Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo VI
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CAPITOLO VI
(27 novembre-9 dicembre 1562).
[Si delinea una nuova difficoltá in concilio per la prossima venuta del conte di Luna: la questione di precedenza tra francesi e spagnoli. — Incidente suscitato dal vescovo di Guadix, per aver detto esservi vescovi legittimi, anche se non chiamati dal papa. — Proroga della sessione al 17 dicembre. — Risorge la disputa sull’istituzione dei vescovi, che il legato Hosio cerca di sopire. — I francesi favorevoli al ius divinum. — Offensiva, con mezzi diversi, dei francesi e spagnoli contro l’autoritá papale per subordinarla ai concili e toglierle la superioritá sui vescovi. — Malumore dei francesi per la diffidenza dei legati a loro riguardo. — Morte del re di Navarra e conseguenze sul contegno del Lorena al concilio. — Approcci del Condè coi protestanti tedeschi per un concilio indipendente. — Massimiliano, incoronato re dei romani, tenta di condurre i protestanti al concilio di Trento: gravi richieste messe innanzi da quelli.]
Si preparava in questo tempo nova materia di contenzione, perché il conte di Luna fece intender alli legati che doveva andar a Trento come ambasciator del re di Spagna, e non dell’imperatore, ma inanzi andarvi voleva sapere che luoco li sarebbe dato. Li legati, chiamati gli ambasciatori francesi, gliene diedero conto, dicendo esser in gran travaglio per le dispute di precedenza, e li pregavano trovar qualche modo per accordarle. E dicendo loro non esser mandati per componer differenzie, ma per tener il luoco debito e sempre conceduto al loro re; che non intendevano pregiudicar in cosa alcuna appartenente al re di Spagna, ma farli ogni onore e servizio conveniente al parentado e amicizia che tiene col loro re, e che avevano carico, quando il luoco li fosse negato, protestare della nullitá degli atti del concilio e partirsi con tutti li prelati francesi, il cardinale di Mantoa propose di far seder l’ambasciator spagnolo separato dagli altri, dirimpetto delli legati, o vero de sotto gli ambasciatori ecclesiastici, o pur de sotto de tutti gli ambasciatori secolari. Ma de nissun partito si contentarono li francesi, volendo che in ogni modo avesse il luoco dopo di loro, e non altrove.
Nella congregazione del 1° decembre Melchior Vosmediano, vescovo di Guadice, parlando sopra quella parte dell’ultimo canone dove si determinava che li vescovi chiamati dal papa sono veri e legittimi, disse che non li piaceva il modo di esprimere, perciocché vi erano anco delli vescovi non chiamati dal pontefice, né meno confermati da lui, che erano però veri e legittimi. Addusse per esempio quattro suffragane! eletti e ordinati dall’arcivescovo di Salzburg, che non pigliano alcuna confirmazione dal papa. Il cardinale Simonetta non lo lasciò passar piú oltre, dicendo che quanto il vescovo di Salzburg e gli altri primati facevano, tutto era con autoritá del pontefice. Si levò fra’ Tomaso Casello, vescovo de La Cava, e il patriarca di Venezia tutti in un tratto, dicendo che si dovesse mandar fuori come scismatico. Ed Egidio Falcetta, vescovo di Caurle, gridò: «Fuori il scismatico!»; e seguí grandissimo rumore tra li prelati, cosí di susurri, come de piedi, parte in offesa del vescovo votante e parte in difesa, che diede mala satisfazione alli prelati oltramontani. Il Cardinal di Lorena, se ben ne sentí dispiacere, non fece dimostrazione alcuna; e li legati con difficoltá quietarono il rumore, facendo proseguir agli altri che dovevano parlar in quella congregazione. La qual finita, il Cardinal di Lorena in presenza di molti prelati pontifici ebbe a dire che l’insolenza era stata grande, che il vescovo di Guadice non aveva parlato male, e se fosse stato francese, egli averebbe appellato ad un concilio piú libero; e quando non si provveda che tutti possino parlar liberamente, non s’averebbono tenuti li francesi che non fossero partiti per far un concilio nazionale in Francia. E veramente fu conosciuto che il vescovo non aveva mal parlato, e fu corretto il canone che, sí come diceva: «li vescovi chiamati dal pontefice romano», cosí dicesse: «li vescovi assunti per autoritá del pontefice romano».
