Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte II/Capitolo I

Capitolo I
Fondazione del ducato di Benevento
Origine dei Longobardi, loro leggi, ordinamenti civili e costumi

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Capitolo I
Fondazione del ducato di Benevento
Origine dei Longobardi, loro leggi, ordinamenti civili e costumi
Parte I - Note alla prima parte Parte II - Capitolo II
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PARTE SECONDA


CAPITOLO I.


La fama che si acquistò Narsete in Italia nei tre lustri del suo reggimento increbbe a moltissimi, e anzitutto ad alcuni signori romani di alto lignaggio, che lo accusarono di ambizione alla gelosa imperadrice Sofia, la quale, per la idiotaggine del consorte, reggeva da sola l’impero. Costei, dando fede alle loro calunnie, richiamò dall’Italia Narsete, e propose in suo luogo Longino col titolo di Esarca. Ed ’è fama che, immemore delle vittorie d’un sì illustre guerriero, aggiungesse alla ingiustizia anche il sarcasmo, col mandargli a dire che si ritraesse in corte per intendere alla distribuzione delle lane alle fanciulle del gineceo, alludendo con ciò alla sua condizione di eunuco. E si dice che Narsete le avesse risposto che intendeva imprendere siffatta tela da cui nè ella, nè Timbelle suo marito avrebbero potuto distrigarsi.

Narsete allora lasciò Benevento, ma prima, coi tanti marmi e colonne rinvenute tra le macerie della città, eresse un mirabile tempio alla Vergine, col pavimento di mosaico [p. 168 modifica]alla greca, e dopo essersi soffermato breve tempo in Napoli, si recò di mal animo in Roma, in cui ingrossavano sempre di più i suoi nemici. Ma non andò molto che ivi chiuse i suoi giorni, dopo che tenne sedici anni pei greci l’Italia; la quale fu poco dopo invasa dai longobardi.

É opinione di molti che Narsete, a trar vendetta dell’imperadrice Sofia, che gli sostituì Longino nel governo d’Italia, avesse eccitato i longobardi a invadere l’Italia, e gli danno per ciò biasimo e mala voce.

Ma siffatta opinione non è seguita dai più sagaci scrittori, nè è avvalorata da prova alcuna, e io credo che non sia lecito per semplici congetture detrarre alla fama di quel grande colPammettere che avesse istigato Alboino alla impresa d’Italia. E questi d’altra parte, dopo gli esempi di Alarico, di Odoacre e di Teodorico, non avea d’uopo d’incitamenti di sorta per tentare la conquista d’Italia.

Alboino re dei longobardi, dopo di aver soggiogato i Gepidi, popolo confinante, e trucidato il loro re Cunimondo, avido di nuove imprese, si mosse alla volta d’Italia con un esercito assai numeroso, e cedette ai Sàssoni la Pannonia con questo che l’avrebbero renduta se l’impresa andasse fallita.

In tal modo i longobardi valicarono le alpi carniche, prorompendo la seconda volta nell’Italia sull’aprile del 568, e Alboino dopo aver corso da vincitore tutta l’Italia superiore fino a Milano, dove fu gridato dall’esercito re d’Italia, si accinse ad espugnare Pavia. E poiché l’assedio di questa città si protraeva a lungo, lo sue genti dopo avere occupato la loscana e Spoleto penetrarono benanche nelle provincie dell Italia meridionale, e non potendo nutrire lusinga di occupare le città littorali, guernite di presidi i greci, presero stanza nelle contrade più mediterranee, e per la opportunità del sito elessero a metropoli Benevento.

In quel tempo, dopo tre’ anni di assedio, Pavia si arrese per fame, ed Alboino la fece metropoli del regno dei longobardi. Ma dopo la morte di Alboino, la nobiltà longobarda, mossa dall’antico amore per la libertà, prepose 36 [p. 169 modifica]duchi al governo dei 36 staterelli, in cui fu divisa la parte superiore e media dell’Italia da essi signoreggiata.

Si è assai disputato intorno al tempo in cui i longobardi fondarono il ducato di Benevento. E rispetto a ciò credo conveniente di accennare alle diverse opinioni degli scrittori.

