai nella Repubblica stessa domandano inutilmente lavoro.
Bisogna guarire prima! Le trasfusioni di nuovo sangue rendono forti i deboli ma non sanano i malati! Si faccia una diagnosi accurata della Repubblica Argentina.
I suoi debiti con lo straniero, debiti molteplici e complicati, si aggirano intorno a quattrocento milioni di pesos oro, ossia due miliardi di franchi; e con questo l’Argentina non è padrona delle sue ferrovie che per una parte insignificante. Vi sono poi i debiti interni dello Stato, e i debiti delle singole provincie, i debiti dei Municipî, che formano un cumulo enorme di passività. Il pagamento degli interessi per i prestiti all’estero, più il pagamento dei dividendi dei capitali stranieri impiegati nel paese, rappresenta un impoverimento che il superavit attivo formato dalla esportazione sull’importazione — circa cinquanta milioni di pesos oro all’anno — non basta a compensare. Poi vi sono le spese ordinarie, enormi, sproporzionate, dato il carattere dell’amministrazione argentina; e vi sono le spese straordinarie; e gli armamenti. L’economia nazionale è caduta in uno stato d’acuta anemia. La produzione non ha trovato più i suoi compensi: i suoi sforzi poderosi sono fiaccati. Il peso delle imposte è divenuto troppo grave; e meno le imposte rendevano per l’impoverimento progressivo, e più sono state ampliate per la necessità dei bilanci. «L’imposta interna è esorbitante — scriveva l’8 di febbraio la Prensa, il più grande giornale argentino — e vi sono regioni da essa rovinate; la massa della popolazione la sente come un carico insopportabile, sempre più pesante». Un sistema di protezionismo feroce ha colpito il commercio, che in nessun posto ha tanto bisogno della libertà massima quanto nei paesi in via di sviluppo. Scemati gl’introiti doganali si è aggiunto una percentuale alle tariffe: si sono create delle tasse d’esportazione. I rimedî sono peggiori del male; si fa dell’empirismo finanziario, il quale non impedisce che le entrate non corrispondano più esattamente alle previsioni. L’impoverimento ha un termometro quasi sicuro nel cambio dell’oro che è salito sopra al 240. Le produzioni sono colpite, il lavoro deprezzato. «Gli uomini i più intraprendenti e animosi non trovano un campo dove applicare le loro iniziative; parrebbe che l’Argentina vigorosa e piena d’energia sia stata trasformata in un paese estenuato, esaurito, avente appena tanta vita da fornire lo scarso pane quotidiano.» (Prensa).
La crisi si allarga, invade tutto. «Chi non sente il disastro? Non v’è un solo fenomeno della multipla attività nazionale che non attesti la crisi. Nelle campagne come nelle città, nelle imprese agricole come nelle officine, nell’ufficio dei grandi negozianti, come nello spaccio del venditore, nella casa della famiglia benestante come nelle abitazioni dell’operaio, si sente lo stesso malessere, si parla con paura e con angustia delle penose difficoltà che vi sono per provvedere alle prime necessità della vita» — scriveva lo stesso giornale, che cito a preferenza, oltre che, per la sua importanza anche perchè è stato quello che più mi ha gridato la croce addosso per le mie prime lettere argentine. Si giunge al punto che mancano i fondi per pagare i piccoli stipendî. «Per la prima volta da venticinque anni» — scriveva El Pais, noto giornale portavoce del finanziere senatore Pellegrini — «si arriva al primo del mese senza che la tesoreria abbia i fondi necessarî per pagare gli stipendî dell’amministrazione.»
A Buenos Aires i pensionati delle amministrazioni restano otto mesi senza ricevere un soldo. Il Governo non paga talvolta nemmeno gli operai, che pure non hanno altre risorse fuori del loro lavoro. Vediamo gli operai del porto di Riachuelo — tutti italiani — rifiutarsi al lavoro perchè da due mesi non sono pagati. Lo sciopero ha per effetto il licenziamento immediato di molti, ma non certo l’immediato pagamento. Nello scorso mese di maggio centocinquanta italiani che lavoravano alla costruzione di caserme a Mendoza si sono posti in sciopero, perchè dal primo di gennaio non avevano ricevuto un centavo di paga, e vivevano di piccoli debiti caritatevoli fatti presso dei fornitori, trascinando una esistenza di miserie indescrivibili. Dopo alcuni giorni di trattative hanno ricevuto tre mesi di paga e sono stati licenziati tutti. Il direttore dei lavori, un tenente, gridò ai soldati di cacciarli sulla via, e se resistevano di prenderli a bastonate — a garrotazos. Durante gli arrolamenti per la marina, fatti nel tempo delle ultime difficoltà diplomatiche col Cile, vennero contrattati qualche centinaio di macchinisti e fuochisti per la squadra, in massima parte italiani. Cessato il pericolo d’un conflitto, le navi passarono in disarmo e gli arrolati vennero sbarcati e congedati, ma senza pagare loro la mercede stabilita; una lettera sulla Patria degli Italiani del 30 marzo fa sapere che in quel giorno ancora non erano stati soddisfatti quegli impegni.