Il dí seguente, essendo venuto il tempo di dechiarare il giorno della sessione, il Cardinal di Mantoa propose che si prorogasse sino alli diciassette; e se in quel mentre non s’avesse potuto aver in ordine li decreti della riforma spettanti alla materia che si trattava, questa si differisse alla seguente sessione. Il Cardinal di Lorena concorse nel medesimo parere quanto al giorno, ma con condizione che non si omettesse di trattar tutto quello che perteniva alla materia, né cosa alcuna si rimettesse alla seguente, nella qual era necessario dar principio alla riforma universale. L’arcivescovo di Praga, il Cinquechiese e l’oratore di Polonia concordarono nel medesimo parere: e dopo molta contenzione di alcuni che volevano, secondo il voto del vescovo di Nimes, che si rimettessero le questioni ad altro tempo, e de altri che volevano deciderle, si deliberò di stabilire la sessione per il su detto giorno, con ordine che per spedire tutta la materia si facessero due congregazioni al giorno; e se allora non fosse decisa, si pubblicassero li decreti che si trovassero in quel tempo esser stabiliti, rimettendo gl’indecisi ad altro tempo; e nella sessione seguente si trattasse della riforma, inanzi che entrar nei punti della dottrina. Riprese ancora il Cardinal di Mantoa lo strepito de piedi e de parole del giorno precedente, concludendo che se per l’inanzi non avessero parlato con rispetto e riverenzia conveniente alla dignitá propria e alla presenzia d’essi legati, che rappresentano Sua Beatitudine, e delli cardinali e ambasciatori che rappresentano li principi, essi sarebbono usciti di congregazione, per non comportar tanti disordeni. E il Cardinal di Lorena commendò l’ammonizione fatta, soggiongendo che sí come non era conveniente che per qualsivoglia occasione li legati dovessero partir di congregazione, cosí era giustissima cosa che si punissero li perturbatori. Il vescovo della Cava non solo non volse scusarsi di quello che detto aveva, né meno con silenzio ricever l’ammonizione, se ben generale; ma disse che si dovevano levar le cause, che gli effetti cesserebbono; che se le parole del vescovo di Guadice avessero offeso la persona sua, egli averebbe sopportato per caritá cristiana, la qual sí come ricerca sofferenza nelle ingiurie proprie, cosí vuole acre risentimento delle ingiurie fatte a Cristo, la Maestá divina del quale è offesa quando è toccata l’autoritá del suo vicario; che egli aveva bene e ottimamente detto. E confermava il medesimo con altre parole dell’istesso senso, che universalmente furono stimate petulanti.