Il primo a trattare un tale argomento fu Costantino Porfirogenneta, scrittore greco, il quale pretende che Narsete accolse i longobardi con tutte le famiglie in Benevento, e ritiene che, rifiutandosi i cittadini di ammetterli nella città, edificassero presso Benevento una piccola città che chiamarono città nuova, e che, in seguito, espugnata Benevento, ne avessero uccisi tutti gli abitanti. His audiiis a Narsete qui eos ad Italiani invitabat, persuasi Longobardi cum familiis Beneventum venerunt; (de admirat. Imper. cap. 27).

Or se ciò si potesse ammettere, la venuta dei longobardi in Italia sarebbe accaduta nell’anno 567 in cui mori Narsete.

Il secondo scrittore che tratta una tale questione è l’autore ignoto della cronaca pubblicata da Camillo Pellegrino, nella quale si afferma che il ducato di Benevento ebbe principio sotto il dominio di Zottone; e Scipione Ammirato, accogliendo questa opinione, aggiunge che Zottone assunse il governo di Benevento nell’anno 533.

Flavio Biondo invece sostiene che il ducato di Benevento fosse fondato nell’interregno dei 36 duchi — che egli limita a 30 — i quali ressero per 10 anni il regno dei longobardi, e questa opinione è anche confermata dal Collenuccio.

Paolo Diacono, omettendo qualsiasi data, attesta che il primo duca di Benevento ebbe nome Zottone, e il nostro concittadino Alfonso de Biasio, attenendosi alla opinione di Camillo Pellegrino, e di qualche scrittore suo coetaneo prese a dimostrare che Zottone tenne il governo di Benevento nell’anno 571.

Ed io aggiungo a questo proposito che siffatta opinione vedesi ribadita dai più reputati storici moderni tanto italiani che stranieri, i quali tutti mirano a stabilire essere [p. 170 modifica]per lo meno assai probabile che nell’anno 571 ebbe cominciamento il celebre e potentissimo ducato di Benevento.

Dei costumi poi, delle usanze e delle leggi dei longobardi, senza ripetere ciò che si legge in tanti autori, mi limiterò unicamente ad esporre quella parte che giudico indispensabile a ben vagliare i fatti che si compirono in Benevento durante il lungo periodo della Signoria longobarda.

I longobardi, nativi della Scandinavia, e in origine denominati Vinnuli, nome che mutarono appena posero stanza in Germania, parvero singolari tra gli altri popoli confinanti, per l’usanza di non tosare le chiome e per le lunghe barbe, donde prese origine il nome di longobardi. Essi ebbero fama di strenui guerrieri dai più antichi tempi poiché, quantunque pochi di numero, serbarono sempre inviolata la libertà tra gli altri popoli germani. E, allorché volse in basso la fortuna dell’impero romano, furono reputati i più prodi uomini di guerra che fossero al mondo, e anteposti ai medesimi Goti. Essi usavano in guerra la spada, l’arco e la lancia, e nel maneggio di questa anzitutto aveano singolare perizia e maestria.

Per ciò che concerne la lingua, i longobardi adoperarono lungamente in Italia il loro nativo idioma, finché non gli sostituirono la lingua latina che era parlata, benché corrottamente, da tutti i popoli indigeni dell’Italia. I longobardi avanzarono ogni altro popolo nella gelosia per le donne, ed ebbero in sommo pregio la loro onestà.

