Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte II/Capitolo II
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Governo di Zotone, primo duca dei longobardi e di Arechi
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CAPITOLO II.
Alcuni non volgari scrittori assunsero a dimostrare che Aginulfo, Re dei longobardi, fondasse il ducato di Benevento, ma l’opinione seguita più comunemente si è che il primo duca di Benevento fosse stato Zotone o Zottone. Ma anche in quanto al tempo in cui questo prode e barbaro guerriero fu eletto duca dello Stato più importante del Sannio, son varie le opinioni degli eruditi, e incerte le tradizioni. Da molti si crede che Autari re dei longobardi, invaso il Sannio nel 585, campeggiasse Benevento difesa da un presidio greco, e che, espugnatala, ne costituisse un novello ducato col territorio adiacente sotto il governo di Zotone, uno dei primi condottieri delle sue genti, aggiungendo questo ducato ai due del Friuli e di Spoleto. Altri scrittori invece han creduto che Zotone fosse stato assunto dai trenta duchi alla Signoria di Benevento, ma gli storici più accurati tanto italiani che stranieri ritennero che fu eletto duca dal re Alboino nell’anno 571. E però, in tanta dissonanza di opinioni e oscurità di fatti, nel narrare le principali vicende del governo di Zotone, mi atterrò anzitutto a pochi contemporanei scrittori tedeschi che si fecero a studiare di proposito un sì difficile periodo dell’istoria del medio evo, nonchè alle copiose cronache locali.
Il ducato di Benevento nei primi tempi della Signoria di Zotone fu certamente limitato alla città di Benevento e al breve territorio circostante; ma nei quattro lustri che Zotone resse il suo piccolo Stato, gli venne fatto di dilatarlo man mano, e di estenderlo sulla massima parte dell’Italia meridionale. Però delle sue prime conquiste ci fan difetto le minute notizie, nè abbiamo certezza del numero e valore delle sue schiere, nè degli anni durati per sottomettere tante terre e castella, nè in quali paesi ebbe a durare maggiori difficoltà. Ma con tutto ciò non è dubbio che egli conducesse queste guerre senza concorso alcuno dei re longobardi, imperocchè il re Alboino fu trucidato nel 573, e si ha per indubitato che non estese le sue conquiste nell’Italia meridionale; e Clefi, il suo successore, perì gloriosamente in battaglia dopo un anno e mezzo di regno, e alla sua morte seguì un periodo di dieci anni, nel quale i longobardi non elessero altri re, e i loro trentasei duchi, che tennero in quell’intervallo di tempo il governo del regno, non attesero ad altro che a serbarsi indipendenti.
Ma se a Zotone non fallì il disegno di conquistare agevolmente nel volgere di pochi anni, e unicamente con le proprie forze, le migliori contrade del mezzodì d’Italia, ciò provenne in primo luogo dall’essere stato in quel tempo l’imperadore Tiberio, succeduto a Giustino, per guisa occupato nella guerra persiana, da non trovar modo di spedire un pò di armata nell’Italia inferiore. E benchè non si abbia una notizia ordinata delle gesta di Zotone in quel tempo, egli è per lo meno assai probabile che nell’anno 577 i longobardi invadessero la Campania, ove ad un tempo insieriva il duplice flagello della peste e del caro dei viveri, e che facendo lor pro delle misere condizioni di quei popoli riuscisse facile ad essi di conseguire la spontanea dedizione di molte castella assai bene munite.
Nel decembre del 581, i longobardi cinsero d’assedio la vasta e quasi inespugnabile città di Napoli, da cui furono astretti tra non molto a levare il campo, sfiduciati di poterne mai acquistare la signoria. E anche con varie città della Campania tornaron vani gli iterati sforzi dei longobardi per ridurle alla loro soggezione, intanto che la lotta tra i due popoli confinanti si protrasse a lungo, e non ebbe termine che sul finire del secolo.