Giacomo Gilberto de Nogueras, vescovo di Alife, nel suo voto disse della instituzione de’ vescovi non potersi parlar con miglior fondamento che considerando e ben intendendo le parole di san Paulo agli efesi. Imperocché, sí come era molto vero che Cristo reggeva con assoluto governo la Chiesa vivendo in carne mortale, come da altri in congregazione era stato giudiciosamente detto, cosí era una gran falsitá quello che fu aggionto, cioè che asceso in cielo ha abbandonato il medesimo governo. Anzi piú che mai l’esercita; e questo è quello che disse agli apostoli nel partire: «Io sono con esso voi sino alla fine del mondo», aggiontovi anco l’opera dello Spirito Santo; sí che da Cristo, come da capo, al presente ancora non solo viene l’influsso interiore delle grazie, ma anco una esterior assistenza ben invisibile a noi, ma però che somministra le occasioni per salute de’ fedeli, e propulsa le tentazioni del mondo. Con tutto ciò, oltra tutte queste cose, ha instituito anco alcuni membri della Chiesa per apostoli, pastori, ecc., a fine di difender li fedeli dagli errori e indirizzarli all’unitá della fede e cognizione di Dio; e a questi ha dato il dono necessario per esercitar questo santo ufficio, il quale è la potestá chiamata di giurisdizione; la qual in tutti non è uguale, ma tanta, quanta in ciascuno è, gli è data immediate da Cristo. Niente esser piú contrario a san Paulo quanto il dire che ad un solo sia data, che la comunichi come li piace. Vero è che non in tutti è uguale, ma secondo la divina distribuzione; la qual, acciò si conservasse l’unitá della Chiesa, come san Cipriano disse, ordinò che fosse in Pietro e nei suoi successori la suprema; non che sia la totale, né che sia assoluta e, secondo il proverbio, dove la volontá sia per ragione; ma, come san Paulo dice, in edificazione solamente della Chiesa, non in destruzione; onde non si estende a levare le leggi e canoni statuiti dalla Chiesa per fondamento del suo governo. E qui diede principio ad allegare li canoni citati da Graziano, dove li vecchi pontefici romani si confessano soggetti alli decreti dei Padri e alle constituzioni de’ predecessori.
Ma il Cardinal varmiense non lo lasciò camminar inanzi; e l’interruppe dicendo che s’aveva da parlar della superioritá dei vescovi, a che non era a proposito il discorso suo. A che egli rispose che, trattandosi dell’autoritá dei vescovi, necessariamente bisognava ragionare di quella del papa. E l’arcivescovo di Granata si levò e disse che gli altri n’avevano parlato, e superfluamente, per non dir perniciosamente; e però che anco Alife ne poteva ragionare (accennando alle cose dette dal Lainez). Il vescovo de La Cava sopra nominato si alzò e disse che gli altri n’avevano parlato, ma non a quel modo. E cominciando a nascer tra li prelati bisbigli, Simonetta fece segno alla Cava che tacesse, e con ammonir Alife che parlasse al caso, fece quietar il mormorio. E seguitando esso nell’allegazione delli canoni incominciata, varmiense di novo l’interruppe, non parlando a lui, ma facendo un ragionamento formato alli padri sopra la materia, dicendo che gli eretici pretendono di provare che li vescovi eletti dal papa non sono veri e legittimi vescovi, e questa opinione è quella che si debbe condannare: ma se li veri vescovi siano instituiti de iure divino o non, nessuna difierenza vi è tra gli eretici e li cattolici, e però la questione non pertenere alla sinodo, che è congregata solo per dannar le eresie. Raccordò alli padri che s’astenessero dal dire cose che potessero dar occasione di scandolo, e li esortò a lasciar queste questioni. Alle parole del cardinale il vescovo d’Alife volse replicare; ma Simonetta con l’aiuto d’alcuni altri prelati lo quietarono, se ben con qualche difficoltá. E parlò dopo di lui Antonio Maria Salviati vescovo di San Papulo, il quale, con discorrere che tutti erano congregati per servizio di Dio e camminavano con buona intenzione, se ben alcuni per un verso e altri per l’altro, e con andar dicendo diverse cose che servivano in parte per accordar le opinioni, ma piú principalmente per conciliar gli animi, fu causa che la congregazione si finí quietamente, e che tra il cardinale e il vescovo passassero parole di umanitá e reverenzia.