L’idea della vendetta assumeva per essi un carattere sacro, e si trasmetteva dai padri ai figli per più generazioni, come ai nostri giorni si avvera nei popoli slavi; e si reputava infame chi, potendo, non si curasse di trarre vendetta di qualsiasi ingiusta offesa. Nelle cause criminali adottarono l’usanza dei così detti Giudizii di Dio, i quali per le persone civili consistevano nei duelli, la cui origine è a riferirsi appunto ai longobardi, e per il volgo nel trapassare illeso sui roghi ardenti, o nel tuffare il braccio nelh acqua bollente, poiché ritenevano nella loro superstizione che la divinità, mediante un prodigio, solesse appalesare in tali [p. 171 modifica]giudizii il vero colpevole1. In quanto poi alla religione i [p. 172 modifica]longobardi furono nei primi tempi idolatri, ma in seguito i più di essi abbracciarono la religione dei vinti, salvo quelli che seguirono le dottrine di Ario. Nè si mostrarono tiepidi nel professare il culto cattolico, poiché eressero numerosi tempii, e sondarono monasteri con lauto censo, come afferma l’Ughello nell’Italia sacra. Inoltre la nazione longobarda fu devota in guisa del celebre S. Benedetto da edificare nella sola Benevento ben dodici monasteri di monaci e monache benedettine, e tutti d’ampii e ricchi poderi dotati; oltreché alla stessa smisurata opulenza della Badia di Montecassino contribuirono non poco varii principi di Benevento, e i popoli sottoposti alla loro dominazione. Ma il zelo per la fede cattolica si misura dalla loro venerazione per le reliquie dei santi, poiché rilevasi da scritture autentiche che Arechi principe di Benevento trasferì quivi dalla Grecia diversi corpi di santi, per farne bello il tempio di S. Sofia, e il suo esempio fu imitato dai suoi successori, i quali si diedero vanto di fregiare di reliquie la stessa reggia ducale.

Ma quali erano le condizioni dei beneventani durante la signoria dei longobardi? Eransi questi fusi con gl’indigeni in guisa da costituire un popolo solo, o è a credere non esservi mai stata tra essi una medesimezza di lingua, costumi, leggi e religione? e che non mai mescolaronsi coi matrimonii alle famiglie dei vinti?

Si ritenne un tempo che i longobardi, a guisa di bufera, sovvertirono tutto l’antico ordine di cose, abolendo le leggi e gli ordinamenti romani, nonché ogni reliquia di libertà civile. Ma quando il Savigny ebbe dimostrato che i longobardi conservarono il reggimento municipale romano, e concessero agli italiani l’uso della legge romana, allora cominciò a diradarsi la tenebra di quei tempi oscuri, e si chiarì che non erano i longobardi nè barbari nè ignari dei beneficii della civiltà.

Dopo di ciò cominciò a discutersi tra gli scrittori l’importante quistione se maggiori vantaggi sarebbero derivati all’Italia col venire interamente in balla dei longobardi. E a risolverla si accinse il sovrano ingegno del Manzoni col [p. 173 modifica]suo famoso Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia; col quale inaugurò quella scuola storica neoguelfa che ebbe assai illustri seguaci, tra i quali Cesare Balbo, Gioberti e altri grandi, e che non poco contribuì ai rivolgimenti politici del 1848. Ma in generale gli storici ed eruditi, si divisero, rispetto a una tale opinione, in due campi opposti. Molti tra i quali il Sigonio, il Muratori, il Savigny, lo Schupfer, lo Sclopis, il Porro, e ultimamente il Ranieri e il Settembrini opinano che i vinti romani non furono ridotti in servitù, e che perdurarono a usare i loro dritti; ma per lo contrario il Troya, il Manzoni e qualche altro scrittore sostennero che i longobardi non concessero agli italiani alcun dritto civile, e che li privarono di tutti i loro possedimenti.

Io però, con la debita riverenza a questi due solenni scrittori, mi attengo alla contraria opinione, non solo perchè è abbracciata dal maggior numero dei moderni eruditi, ma sì veramente perchè è sostenuta da prove che io stimo irrefragrabili, e a cui non è cosa agevole il contraddire.

Inoltre la istoria dei longobardi in Italia fu testé illustrata dalla pubblicazione codex legum longobardarum dato in luce dai monaci benedettini della Trinità della Cava nel napoletano, il quale non contiene unicamente le leggi dei longobardi propriamente dette, ma quelle altresì di Arechi e di Adelchi, principi di Benevento, nonché il patto o giuramento di Giovanni duca di Napoli, le quali leggi costituiscono la prima parte del codice longobardo; e la seconda parte consta dei capitolari dei primi quattro monarchi della stirpe Carolingia che ebbero il governo d’Italia, cioè Carlo Magno, Pipino, Ludovico il Pio e Lotario.