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E se questo fa il Governo centrale, figuratevi quello che fanno i governi provinciali. Nel febbraio passato il Governo della Plata doveva più di tre milioni di lire di stipendî arretrati; e s’intende di piccoli stipendî dovuti a stranieri, oppure a impiegatucci che per la loro situazione non hanno peso nell’organismo elettorale — come, per esempio, i maestri. I grossi stipendî corrono sempre, cascasse il mondo. E per parlare di maestri soltanto ecco qualche dato: i maestri di Salta debbono avere più di un anno di stipendio; quelli di Chacabuco, quattro mesi; quelli di San Juan, quattordici; quelli di Entre Rios, nove. A Paranà si è festeggiato un centenario; il corpo insegnante, invitato alle cerimonie, ha rifiutato per non avere vestiti.
I Municipî stanno peggio dei Governi. Il Municipio di Buenos Aires, in stato di semi-fallimento, e posto perciò sotto una specie d’ufficio di tutela, è divenuto quasi insolvibile per la massa dei suoi fornitori — quasi tutti stranieri — molti de’ quali, visti i loro contratti violati, hanno inviato alla Intendenza di finanza una protesta, che è una vera requisitoria contro l’amministrazione. Gli spazzini municipali e tutti gli altri operai giornalieri, quasi tutti italiani, debbono avere quattro mesi di paga! Essi hanno inviato alla Patria degli Italiani una lettera che commuove tanto vi traspare l’orrore della loro situazione.
Da questi dati s’indovina il resto. Alle disastrose condizioni delle amministrazioni pubbliche fanno riscontro quelle delle amministrazioni private. I fallimenti si seguono continuamente; cadono dei colossi. Nella città di Mendoza, che aveva fama di essere fra le più prospere della Repubblica, in sessanta giorni hanno chiuso gli sportelli quattro Banche. Le lettere di credito subiscono uno sconto dal 25 al 40%. Tutti i commerci e tutte le produzioni sono più o meno in crisi; in Entre Rios, a Cordoba, a Santa Fè c’è la crisi agraria, a Mendoza e a San Juan la crisi dei vini, a Tucuman la crisi degli zuccheri. I suicidî aumentano; «il fatto caratterizza la crisi tremenda che attraversa la Repubblica» — ha scritto la Patria.
La tendenza purtroppo naturale a sfruttare il lavoro straniero, trova facile incitamento nelle ristrettezze finanziarie. In certi casi è stata negata agli operai la mercede pattuita, dopo lunghi mesi di pesante lavoro compiuto nelle estancias, sui campi, in qualche fabbrica di zucchero; e intanto quegl’infelici vivono di fame! Conosco varî di questi casi interessanti concernenti più di cinquecento operai; e dovrò tornare a parlarne diffusamente.
La Patria degli Italiani, giornale certo non sospetto d’idee sovversive, e nemmeno d’animosità contro il Governo argentino, scriveva il 12 aprile: «Noi riceviamo quasi ogni giorno dei lagni e dei reclami da parte di nostri umili compatriotti, che ci denunciano le ingiustizie di cui sono vittime, le frodi che si compiono in loro danno da persone che calpestano le leggi, francheggiati dall’impunità loro garantita da autorità dimentiche dei loro doveri e destituite di senso morale. Noi vediamo non solo svolgersi un sistema di sfruttamento iniquo, ma violarsi altresì le leggi che dovrebbero garantire le mercedi. Così si commettono le più nere ingiustizie, così si ruba di bocca il pane a chi suda per guadagnarselo, così si perpetua uno sfruttamento infame delle classi lavoratrici. Noi non siamo disposti a renderci complici con un silenzio compiacente, il silenzio della stampa argentina più autorevole, di questo stato di cose, che è una ignominia per la Repubblica e che nessuna onesta penna deve tollerare.»
Ora nelle campagne migliaia di peones — braccianti — lavorano per la sola comida — il cibo — e che comida! In alcune colonie i contadini mancano di pane: a Sunchales, per esempio, ed a Sant’Agostino. Un corrispondente scriveva da San Luis alla Patria nel febbraio: «Se sono vere le notizie che arrivano, non solo i bestiami sarebbero morti per fame in questi dintorni — il che era noto — ma anche persone. Si ebbero casi di famiglie perite di miseria.» Se la notizia non era esatta era però, come si vede, tale da trovar credito, e fra le genti del luogo e a Buenos Aires, e sulle colonne dei giornali. Dalla stessa località arriva questa notizia: «la moneta ha completamente emigrato, e perciò il commercio funziona col sistema del cambio delle merci!» È un passo indietro verso le forme primordiali della civiltà.
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Tutto questo ci mostra quali sono le maggiori vittime del contraccolpo della crisi generale. Possiamo quasi dire che se tutto il male è argentino, gran parte del dolore che esso provoca è italiano. Le masse degli umili, dei poveri — che sono disgraziatamente le masse dei nostri emigranti — pagano di borsa e di persona le spese di tanti errori.
E quale rimedio si escogita? Quello di fomentare nuova immigrazione! È come se per salvare una nave in pericolo si tentasse d’aumentare il numero degli imbarcati! La nave argentina è buona ed ha in sè la forza di salvarsi; ma è necessario che dal ponte di comando si veda la rotta, che si sondi il pericolo, si fugga dai paraggi torbidi e tempestosi. Il mare libero è là, infinito, luminoso, splendido, che invita a correrlo verso i lontani lidi d’una migliore civiltà, ai quali gli altri Stati volgono la prora in una gara sublime. Su via, una forte mano al timone, e si viri di bordo!
Note
- ↑ Dal Corriere della Sera del 17 giugno 1902.