Il quarto giorno del mese di decembre disse il parer suo sopra la medesima materia il Cardinal di Lorena, e parlò a longo che la giurisdizione fosse data da Dio immediate alla Chiesa. Allegò li luochi di sant’Agostino (che le chiavi sono date a Pietro; non ad una persona, ma all’unitá; e che Pietro, quando Cristo gli promise le chiavi, rappresentava tutta la Chiesa; che se egli non fosse stato sacramento, cioè rappresentante la Chiesa, non gli averebbe dato Cristo le chiavi), mostrando molta memoria in recitarli formalmente. Passò poi a dire che quella parte della giurisdizione, che è connessa con l’ordine episcopale, li vescovi la ricevevano immediate da Dio: e dechiarando in che consistesse, specificò, tra l’altre cose, in quella contenersi la facultá di scomunicare; estendendosi molto nell’esposizione di quel luoco di san Matteo, dove da Cristo è prescritto il modo della correzion fraterna e giudiciale della Chiesa, con autoritá del separare dal suo corpo gl’inobedienti. Poi si diede ad argumentar anco contra questa opinione con diverse ragioni cavate dalle parole di Cristo dette a san Pietro, e della intelligenzia che gli dá in molti luochi san Leone papa. Addusse molti esempi de vescovi che tutta la giurisdizione avevano riconosciuto dalla sede apostolica; e parlò con tanta eloquenzia e in modo tale, che non si poteva far chiaro giudicio dell’animo suo. Disse di poi che li concili avevano l’autoritá immediate da Dio; allegò per questo le parole di Cristo che disse: «Dove saranno doi o tre congregati nel mio nome, io sarò nel mezzo tra loro»; e il concilio degli apostoli che ascrisse la resoluzione propria allo Spirito Santo; allegò lo stile dei concili di chiamarsi congregati nello Spirito Santo, e del costanziense che apertamente disse aver l’autoritá immediate da Cristo. Però soggionse che, parlando delli concili, intendeva che vi fosse congionto il capo, e che nessuna cosa era di maggior servizio per l’unione della Chiesa che il fermar bene l’autoritá pontificia; che egli non averebbe mai consentito di terminar cosa che la potesse diminuire: e del medesimo parere erano tutti li prelati e clero di Francia. E tornando all’instituzione dei vescovi, e parlandone tuttavia con la medesima ambiguitá, finalmente concluse che era una questione interminata. Esortò poi la congregazione a tralasciarla, e diede esso una forma del canone, dove erano omesse le parole iure divino, e in luoco di quelle si diceva «instituiti da Cristo».
Li prelati francesi, che parlarono dopo il Lorena in quel medesimo giorno e nelli seguenti ancora, non trattarono né con l’istessa ambiguitá né col medesimo rispetto all’autoritá pontificia, ma difesero apertamente che l’autoritá de’ vescovi fosse de iure divino, portando le ragioni dette dal cardinale ed esplicandole. E se ben egli, mentre che parlavano, stava con la mano sotto la guancia, in modo che pareva mostrasse sentir dispiacere di quello che dicevano, tuttavia però era ascritto ad ambizione, come se avesse studiosamente procurato che il voto suo fosse commentato. E se ben dalli francesi fosse apertamente defesa la sentenza delli spagnoli, questi però non restarono sodisfatti, cosí perché il cardinale aveva parlato con ambiguitá, come anco perché esso e li prelati si erano dechiarati di non aver per necessario di terminar in concilio la instituzione e la superioritá de’ vescovi esser de iure divino, anzi doversi tralasciare: e maggiormente per la formula dal Cardinal proposta, dove era tralasciato; se ben per loro sodisfazione piú che per altro rispetto erano poste le parole «che sono instituiti da Cristo».
Era l’istesso il fine de’ francesi come de’ spagnoli, di provvedere all’ambizione e avarizia della corte, che ad arbitrio dominava con precetti inutili e di nessun frutto, e cavava quantitá grande di danari, con le collazioni de’ benefici e dispense, dalle regioni cristiane. Ma li spagnoli giudicavano che per la devozione che il populo dei regni loro portava all’autoritá pontificia, e per l’animo del re e del suo conseglio aborrenti dalle novitá, se questo si fosse fatto alla dretta e all’aperta, ne sarebbe nato scandolo, e non s’averebbe potuto effettuare; e che il pontefice facilmente averebbe potuto interponer tante difficoltá appresso li principi, che non s’averebbe manco potuto venirne alla dechiarazione; ma che convenisse, secondo l’uso di quella nazione, pigliar la mira lontana, e col dechiarare che la giurisdizione dei vescovi e la residenzia era da Cristo e de iure divino, metter in reputazione quell’ordine appresso il populo, impedir le violenze che la corte romana potesse usare contra le persone loro, e cosí darli comodo che in progresso potessero riformar le Chiese con servizio di Dio e con tranquillitá dei populi, restituendo la libertá occupata da’ romani.