Or tutte queste leggi informate ai principii d’una nascente civiltà, ed eque ed umane più che non davano i tempi, fan chiara testimonianza che i longobardi non tennero i vinti a modo di schiavi. E però assai bene a proposito scriveva il Settembrini: «I longobardi, dopo più secoli avevano già comune con gli italiani la religione, la lingua, i costumi, e avevano fatto un regno d’Italia. Il Manzoni vuol [p. 174 modifica]dimostrare che i longobardi non si erano mescolati con gli italiani, dimenticando che erano Ariani, e si fecero cattolici, dimenticando che le loro leggi sono scritte in latino, e che della loro lingua non rimane alcun documento, e dimenticando che religione e lingua comune sono segno non pure di mescolamento, ma d’intera fusione di popoli».

Ma se poi, premessi questi rapidi cenni generali sulle leggi, costumi, ordinamenti civili e religione dei longobardi, prenderemo a disaminare minutamente a qual sistema si attennero i longobardi nel governo di Benevento, e le loro intime attinenze coi vinti, sempre più ci convinceremo che col volgere del tempo indigeni e conquistatori non costituirono nel ducato di Benevento che un popolo solo.

Il ducato di Benevento fu retto sempre a repubblica aristocratica. Il sistema militare sul quale era sondato il governo dei longobardi contribuì non poco alla divisione dei terreni che ebbe luogo nel ducato di Benevento. Tutti coloro ai quali furono dispensati beni sondi, sia che fossero ottimati, sia ingenui, erano astretti a proprie spese ad impugnare le armi per la comune difesa, quando stringeva il bisogno. La dignità ducale era elettiva, e nel conferirla consisteva la principale delle attribuzioni della generale Dieta ducale, a cui prendean parte i Conti, i Castaldi e tutto il popolo.

I longobardi, vogliosi oltremodo di estendere il loro dominio, e di raddoppiare la popolazione in tutte le contrade ove presero stanza, ammisero per principio di assegnare anche agli stranieri una parte dei terreni conquistati, e perciò intesero sempre a impedire a tutt’uomo la migrazione. E a riuscire nel loro intento usarono grande umanità coi servi, ai quali concedeasi di farsi mariti, e di possedere un loro particolare peculio. E in prova della loro benignità coi servi, basterebbe rammentare la legge per la quale al padrone che avea fatto sconciare una serva incombeva l’obbligo di pagare tre soldi d’oro. E per tal modo all’antica servitù domestica, che apportò tanto biasimo e vitupero ai greci e ai romani fu sostituita la servitù della gleba.

[p. 175 modifica]I longobardi non erano avidi di schiavi, come altri popoli antichi, ma sibbene di terre e di coloni, e reputarono turpe il celibato. Però all’ingenuo non era dato di menare a sposa la libertina, nè al nobile la donna di volgare lignaggio. Era tra essi consentito il concubinato con ciò che non era lecito possedere moglie e concubina.

In quanto riguarda il dritto civile, ogni cittadino poteva essere giudicato dalle leggi della sua nazione, o da quelle del suo padrone se meglio gli talentasse; e si adottavano savii temperamenti, acciocchè la giustizia fosse resa con imparzialità. Le pene erano sottosopra tutte pecuniarie, e non si concedeva ad alcuno di potersi avvalere dell’opera di avvocati e procuratori; per cui ciascuno trattava da sè la propria causa, purchè non fosse stato del tutto ignaro dell’arte del dire, e inabile a produrre in giudizio le proprie ragioni. La procedura constava di formoli brevi, semplici e chiare, e una gran parte delle azioni civili e criminali era riposta nell’accertare i fatti, e nei casi più dubbii si ricorreva ai giudizii di Dio, come il mezzo più acconcio a venire in chiaro della verità.

Per rispetto al dritto di successione, niun fratello potea vantaggiare le sue cose in danno degli altri, poichè era legge impreteribile che le parti disponibili d’un’eredità esser doveano affatto uguali. Le donne soggiacevano ad una perpetua tutela, vuoi del padre, o d’un prossimo congiunto, vuoi del consorte; nè senza il loro consenso erano ammesse a contrattare. Le leggi infine si promulgarono col consentimento dei grandi del regno, ed il celebre Ugone Grozio leva al cielo il sistema con cui erano esaminate e discusse.