In quel tempo fu messo a gran repentaglio il regno dei longobardi per la contratta alleanza tra il re dei Franchi e il greco imperadore Maurizio. Ma i longobardi, fatto miglior senno, disfecero il dominio assoluto dei duchi ed elessero a re Autari figlio di Clesi, il quale fu riconosciuto dallo stesso Zotone. Un tal cangiamento di governo nel regno dei longobardi non impedì a Zotone di mandare a fine altre conquiste, sicché tutti gli altri ducati, di che allora si componeva il regno dei longobardi, non poteano a gran pezza essere uguagliati a quello di Benevento.
La guerra della Campania riarse più siera negli ultimi anni del regno di Zotone, il quale sullo scorcio dell’anno 590 devastò la città di Asina, in cui trovò la morte il santo vescovo Felice, e deve attribuirsi alla sagacia del pontefice Gregorio Magno, se varii altri stati devoti al greco impero, non soggiacquero alla dominazione dei longobardi.
Nell’antica Lucania furono tre vescovi lasciati in abbandono dall’intero clero. E tanto in questa contrada quanto nell’estrema parte meridionale ed occidentale della penisola, i longobardi non serbarono alcuna misura nelle rapine, e nei saccheggi, ma lo stesso non accadde nell’interno dei loro stati, e massime nel ducato di Benevento, ove intesero a migliorare le condizioni dei popoli; forse perchè ivi erasi compiuta la conquista, senza quasi alcun colpo ferire, e potea Zotone reggere a suo talento lo Stato senza tema di sedizioni e tumulti.
Questo primo duca di Benevento, il quale con ragione può essere ritenuto come il sondatore d’un sì ampio e potentissimo ducato, non ebbe mai chi limitasse in modo alcuno il suo potere. Fu uomo assai prode della persona, ma d’indole efferata e crudele, rapacissimo oltre ogni credere, e avido di bottino. Avverso ad ogni culto, e avendo anzitutto in odio i monaci, pose a sacco e a fuoco, e distrusse il miglior monumento della monastica gloria, il chiostro di Montecassino, fondato dal celebre S. Benedetto, nativo di Norcia città dell’Umbria, come narrano minutamente molti storici, e specialmente il P. Luigi Tosti nella sua istoria della Badia di Montecassino, corredata di preziosi autentici documenti.
Nell’anno 591 passò di vita Zotone, e benché egli avesse retto il ducato con assai poca dipendenza dal reame longobardo, pur tuttavia non si credette di dover contendere al re la nomina del successore di Zotone. Agilulfo, re dei longobardi, succeduto ad Autari, stette lunga pezza dubbioso sulla elezione del nuovo duca di Benevento, a cui egli annetteva la massima importanza; ma alla fine la sua scelta cadde su un longobardo di alto lignaggio nel Friuli, per nome Arechi. E non è a dubitare che Agilulfo con la scelta d’uno straniero argomentasse di potere più agevolmente esercitare un certo imperio su quel lontano e floridissimo Stato. Arechi tenne felicemente per dieci lustri il governo di Benevento, e diede alla nuova duchea una stabile costituzione: però non fu senza ambizione, e nei primi anni del suo governo attese a tutt’uomo a riaffermare e dilatare le conquiste intraprese con tanto successo da Zotone. E quindi la Campania fu nuovamente teatro di guerre, poiché Arechi strinse d’assedio le città non anche occupate dai longobardi, le quali, perché sfornite di valido presidio e non difese dai greci, che erano esausti dalle lunghe guerre combattute contro i persiani e gli arabi, si arresero a discrezione, non potendo coi soli proprii sforzi ributtare gli iterati assalti delle poderose e agguerrite schiere nemiche.