Ma li francesi, il natural de’ quali è proceder all’aperta e con impeto, avevano queste arti per vane. Dicevano che non averebbono mancato a Roma rimedi per renderle inutili, e che per venir al fine avevano bisogno di tanto tempo, che non si poteva aver nessuna buona speranza; ma che il vero modo era senza nessun’arte alla dritta e all’aperta urtar gli abusi pur troppo chiari e manifesti; e che non era maggior la difficoltá in ottener questo, che era il fine principale, di quello che fosse l’ottener il pretesto, che ottenuto sarebbe stato un niente. Ma in un altro particolare ancora non erano meno differenti li loro consegli. Convenivano tutti in giudicare necessario che l’esecuzione dei decreti conciliari fosse si ferma e stabile che non si potesse alterare; vi era nondimeno qualche differenzia tra essi francesi e spagnoli nel fermar il modo come li decreti di quel concilio non potessero esser né derogati né alterati dal pontefice, con pretesti di dispense, non obstantibus e altre tal clausule romane. E per ciò disegnavano li francesi che si definisse la superioritá del concilio al papa, o vero si statuisse che li decreti del concilio non possino esser dal pontefice né derogati né dispensati, che sarebbe stato un intiero rimedio. Gli spagnoli l’avevano per punto diffícile da superare, e da non tentarsi, perché il pontefice arerebbe sempre avuto favore dalli principi, quando si fosse doluto che si tentasse diminuzione della sua potestá, e sarebbe favorito dalla maggior parte dei prelati italiani, per dignitá della patria e per molti propri interessi; e a loro pareva bastasse che il concilio facesse li decreti, disegnando che poi se ne ottenesse in Spagna dal re la pragmatica sopra, e per questa via fossero stabiliti, sí che non avessero ingresso in Spagna le contrarie dispensazioni pontificie.
Li legati espedirono un corrier espresso con la copia proposta dal Cardinal di Lorena e con le considerazioni di alcuni canonisti fattevi sopra, con dimostrare che l’autoritá pontificia fosse intaccata; ricercando che li fosse dato ordine di quello che avessero a fare. Il che dal cardinale, quando lo seppe, fu ricevuto con molto senso, e fece indoglienza perché, avendogli egli dato la copia inanzi che la proponesse in congregazione, e avendo essi mostrato di compiacersene, avessero poi operato con tanta diffidenzia. Disse parergli strano che di tutte le cose sue e de’ suoi prelati si pigliasse ombra; si dolse che dagl’italiani fosse ingiuriata la sua nazione, affermando aver con le proprie orecchie udito alcuni prelati a dir dirisoriamente il proverbio scurrile che giá mo’ era fatto vulgato per tutto Trento, cioè: «Dalla scabie spagnola siamo caduti nel mal francese». Del che anco si lamentavano con ogni occasione e li altri francesi ed eziandio li spagnoli; le indoglienze de’ quali, come è costume, incitavano maggiormente li curiosi, e s’accrescevano tra le nazioni li sospetti e le diffidenze con gravissimo pericolo; né li legati e li prelati piú prudenti, che con l’autoritá e con gli uffici si opponevano, erano bastanti di fermare il moto.