Egli è noto che tutti i popoli barbari, che inondarono l’Italia, non ebbero in pregio che le sole armi, e le riteneano per unico sostegno degli stati, sicchè per questo le loro istituzioni non potettero allignare, e ai reami da essi sondati con la forza non arrise un durevole avvenire. Ma sebbene anche i longobardi, nei primi anni della loro signoria in Italia, avessero in ciò seguito l’esempio degli [p. 176 modifica]altri invasori, pur tuttavia nel ducato di Benevento, o perchè scaltriti dalla esperienza, o perchè i loro primitivi costumi si vennero man mano trasformando, attesero con ardore alle arti del governo civile, e coltivarono con una certa predilezione la filosofia, l’istoria, e anzitutto la poesia. E de11 amore che posero a quest’arte fa luminosa prova la sterminata congerie dei versi latini, o intagliati nei marmi, o scolpiti nelle pareti dei loro palagi, come che rozzi, e rispondenti alla qualità dei tempi. E anzi si ha dalle istorie che i longobardi in questo non badarono a spese attirando in Benevento da remote contrade, con la lusinga di lauti stipendii, uomini non digiuni di lettere, e in fama di dotti. Laonde in quei secoli di ferro, in cui per le incursioni delle orde barbariche, la lingua latina era tanto scaduta dalla sua primitiva purezza, era adoperata nel ducato di Benevento meno rozzamente che altrove. E ciò si rileva agevolmente coll istituire un paragone tra diverse antiche epigrafi incise ne’ sepolcri dei principi di Benevento, e varii diplomi autentici degli stessi con le scritture longobarde rinvenute in Napoli e in altre città d’Italia. Ed è bene si sappia che 1 idioma latino era a quei tempi comunemente usato dai beneventani, e che i longobardi, quantunque l’adoperassero con frequenza, non trasandarono però per lungo volgere di anni di far uso altresì del loro nativo linguaggio.

Ma che i due popoli in Benevento componessero in processo di tempo un solo, più che dalle cose innanzi e— sposte, risulta da quanto sono ora per dire.

A somiglianza dei romani, i longobardi eran divisi in tre classi. Alla prima classe appartenevano i longobardi propriamente detti, poiché discesi da coloro che seguirono la fortuna di Alboino in Italia, e ai quali unicamente si addiceva il nome di longobardi. Nella seconda classe erano annoverati coloro che ubbidivano alle loro leggi; e nella terza tutti quelli che militavano nei loro eserciti, per cui queste ultime due classi erano assai più numerose della prima. Laonde non andò guari che riuscì impossibile distinguere i longobardi dai beneventani; tanto più che gli uni soleano [p. 177 modifica]contrarre nozze con gli altri senza niuna difficoltà, come rilevasi dalla confusione dei’ nomi longobardi con quelli che d’ordinario usavano gli italiani. E in vero i figli di un Roffrit o Dauferio, e simili, sono chiamati in molte scritture di quei tempi Giovanni, Giacomo ecc., locchè per fermo palesa la seguita mischianza delle due genti.

E anche quando nel tempo della conquista dei Normanni ebbe fine tra noi la dominazione dei longobardi, proseguirono gli abitanti di Benevento a dirsi longobardi; e ne fa prova il fatto che nelle scritture dei primi signori normanni che tennero il dominio di Benevento si legge:. «Fidelibus nostris normannis atque longobardis». E le usanze e le leggi longobarde si tramandarono in Benevento per lunga serie di anni; tanto che molti paesi dell’antico ducato si regolavano in ogni maniera di affari iure longobardorum, e durante il governo degli Svevi passò in uso nei signori feudali di serbare nella successione del feudo la costumanza longobarda. Nè ciò ebbe luogo senza motivi, perchè furon primi i longobardi, tra tutti i popoli, a fondare baronie e signorie di terre, usanza che aggiunse prestigio e splendore alla nobiltà, e che fu causa delle sue smisurate dovizie, quantunque i principi non ne avesser colto che amarissimo frutto, dacché i conti e baroni, più dei loro vantaggi solleciti, e della devozione dei sudditi, che della prosperità dei loro sovrani, suscitarono sedizioni e tumulti civili, e si resero per ambizione fautori di congiure. E ai longobardi deve pure attribuirsi l’istituzione dei titoli di principi, duchi e marchesi, benché si conferissero solo a principi liberi, i quali non si piegavano ad atti di sudditanza che unicamente verso il re d’Italia.