Nel 592 Arechi collegatosi col duca di Spoleto tentò la presa di Napoli, a cui furon sempre volte le mire dei longobardi; e quella nobilissima città incorse in assai grave pericolo, non solo per lo scarso presidio, ma più ancora perchè gli fece difetto un abile e prode capitano. E senza dubbio sarebbe venuta in potere dei suoi avversarii, che erano intesi con ogni sforzo ad espugnarla, senza l’interposizione del pontefice Gregorio, da cui ebbe Napoli a riconoscere la sua salvezza. Questi vi mandò il tribuno Costantino, egregio condottiere, il quale seppe in breve tempo acquistarsi F amore e la fiducia delle soldatesche assembrate in Napoli, che da lunga pezza eransi sottratte ad ogni dipendenza; dopo di che si adoperò in modo nella difesa della città, da indurre i longobardi a togliersi all’intutto da quella impresa. Ma non andò molto che questi, bramosi di ritentare la sorte delle armi, si accamparono contro Capua, traendo ardire dalle interne sue dissenzioni, e infatti la presero d’assalto probabilmente nel 596. E fu allora che il pontefice ruppe in alti lamenti per le misere condizioni della Campania, mandando assai denaro per il riscatto dei prigionieri, e richiamò in Roma il vescovo di Capua, il quale erasi ricoverato in Sicilia. In quel tempo anche Yenafro ed Amalsi addivennero preda dei longobardi, i quali si dichiararono ivi assai ostili al vescovo ed al clero; e in seguito estesero i consini dei loro stati con la signoria di Crotone nel 597, ove devastarono la principale delle sue chiese, i cui sacr 1 arredi furono trafugati in Sicilia, e quindi col consentimento del pontefice venduti per il riscatto dei prigionieri.
Ed è fama che, dopo espugnata Crotone, l’avvenenza di assai donzelle crotonesi, che furono tratte prigioniere in Benevento, potè tanto nell’animo dei longobardi che eran primi per altezza di natali e ricco censo, da farle incontanente loro spose. Nell’anno 595, o in quel torno di tempo, fu proposta dal re Agilulfo all’esarca Callinico una tregua di tre anni alle ostilità, a cui aderì Adelchi con questo però che gli fossero restituiti alcuni possedimenti perduti; e infine piegandosi tutti ai consigli e alle esortazioni del Pontefice Gregorio Magno, fu conchiusa la pace, la quale si protrasse sino all’anno 601.
Indi, riarsa nuovamente la guerra per la perfidia dei greci, anche nell’Italia inferiore furono riprese le ostilità, ma tuttavia non vennero meno gli amichevoli accordi tra il Duca e il pontefice. E questi, lieto della pieghevolezza del duca, non gli si mostrò più avverso, tanto che venuto in pensiero di avvalersi per la disegnata costruzione della chiesa di S. Pietro e di S. Paolo delle travi di cui abbondavano i boschi negli Abruzzi commise al suddiacono Sabino di far capo in tale bisogno ad Arechi, a cui spedì lettere onde ne agevolasse l’impresa. E a significargli subito dopo il suo grato animo, il pontefice donò al duca il corpo di S. Modesto Diacono e martire, che da Roma fu trasferito in Benevento con solenne pompa, essendogli andato incontro Luciano vescovo col clero, e il medesimo Arechi con le sue milizie, e tutto il popolo con ceri accesi. Il corpo del santo fu condotto con inni e lodi alla chiesa di S. Maria ad Olivola, ove fu assai onorevolmente deposto. Ma non andò molto che fu trasferito in una nuova chiesa eretta da Duda Parda nobile dama beneventana, la quale si denominò chiesa di S. Modesto, il che, secondo ne scrisse Mario della Vipera nella sua cronologia, ebbe luogo nell’anno 649.
Da quell’epoca in poi null’altro si conosce delle geste militari di Arechi, tranne la conquista di Salerno, mandata a fine negli ultimi anni del suo regno, e, a quel che pare, dopo l’anno 625. Una tale conquista accrebbe l’importanza del ducato di Benevento, in quanto che, nella Campania, Salerno era in quei tempi la sola città con porto di mare, ed essa, sottoposta alla duchea di Benevento, ne desunse non lievi vantaggi pei tanti beneficii che le furono prodigati dai longobardi.
Arechi negli ultimi anni del suo governo si dichiarò favorevole ai greci, e n’è prova che avendo alla corte del re Rotari mandato il suo figlio Aione, questi nel suo viaggio visitò Ravenna, città principale dell’Esarca, e si ritenne che colà gli fosse stata apprestata una fatale bevanda che ingenerò quel disordine nelle sue facoltà mentali, da cui fu colto qualche anno appresso.