E li francesi, irritati, risolverono far prova della loro libertá, e convennero che nella congregazione delli 7 il cardinale di Lorena non intervenisse; ma li loro prelati, a’ quali toccava parlare, dicessero con libertá; e se erano ripresi, li ambasciatori protestassero. E Lansac per farlo sapere, acciò li pontifici se ne guardassero, in presenza di molti di loro disse ad Antonio Lecineo vescovo di Avranches (uno di quelli) che dovesse dir liberamente e senza timore che la protezione del re era bastante a sostentarlo. Il che rapportato alli legati, fu causa che fossero uditi con molta pazienza, se ben non solo dissero che la instituzione dei vescovi e la giurisdizione fosse de iure divino come quella del papa, e che non vi è differenza se non di grado de superioritá, e che l’autoritá pontificia è restretta tra li limiti del li canoni; narrando e commendando lo stile dei parlamenti di Francia, che quando alcuna bolla pontificia è presentata, che contenga cosa contraria alli canoni ricevuti in Francia, dechiarano che è abusiva e proibiscono l’esecuzione. Questa libertá fu causa che li pontifici usarono maggior rispetto nel parlare, se ben la bellezza del motto proverbiale incitava qualche volta alcuno delli prelati allegri a non astenersene.
Ma il pretesto per quale il cardinale di Lorena si trattenne in casa fu l’avviso della morte del re di Navarra, che quel giorno arrivò. Quel prencipe, ferito con archibugiata sotto Roan sino al settembre, non essendo ben curato, in fine si ridusse in stato di morte; nel qual posto, per opera di Vicenzo Lauro medico, si comunicò alla cattolica, poi vacillò verso la dottrina de’ protestanti, e finalmente a’ 10 di novembre morí. E questo accidente portò anco alle cose del concilio gran mutazione; perché, avuto l’avviso, Lorena alterò tutti li suoi pensieri. Ebbe quel re principalissima parte nelle commissioni che furono date al cardinale nel suo partire; ond’egli era incerto se, dopo la morte di quello, la regina e gli altri sarebbono continuati in quel fervore. Oltra di ciò, vedeva un’aperta mutazione in tutto il governo: desiderava di esser in Francia per potervi apportar esso ancora la parte sua. Perché essendo il prencipe di Condé in aperta dissensione, poco confidente della regina e di quelli che potevano appresso lei, il cardinale di Borbon poco capace, quel di Montpensier in poco credito, il contestabile vecchio e con molti emuli potenti, aveva gran concetto, esclusi questi, che suo fratello dovesse esser arbitro delle armi, ed egli del conseglio; e queste cose macinava nell’animo suo, poco pensando al concilio e a Trento dove si ritrovava. Gli altri francesi apertamente dicevano doversi ringraziar Dio della morte di quel re, perché incominciava a titubare e a congiongere strettamente gl’interessi suoi con quelli del fratello e degli altri ugonotti.
Il seguente giorno, che fu delli 8 decembre, fu tutto consumato in ceremonie, per l’elezione successa della persona di Massimiliano re de’ romani; per questo celebrò la messa dello Spirito Santo, con intervento di tutto il concilio, l’arcivescovo di Praga; fece un sermone in lode di quel principe il vescovo di Tininia, e li cardinali e ambasciatori furono da Praga convitati.
Come prima la dieta si congregò in Francfort, il principe di Condé mandò non solo a ricercar aiuto dai principi protestanti, ma anco per trattar unione degli ugonotti con quelli della confessione augustana, e in particolare per giongersi insieme a richiedere un concilio libero e novo, dove fossero retrattate tutte le cose resolute in Trento, dando speranza che anco li francesi della vecchia religione cattolica sarebbono a questo convenuti, poiché era stato promesso all’ambasciator di Francia, che fu poi creato cardinale e chiamato della Bordissiera, che cosí si sarebbe fatto. Ma li tedeschi protestanti erano alienissimi da concilio, mentre che potessero senza quello aver pace in Germania; e però fu allora stampato in Francfort un libro molto pieno delle escusazioni e ragioni loro perché non erano intervenuti né volevano intervenire a Trento, con protestazione della nullitá di tutto il fatto e che si farebbe in quel Iuoco.