E da ciò si scorge di leggieri in quale conto i longobardi avessero la nobiltà, e perchè in tante vicissitudini, turbolenze civili, e mutamenti di governo, non riuscì mai alla plebe di scuotere il giogo dei signori, o migliorare la propria condizione a discapito del patriziato.

Il ducato di Benevento fu nei primi tempi considerato [p. 178 modifica]come un feudo del reame d’Italia, e per questo i suoi duchi non disconobbero per loro sovrani i re longobardi, e in segno di riconoscimento pagarono ad essi l’annua somma di sette mila scudi d’oro, corrispondenti a 25 mila scudi della moneta romana. E siccome la successione al ducato era elettiva, così fu statuito che i duchi dovessero sempre essere eletti dai re à’ Italia; ma in seguito questi non più ritennero una tale facoltà, sia per la loro lontananza, sia per la lunga guerra combattuta con Carlo Magno; dimodochè ai beneventani fu conceduta intera balia di eleggere a lor grado il duca.

E, affinchè all’elezione si fosse proceduto senza condizioni di sorta, si divisero i beneventani in quattro ordini: il primo si componea di ecclesiastici, il secondo di magnati, il terzo di uomini ascritti alle milizie, e il quarto di popolani. Ma qui fa d’uopo notare che nell’ordine dei magnati, il quale, in quanto alla dignità, reputavasi il secondo, non erano ascritti tutti i nobili, giacchè quelli ai quali facea difetto un censo determinato non conservavano la qualità di nobili, ma rientravano nel popolo. E da ciò nacque che raramente vedeasi un nobile scaduto che non appartenesse all’ordine militare o ecclesiastico. E per questo il nome di popolo soleasi prendere in due diversi significati: perchè o denotava la classe dei cittadini che formavano il quarto ordine, o significava la sola plebe, la quale non era tenuta in alcun pregio, non prendea parte nella elezione dei principi, nè partecipava al governo dello Stato. A questi medesimi ordini si accordava il dritto di eleggere i vescovi, sebbene per lo più accadesse che in tali elezioni i sovrani usassero con felice successo tutte le arti per tirare a sè i voti della massima parte degli elettori.

Alla elezione del principe si procedea nel seguente modo. Si bandivano i comizii, ove, congregati i quattro ordini anzidetti, ciascuno eleggeva, per via di suffragi, 48 elettori, cioè dodici per ciascuno ordine, e in questi era riposta la somma delle cose pubbliche. Quindi gli elettori nel maggior tempio della città davano il solenne giuramento, [p. 179 modifica]prima di adunarsi per le elezioni nella sala del Campidoglio. Poscia esaminavano se all’estinto duca fosse rimasto superstite qualche erede del miglior sesso, al quale, secondo l’invalsa consuetudine, potesse spettare lo stato, poichè per legge n’erano escluse le donne, nonchè i maschi nati innanzi che il padre assumesse la dignità ducale. In difetto poi di un legittimo erede — che tuttavia, malgrado l’usanza, non erano essi astretti a riconoscere — si eleggeva il nuovo duca mediante suffragi per non mettere a repentaglio la libertà dei votanti. Ed era tanta l’autorità di questo supremo consesso, detto il Consiglio generale degli Ordini, che arrogavasi finanche il potere di deporre il proprio sovrano, qualora per le sue prave qualità fosse venuto in odio alla popolazione.

L’eletto esser doveva longobardo, e se non lo era di origine, esserlo almeno dovea per costumi e per legge. E perciò al soglio beneventano si videro ascesi gli Epifanei di greco lignaggio; e lo stesso si avverò negli altri stati longobardi.

I signori di Benevento presero varii titoli, cioè duchi, e poi principi di Benevento, e nelle relazioni e altre scritture, in che si facea menzione delle loro imprese militari, soleano scrivere Longobardorum Gentis Princeps, e al titolo di duca o principe costumavano aggiungere l'epiteto di grande o glorioso o anche eccellentissimo, il che risulta da varii contratti di quei tempi. Ma non è però a negare che dei medesimi tintoli si fregiassero non pochi fra i principali cavalieri della nazione longobarda, come si legge in molte scritture di donazioni al monastero di S. Sofia, ripetute nella cronaca di questo pio luogo pubblicata dall’Ughello.