Non può dubitarsi che, durante il regno di Arechi, fu compiuta la conquista della parte meridionale d’Italia, e che allora il ducato di Benevento toccò il colmo della sua potenza, ed ebbe quegli estesi confini che con piccole variazioni conservò ne’ tempi posteriori. Esso infatti comprendeva la massima parte dell’Italia inferiore: al Nord Ovest confinava col ducato di Spoleto, e si prolungava oltre le terre degli Appennini centrali, nella Lucania, e nella parte settentrionale de’ Bruzii, estendendosi altresì in tutta la Campania interna, sulla costa di Salerno, e per tutto il lungo tratto di territorio, privo di porti, ove mette foce il Yolturno.
Riguardo poi alle relazioni tra i longobardi e gli indigeni nel tempo del governo di Arechi, ai cenni generali fatti nel capitolo precedente, aggiungerò poche altre cose a schiarimento di questo oscuro periodo della nostra istoria.
Tutti i possessori di terre assumeano l’obbligo di pagare un annuo tributo, e per tal modo erano pareggiati nei dritti agli abitanti delle città. Coloro poi che non eran liberi, o che fruivan solo di una media libertà, addivenivano Aldi, secondo il linguaggio dei longobardi. E come tali eran posti sotto il protettorato di un patrono che li rappresentava in giudizio, e al quale spettava l’ammenda cui fossero stati condannati a pagare, o invece eran tenuti verso i patroni alle prestazioni, le quali consistevano nella cessione della terza parte delle loro entrate, e nel rendere ad essi certi determinati servigi personali. E per questo appunto non poteano gli Aldi disporre a lor talento delle proprie facoltà o concedere la libertà agli schiavi. Con tutto ciò non potea tenersi a vile la condizione degli Aldi, poichè l’ammenda che d’ordinario soleano pagare era tenue, possedeano vistose entrate, di cui non era contesa ad essi la libera amministrazione, e poteano a lor grado contrarre legittime nozze con le donne libere. In quanto alla divisione dei terreni spettava al sovrano una parte della proprietà rurale ed urbana degli stati sottoposti alla signoria longobarda, e gli stessi dritti sottosopra esercitavano anche i duchi nella cerchia dei loro dominii. I singoli longobardi possedevano delle terre più o meno estese, che erano coltivate dai loro schiavi, e dai prodotti dei loro beni sottraevano una parte che era divisa equamente tra gli Aldi loro assegnati.
Nè erano gran che diverse le condizioni dei beneventani, e in generale di tutti gli abitanti del ducato ai tempi di Arechi, dacché troviamo denominarsi tertiatores, cioè tributarii del terzo tutti coloro che possedevano dei beni, ai quali era inerente l’annuo tributo. Intorno all’origine del detto nome, e alle relazioni tra i due popoli, si fa parola nei due trattati conchiusi in Napoli dai due principi beneventani Arechi e Sicardo. Il primo di questi documenti, il cui originale fu compilato probabilmente nell’anno 786, ma che ci fu conservato in una dizione rifatta di epoca assai posteriore, contiene delle notizie sulla contrada Liburia, la odierna Terra di Lavoro, che per la sua ampiezza e feracità fu sempre argomento di contese tra la città di Napoli e il ducato di Benevento, e che man mano si rese, sarei per dire, una terra comune tra i due stati rivali. In quel trattato fu stabilito che tutte le terre le quali da venti anni erano state esenti da tributi, sia che appartenessero ai longobardi, sia ai napoletani, fossero divisi con equa misura tra i due popoli. A coltivare e popolare quei latifondi si acquistarono degli schiavi, dei quali una parte fu divisa, e l’altra fu considerata quale proprietà comune, e quindi in processo di tempo divennero tertiatores o censiles, cioè tributarli, con questo però che ove fossero segno alla prepotenza dei signori, e disdegnassero un tal tenore di vita, potessero a lor piacere recarsi in altre contrade.