Il re fu prima onto e coronato re di Boemia in Praga, in presenza dell’imperatore suo padre, da quell’arcivescovo, che da Trento era andato in Boemia ad effetto di far quella ceremonia, acciò il re avesse voto in dieta imperiale. E andati in Francfort, fu necessario aspettar che li canonici di Colonia eleggessero l’arcivescovo, ché quella sede era vacante; onde li prencipi adunati ebbero gran tempo di trattar diverse materie, essendo restati sempre congregati in Francfort, per aspettar che s’empisse il numero settenario con la coronazione in Boemia ed elezione in Colonia. Queste cose diedero gran pensiero in Roma, e si temeva che da quella dieta non fosse mandato a Trento a protestare, e che non fosse usata qualche nova forma nella coronazione (abolita la vecchia), che mostrasse inclinazione di partirsi dagli antichi riti, o dal novo re fosse fatta qualche promessa pregiudiciale alla potestá ponteficia. L’imperator nondimeno e il re usarono somma destrezza a divertire che non si trattassero cose della religione in piena dieta inanzi l’elezione. La qual successe il 24 novembre, e il di ultimo la coronazione; nella quale li elettori e altri principi protestanti stettero alla messa sin che fu detto l’Evangelio, e poi uscirono. Questo tanto vi fu di novo: ché del rimanente fu dato il luoco al noncio pontificio sopra gli elettori, e agli altri ambasciatori sotto di essi. Imperò, fatta la coronazione, incominciò Cesare a praticare con alcuni de’ protestanti che aderissero al concilio di Trento. Li quali per non esser prevenuti, congregati insieme, presentarono all’imperatore la risposta, promessa giá venti mesi all’ambasciaria di Sua Maestá nel convento di Naumburg e differita sino allora; nella quale, esposte le cause perché in molte diete imperiali passate avevano appellato e appellavano di novo ad un concilio libero, soggionsero le condizioni che tenevano necessarie, co’ quali si offerivano consentire ad intervenir ad un futuro concilio generale. Queste erano dieci:
I. Che sia celebrato in Germania.
IL Che non sia intimato dal papa.
III. Che egli non vi preseda, ma sia parte del concilio, e soggetto alle deliberazioni di quello.
IV. Che li vescovi e altri prelati siano liberati dal giuramento prestato al pontefice, acciò che possino liberamente e senza impedimento dire il loro parere.
V. Che la Scrittura divina sia giudice nel concilio, esclusa ogni autoritá umana.
VI. Che li teologi delli stati della confessione augustana al concilio destinati abbiano non solo voce consultiva, ma deliberativa; e sia loro dato salvocondotto, non solo quanto alle persone, ma ancora quanto all’esercizio della religione.
VII. Che le decisioni nel concilio non si facciano, come nelle cause secolari, per la pluralitá delle voci, ma siano preferite le migliori sentenzie, cioè le regolate dalla parola di Dio.
VIII. Che li atti del concilio tridentino s’abbiano per cassi e irriti, essendo quello stato parziale, da una sola delle parti celebrato, e non ordinato come fu promesso.
IX. Che se nel concilio non seguirá concordia della religione, le condizioni di Passau restino inviolate, insieme con la pace di religione fatta in Augusta dell’anno 1555, qual resti valida ed efficace, e tutti siano tenuti osservarla.
X. Che sopra tutti li articoli predetti sia loro data cauzione idonea e sufficiente.
L’imperator, ricevuta la scrittura, promise d’adoperarsi per la concordia e operare in maniera che sia celebrato concilio, dove essi con ragione non potessero recusar d’intervenire, purché dal canto loro deponessero li odi e li altri affetti contrari alla pace cristiana; e s’offeri anco per questo d’andar in persona propria a Trento, resoluto di transferirsi in Inspruc, finita la dieta; dove essendo lontano quattro picciole giornate dal concilio, averebbe potuto con brevitá di tempo operare quanto fosse stato di bisogno.