Delle leggi con le quali fu retto il ducato di Benevento, alcune si dissero leggi longobarde, e autore ne fu Lotario settimo dei re longobardi, che tennero la signoria d’Italia; imperocchè sino ai tempi di questo sovrano, i longobardi non ebbero leggi, tranne assai poche che furono denominate usi. Le nuove leggi di Lotario si dissero [p. 180 modifica]ordini, e ad esse Grimoaldo, undecimo re dei longobardi, aggiunse alcuni capitoli ed ordinazioni che presero anche forma di leggi. E queste erano comuni a tutta la nazione e ai popoli ad essa sottoposti, che furono chiamati longobardi per legge. Ai tempi poi di Rodoaldo re dei longobardi si riferisce una legge assai dannosa che apportò conseguenze molto nocevoli in Benevento.

Guniberga, regina dei longobardi, accusata di adulterio, non trovando modo per essere giuridicamente difesa, come portavano i tempi, era per capitar male, allorché un suo cortigiano, bramoso di dissipare quella calunnia, si offrì di difendere a mano armata l’innocenza della regina. Assentì il re Rodoaldo alla sua dimanda, e, dato il campo franco, tutto il popolo trasse ansioso a un tale spettacolo. L’accusatore fu ucciso in quel duello, e il re, esultante di gioia, colmò di doni il vincitore, e restituì al grado primiero la regina. Nacque da questo fatto un’usanza tra i longobardi, che fu quasi avuta in conto di legge, e consisteva in ciò, che a chiunque si fosse reputato offeso incombeva di provocare l’offensore a singolare combattimento. E siffatta usanza fu adottata nel ducato di Benevento, e in seguito anche dai napoletani, a detta del Petrarca e di altri insigni scrittori.

Ma oltre queste leggi, che furono sottosopra comuni a tutti gli stati retti dai longobardi, il ducato di Benevento ebbe anche delle leggi speciali che tolsero il nome di Costituzioni o Prammatiche, e alcuni dei giudici ai quali toccava di rendere giustizia erano eletti dai cittadini, altri dal duca, salvo il giudice che decideva le cause penali, la cui scelta spettava esclusivamente al duca. A tutti gli altri giudicanti sovrastava il così detto Castaldo, il cui nome prese origine dalla voce castello, o rocca, della quale avea cura.

La sua giurisdizione estendevasi ad ogni maniera di affari, e potea reputarsi come capo della magistratura, benché fosse uomo d’armi, e una tale dignità, primissima nello stato, era a vita, e talora, a modo di privilegio, trasmetteasi anche agli eredi.

E questi Castaldi o Gastaldi, secondo alcuni scrittori, [p. 181 modifica]esercitavano tale imperio sulle città di cui aveano il governo, da ingenerare nei cronisti una grave confusione tra la dignità di Castaldo e quella di Conte.

Avanza in ultimo a descrivere l’ampiezza del ducato di Benevento, il quale fu, dopo il regno dei longobardi, il principato più ampio e potente che fiorisse in quei tempi in Italia. Ma, a procedere in ciò ordinatamente, è necessità distinguere il dominio di Benevento in tre epoche diverse., La prima da Zotone, o, secondo alcuni cronisti, Zottone, che fu il primo duca, estendesi sino al governo di Siconolfo, e abbraccia oltre un secolo e mezzo; e in questa età il ducato comprendeva la provincia di Terra di lavoro— salvo le città di Napoli, Pozzuoli, Sorrento e Cuma che si teneano per l’impero greco — , una parte dell’antica Lucania, che fu poi interamente sottomessa da Arechi principe di Benevento, fuorché la città di Amalfi, che si resse a repubblica, e che fu per pochi anni solamente aggiunta al ducato: la provincia di Principato Ultra, l’Abruzzo, il contado di Molise; nonché una parte della Basilicata, e della Capitanata. E infine Romoaldo duca di Benevento aggregò ai suoi stati anche la Calabria e la Puglia; sicché questo avventuroso guerriero ridusse alla sua ubbidienza, da poche città in fuora, tutte le provincie di cui constava ai nostri giorni l’ex reame di Napoli.