L’altro trattato di pace compilato dal principe Sicardo in Napoli nell’anno 836 racchiude svariati chiarimenti intorno ai tertiatores. Essi vi sono denominati qui se dividunt, il che suona gente in comunione di vita tra i due popoli che coabitavano sul medesimo suolo, non altrimenti che ai tempi di Arechi. Essi inoltre non poteano essere venduti a schiavi che solo nel caso si fossero resi colpevoli di un omicidio, o che vi fosse prova di averlo per lo meno tentato. Per antica consuetudine erano astretti a soddisfare alcune determinate tasse, ma era però vietato a chicchessia di sottoporli ad altri tributi; ma di questo trattato non esistono che pochi frammenti, e quindi non è dato trarre da bessi, che pochi cenni intorno ai detti tertiatores.
Ma oltre di tali documenti autentici ce ne avanza altresì uno privato del secolo ottavo, da cui si rileva che costoro appellavansi tertiatores communes, il che denota che erano tributarli nello stesso tempo dei longobardi e dei napoletani.
Da altri documenti di meno antica data risulta che nella stessa contrada esisteva una classe di uomini denominati hospites, la cui condizione era affatto simile a quella degli Aldi. Essi erano possessori di beni fondi, pagavano puntualmente ai signori il loro tributo, secondo l’usanza, ed aveano degli schiavi che adoperavano nei loro bisogni.
Rispetto poi alla religione, i longobardi, che avean dimora in Benevento ai tempi di Zotone ed Arechi, furono poco propensi alla religione cattolica, quantunque una tale avversione non degenerasse mai in persecuzione religiosa, ma si manifestò nella soppressione di molti vescovadi, che rimasero temporaneamente aboliti, e non furono richiamati a nuova vita che sullo scorcio del settimo e nell’ottavo secolo; poichè in quel tempo si suscitò nei longobardi il sentimento della vita monastica, e la venerazione e quasi un culto pei claustrali, onde si restaurarono gli antichi chiostri, e se ne eressero dei nuovi. Per la qual cosa è a ritenere che durante un secolo e anche più non si scorse alcun vestigio nel ducato di Benevento, e forse in tutta l’Italia inferiore, di culto ecclesiastico, per essere stato manomesso quell’ordinamento nelle cose della chiesa, che nei tempi precedenti erasi stabilito in queste contrade. E sebbene da Arechi in poi i duchi di Benevento si fossero resi cattolici, abbracciando la fede dei vinti romani, pur tuttavia la loro conversione fu cosa del tutto esteriore, giacchè vissero ignari dei principii e del vero spirito del Cristianesimo. E anzi anche ai tempi del duca Romoaldo, cioè nella seconda metà del settimo secolo, adoravano immagini di bruti e alberi, e professavano in varii modi l’idolatria. E la ripugnanza che i longobardi di Benevento provarono nei primi tempi per la religione cattolica si argomentava pure da ciò, che dove in altri stati longobardi gli ecclesiastici, da Aldi che prima erano o schiavi di nascita, in virtù del loro ufficio, furon dichiarati liberi cittadini, nelle terre invece che componevano la duchea di Benevento, troviamo, anche in tempi posteriori al governo di Arechi, gli ecclesiastici privi di libertà, e taluni tenuti in condizione di schiavi, e finanche venduti dai loro padroni, e ignorasi se un tal fatto debba essere ritenuto come un abuso dei tempi ulteriori, o non anzi per una continuazione dell’antico ordine di cose.
Un’altra differenza di gran momento tra le condizioni dei beneventani e quelle degli altri popoli dominati dai longobardi consisteva in questo, che nel ducato di Benevento non si riconobbero mai beni di proprietà del re, nè dei demanii reali 5 imperocchè siccome la conquista degli stati beneventani fu da Zotone e dai bellicosi suoi successori compita con le proprie forze, così essi soli ne raccolsero il frutto, per modo che tutte le terre acquistate furon divise tra i singoli longobardi, e giudicate proprietà ducale. E quantunque sia noto che quando Autari ascese al soglio longobardo fu fatto comando ai duchi di cedere la metà dei loro possedimenti alla rediviva monarchia, pure è innegabile che i duchi di Benevento non seguirono l’esempio degli altri, poichè non si vide in questo ducato vestigio alcuno di possedimenti reali.
Da una lettera diretta dal pontefice Gregorio ad Arechi, in cui si fa menzione degli actionarii nei paesi abitati dai Bruzii, si rileva che nei paesi conquistati vi erano degli impiegati addetti ad ufficii civili, e benchè non se ne abbia certezza, pure sembra molto probabile che essi impiegati non fossero stati nominati dal re, come avea luogo nella massima parte degli altri stati longobardi, ma sibbene dal duca, poichè dipendevano esclusivamente da esso, e ciò attesta la costituzione autonoma del ducato, E anzi pare che i re longobardi in queste regioni, cotanto remote dai punti più centrali del loro reame, non intesero mai di proposito a introdurre istituzione alcuna che mirasse a bilanciare la potestà ducale, come con successo più o meno felice eseguirono negli altri ducati. E per certo non si può dubitare che se il re Agilulfo avesse colta l’occasione favorevole che gli si era presentata dopo la morte di Zotone di dare solide fondamenta alla potestà regia anche in questo ducato, non gli poteva fallire l’intento, ma non avendo saputo trarne vantaggio, non sarebbe stato agevole a’ suoi successori di tentare una tal prova.
Tutte le scarse notizie adunque che di quei tempi ci è stato possibile di raccogliere ci fan fede che Arechi si serbò indipendente dai re di Pavia. Egli è vero che allorquando fu assunto al regno longobardo il celebre Rotari, il quale con la fermezza de’ suoi propositi e l’energia del carattere dilatò i confini della monarchia, siaccò l’orgoglio dei grandi, e con le sue leggi, pubblicate nell’assemblea generale di Pavia, diede solidità agli ordini civili del suo regno, Arechi mandò a lui, come si è detto, il suo figlio Aione. Ma da ciò non è dato arguire che si piegasse ad alcuno atto che avesse potuto significare dipendenza; tanto più che avendo Aione, reduce da quel viaggio, dato indizio di alterazione nelle sue facoltà mentali, Arechi, presso a chiudere i suoi giorni, consigliò i suoi longobardi ad anteporre al proprio figlio uno dei suoi figli di elezione, cioè Radoaldo o Grimoaldo, i quali, dopo la morte del loro genitore Gisulfo duca del Friuli, eransi ricoverati nella sua reggia, dando a divedere chiaramente in tal modo di non aver punto rispetto al dritto di nomina riserbato al sovrano.
E in quanto alle opere pubbliche con le quali Arechi attese a volgere in meglio le condizioni della città di Benevento, egli è a sapere che appena fa sciolto dalle gravi cure della guerra, volse l’animo ad ornare la città di edifizii, ed anzitutto a ristaurare e abbellire gli antichi monumenti di che abbondava Benevento. E fu allora rifatto il Campidoglio, già mezzo diruto, e decorato di assai statue: fu riedificato il vecchio Pretorio dei Sanniti, stato pressoché demolito: nettato il letto del fiume Sabato, che a causa delle frequenti inondazioni era colmo ad esuberanza, e in somma Arechi non trasandò cosa che giudicasse poter riuscire giovevole allo Stato.
In quel tempo reggeva la chiesa di Benevento David, trentesimo primo vescovo, il quale nell’anno del Signore 600 consacrò nel giorno 10 decembre con grande solennità la Chiesa dì S. Maria, che è ora la cattedrale, e in tale occasione recitò un grave sermone al popolo che si conserva nella biblioteca beneventana.
Nell’anno 607 caddero sì copiose e spesse le piogge, e imperversarono talmente i turbini e gli uragani che in Benevento rumarono molte case: e a questi mali seguì un alti o assai maggiore, cioè la pestilenza, per cui fu necessario porre in abbandono la coltura dei campi, locchè ingenerò per il corso di due anni un inusato rincaro di viveri. Ma in tali frangenti non venne meno ai bisogni del popolo il generoso Arechi, il quale, non pago di adunare gran copia di frumento e altre derrate in pubblici edificii, fece sì che prontamente dall’Egitto si spedissero i grani nelle terre del ducato, e non solo fu largo di soccorsi ai poveri ed agli infermi, ma eresse durante quella calamità novelli ospedali in Benevento.