In questo ampissimo Stato ebbero sede molti Castaldi, e gli scrittori ci tramandarono la memoria di trentaquattro di essi, che erano al governo delle principali città. Ma siccome molti confondono i Castaldi coi Conti, de’ quali non fu penuria nel ducato beneventano, così fa bisogno discorrere alcun poco di costoro, che ebbero tanta parte nelle gueire condotte a termine nel nostro ducato, e ai quali non si dubitò di affidare estesissimi poteri nelle più cospicue città degli stati longobardi.

Il nome di Conte, comes, che tra gli antichi latini non altro denominava che compagno, fu dai principi longobardi conferito ai loro amici e familiari. E questi Conti eleggevano i sudditi più benemeriti a governadori delle provincie e delle città, ed a ciascuno di essi assegnavano molto spazio di paese a [p. 182 modifica]governare, tramutando in perpetua la precaria signoria degli stessi. Ma infine, addivenuta sempre maggiore l’autorità di questi conti, i quali signoreggiavano addirittura nelle contrade che furono loro assegnate, i principi di Benevento non provarono difficoltà di concedere ad essi e ai loro successori le città, al cui governo erano stati preposti. E fu questa la primitiva origine dei scudi, poichè non vi è caso che alcun principe, prima dei longobardi, avesse mai trasferito ad altri la signoria sui proprii sudditi.

Questi Conti poi avean l’obbligo in tempo di guerra di porgere efficace aiuto al principe, e di niente omettere di quanto si fosse ritenuto giovevole alla difesa e prosperità dello Stato. Non deve però credersi che tutti i rettori delle città fossero Conti; imperocchè appellaronsi tali coloro unicamente che tennero in perpetuo il governo di qualche provincia, e per lo contrario si dissero semplicemente governatori tutti gli altri che solo per un tempo determinato ebbero la signoria di qualche città o provincia, ed era pure tra i longobardi adoperato il titolo di Conte Palatino, per semplice onoranza, e come una distinzione tra gli altri cittadini.

  1. Una mirabile descrizione di questi Giudizii di Dio si legge nel canto undecimo dei Lombardi alla prima Crociata del Grossi, e credo che non sarà giudicato un fuor d’opera il riportarne in questo luogo le belle ottave:

    «Se non che il rozzo provenzal si offerse
    Al giudizio del foco in sua difesa:
    Attalentò il partito alle diverse
    Menti e tacque sopita ogni contesa;
    Avida ognor di novità si scerse
    Lieta ogni gente al crudo evento intesa:
    Fermato il giorno acconcio alla solenne
    Prova un ampio vallon trascelto venne.

    «Rami di terebinto e sicomoro
    In due distinte biche accatastarsi,
    Accomodate in guisa che fra loro
    Angusto varco a un uom potesse darsi.
    Per quattordici piè protratto foro
    In lungo, e fino all’omero elevarsi:
    Gremita era la valle e la pendice
    D’innumerabil folla spettatrice.

    «Esorcizzò i due roghi un sacerdote
    Dal tolosan per quell’ufficio eletto,
    E quindi al suon di rituali note
    V’accostò acceso un cero benedetto.
    S’ergon le fiamme in vorticose rote,
    Chi dalla calca intorno v’è costretto
    Dassi, come l’ardor vivo ne sente,
    A indietreggiare tumultuosamente.

    «Quando il rumor fu queto, il provenzale
    Che di candida tunica vestito
    Placido in mezzo all* ansia universale
    Sta vasi in sovraumane idee rapito,
    S’inginocchiò, baciò la terra, tale
    Era a quel tempo del giudicio il rito.

    «Surse in piedi il rapito di Provenza
    E la voce elevando — Se ho mentito,
    Questa, disse, pur sia la mia sentenza —
    Quindi converso al vulgo impietosito,
    — Ma tante e gravi dalla mia nascenza
    Colpe ho commesse che or stommi atterrito;
    E voi, fratelli, Iddio per me pregate
    Che in tal punto non venganmi imputate. —

    «Alfìn d’este parole, imperturbato
    Fessi la croce e fra i due roghi corse:
    Le fiamme al guardo già l’avean celato,
    Già di sua vita eran gli astanti in forse;
    Quando vivo sbucar dall’altro lato
    Fuor dagli ardenti vortici si scòrse
    E addosso d’ogni banda in un istante
    Gli si versò la folla delirante.