Fu Arechi, in tutto il tempo del suo governo, giusto ed inflessibile nel reggere la cosa pubblica, e ne porse luminoso esempio in un viaggio che una volta intraprese da incognito nella Puglia. Egli venuto a conoscere che un giudice, corrotto da doni, avea liberati alcuni ladri, ai quali, per le loro malvagie opere, era dovuto per legge l’estremo supplizio, e facendo stima che fosse stato indispensabile un esempio, affine di porre un freno alla cupidigia e corruzione dei magistrati, ordinò che il giudice venale fosse appiccato in mezzo a quei ladri. E sarebbe bastante questo solo fatto a giudicare con quanta saviezza Arechi resse gli stati e i popoli commessi al suo governo.
Morto Arechi nell’anno 641, non fu adottato il suo consiglio di eleggergli per successore uno dei suoi nepoti in cambio del figlio Aione, poichè i longobardi beneventani ambivano di serbarsi indipendenti; e perciò elessero a duca Aione, non ostante il turbamento delle sue facoltà mentali, e anche i fratelli adottivi di Aione gli resero volentieri ubbidienza. Ma il suo regno non durò che un anno e cinque mesi, poichè ebbe a soggiacere in una giornata campale combattuta contro un’armata poderosa di Slavi nel 642. Costoro dalla nativa Dalmazia veleggiarono in Italia, e, dopo avere invase molte contrade, si attendarono presso Siponto, città principalissima della Puglia. Aione, messo alle strette, deliberò d’imprendere una campagna contro gli Slavi, e, seguito dai suoi fratelli, trasse con molte schiere in aiuto della assediata città, e le due armate attelaronsi l’una a fronte dell’altra.
Gli Slavi, secondo una loro antica consuetudine, avean cavato appo gli alloggiamenti alcune fosse prosonde, coprendole a fior di terra, per modo che ad essi soli, scaltriti in tali astuzie di guerra, riusciva agevole schivarle. Ora accadde che mentre il duca Aione era un giorno alle mani con alcune squadre di Slavi, queste, simulando di fuggire, e volteggiandosi destramente, lo condussero ov’era il lor campo, e l’infelice, che non si guardava dalle insidie, diede col cavallo in una di quelle fosse, e, circondato per ogni dove da nemici, fu morto con diversi colpi. Poco dopo sopravvenne Radoaldo a capo di elette schiere, ma vedendosi a gran pezza inferiore agli schiavoni per numero di combattenti, li tenne a bada per qualche tempo, entrando con essi in trattative di pace, e, per meglio trarli in inganno, parlò nella loro lingua che avea da giovinetto appreso nel Friuli, sua patria. Coloro però, montati in superbia per la miseranda fine di Aione, e nutrendo lusinga di poter occupare con facilità assai territorio, nonchè di espugnare Siponto, rifiutarono gli accordi. In quella il prode Radoaldo, sitibondo di vendetta, assalì alla sprovveduta i loro alloggiamenti, e di tanto gli arrise la fortuna da prendere terribile vendetta di quei barbari, colmando dei lor cadaveri quelle medesime fosse, che essi soleano in guerra scavare ad arte, e ove Aione era stato prima seppellito che morto; e intimò ai pochi superstiti di quella memorabile strage lo sgombro immediato da tutto il territorio beneventano. Una sì luminosa vittoria esaltò in modo F esercito che tutti i più prodi e distinti guerrieri lo salutarono senza indugio duca di Benevento, per non avere il misero Aione lasciata prole, e anche perchè una sì fausta impresa richiamò più vivamente alla loro memoria il non seguito consiglio del vecchio Arechi.
Radoaldo tolse le insegne del ducato, ma tuttavia, dando luogo alla prudenza, assentì alla deliberazione del Configlio, il quale avea messo il partito di adempiere al proprio debito col re. E perciò gli spedì una elettissima deputazione a scusarsi se, stante le condizioni anormali dello Stato, erasi veduto astretto il popolo beneventano ad eleggersi a suo talento un duca. E aggiungeva che con ciò non si ebbe mai pensiero di venir meno all’usato ossequio verso i sovrani longobardi; essendosi in tutti i popoli serbata sempre l’usanza di appigliarsi nelle grandi strette a quel partito che si ritenesse più prosicuo allo Stato. Ed il re d" Italia, impigliato allora in assai gravi faccende, non volle guardar molto pel sottile la cosa, e, menando buone le loro ragioni, si lodò della scelta, e usò modi assai cortesi con gli ambasciadori del duca.
In quel mentre trovandosi questi alla frontiera quasi del ducato con molta mano di valorosi, avido di conquiste, volse in danno dei vicini quelle forze che avea assembrate a sola difesa dello Stato, e non trovò ostacolo ai suoi disegni che unicamente nelle città presso Roma, e in quelle di marina sul Tirreno, che con grossi presidii si teneano pei greci. Però non mancano scrittori, i quali opinano che Radoaldo, essendo stato assunto al governo di Benevento senza l’assenso del re d’Italia, di cui ignoravasi ancora la volontà, avesse giudicato conveniente di non desistere dagli apparecchi bellicosi per conseguire più agevolmente di essere riconosciuto dal re. Ma, che che sia di ciò, egli è indubitato che questo duca fu assai prode della persona, e peritissimo nelle cose di guerra, per modo che, ad onta del suo brevissimo governo, seppe acquistarsi bella fama di valoroso nell’istoria.
Radoaldo, appena vide confermata la sua elezione, divisò di compiere la conquista dell’intera Campania, e, investitala da più parti, dalle città marittime in fuori, l’ebbe tutta in suo potere, e l’aggiunse alla duchea di Benevento. Ma tra le sue imprese la più nota, dopo la splendida vittoria riportata contro gli schiavoni, si fu l’assedio di Sorrento intorno a cui si travagliò lungamente con una numerosa armata, riducendo la città in tale condizione, che i miseri abitanti, sconfortati di potere più a lungo difenderla, scesero agli accordi, e si sarebbero arresi a discrezione; senonchè il vescovo Agapito, uomo di grande animo, esortò i cittadini a durare qualsiasi sacrifizio, e mettere francamente a repentaglio la vita
- «Per la difesa delle patrie mura».
La leggenda religiosa di quei tempi tramandò di generazione in generazione la fama degli immensi prodigi che si sarebbero operati in quell’assedio per le preghiere del santo vescovo, ma di ciò tacciono gli storici profani, e noi crediamo invece che il petto dei cittadini deliberati di vincere o di morire sia stato sempre il più invincibile baluardo contro qualsivoglia oste nemica. Ed è notevole che dagli scrittori ecclesiastici furono sempre attribuite a qualche miracolo tutte le imprese riuscite a bene o fallite dei duchi longobardi. Ma comunque vada la cosa, Radoaldo si tolse da quell’assedio dopo alcuni mesi, o perchè stupito d’una sì eroica difesa, o infine per cause che non è possibile di accertare.
Dopo l’assedio di Sorrento, Radoaldo ripigliò con varia vicenda le ostilità contro le città greche, non ancora sottoposte alla sua dominazione, e senza dubbio, perdurando in cotale proponimento, gli sarebbe riuscito facile di attingere la meta, se più a lungo gli fosse bastata la vita.
Che il duca Rodoaldo, nel breve suo regno, vivesse in buono accordo col re d’Italia lo ignoriamo del tutto; e solo è ritenuto come cosa probabile da molti scrittori, non escluso il vivente Hirsck, che egli prendesse parte coi beneventani alla grande assemblea di Stato che si tenne in Pavia nel 643, e nella quale il re Rotari — «dopo il parere de’ grandi dignitarii, e col consentimento del popolo, che trasse ivi in gran numero e con molto apparato— diede in luce il suo celebre editto. Ma non è chiaro se esso fu introdotto e messo in vigore anche in Benevento in quei primi tempi.
Radoaldo passò di vita nell’anno 647, come affermano i più accurati storici in materia di cronologia, e gli successe il fratello Grimoaldo, quello stesso che dopo tre lustri fu assunto al regno d’Italia.