Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo I

Libro settimo - Capitolo I (18-30 settembre 1562)

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CAPITOLO I

(18-30 settembre 1562).

[Considerazioni dell’autore sul procedimento, parte annalistico parte diaristico, da lui seguito nella narrazione. — Per ordine del re gli ambasciatori francesi insistono perché, a trattare la materia dogmatica, si attendano i loro padri, e si tratti intanto la riforma. — Analoga richiesta degli imperiali. Opposizione dei legati. — Arti usate a Roma per ostacolare l’andata al concilio del cardinale di Lorena o menomarne l’azione. — Si propongono otto articoli dell’ordine alla trattazione dei teologi, che, divisi in quattro classi, li discutono. — Concordano che l’ordine sia sacramento, ma non sul numero degli ordini. — Gli imperiali e gli spagnoli, accordatisi per sollecitare la riforma, insistono perchè si proponga l’istituzione dei vescovi de iure divino. Opposizione dei legati. — Si esamina l’articolo della gerarchia ecclesiastica: disputa se questa sia negli ordini o nella giurisdizione. — Dell’intervento dei secolari nelle elezioni vescovili. — Se nell’ordine si conferisca lo Spirito Santo e il carattere. — Sui riti che accompagnano il conferimento di questo sacramento.]

È costume di chi scrive istoria nel principio proponer il modello della trattazione; nondimeno io ho stimato ben differirlo a questo passo, facendolo ritratto delle cose narrate, e disegno di quelle che sono per raccontare. Avendo deliberato alle memorie da me raccolte dar qualche forma che non superasse la facoltá mia e fosse piú accomodata alla materia, ebbi considerazione che fra tutti li maneggi in questo secolo tra cristiani occorsi, e forse anco in quelli che negli anni [p. 4 modifica] rimanenti occorreranno, questo tiene il primo luoco, e che delle cose riputate il piú degli uomini sentono beneficio e piacere d’intenderne le minuzie: perciò giudicai convenirgli la forma di diario. A questo mio parere s’attraversarono due opposizioni: l’una, che con quella forma non conveniva narrare li successi di ventinove anni che scorsero per preparar il nascimento a questo concilio, né meno quelli de altri quattordici che in due volte passò dormendo, con incertezza se fosse vivo o morto; l’altra, che non aveva, né poteva avere, tutta la materia che ricerca un’effemeride continuata. Accomodando, come la natura fa, la forma alla materia, non, come le scole vorrebbono, la materia alla forma, non ebbi per assurdo scrivere a modo d’annali li tempi preparatorii e interconciliari, e in quei della celebrazione scriver per giorni quel solo di che ho avuto notizia, confidando che dei trapassati per non aver potuto venirne a cognizione, se alcuno leggerá questa fattura, mi defenderá; poiché se delle cose, che gl’interessati fanno ogn’opera per conservarne la intiera memoria, presto se ne perde parte notabile, quanto maggiormente di questa, dove con ogni diligenza da gran numero di perspicacissime persone è stata usata ogni fatica per ascondere il tutto! Meritano certo le cose grandi esser tenute in misterio, mentre il cosí fare è di comune giovamento; ma quando il non sapersi l’intiero ad una parte sia di gran danno, ad altri di utilitá, non è maraviglia se a fini repugnanti per contrarie vie si cammina. Ha ben luoco la comune e famosa sentenza che con maggior ragione si tratta di evitar danno che de acquistar guadagno. È soggetta questa mia composizione, per le cause dette, a qualche disugualitá di narrazione; e se ne potrebbe trovar altrettanta in qualche famosi scrittori: non sará per ciò questa la mia difesa, ma che non è stata usata da chi non ha scritto istoria del concilio tridentino, o altra non differente da quella.

Li ambasciatori di Francia, usciti della sessione, ebbero un dispaccio dal loro re, che gli commetteva di far instanza [p. 5 modifica] perché la sessione fosse differita. Di che essendo il tempo passato, nondimeno comparvero inanzi li legati, a’ quali esposero la nova commissione avuta dal re di far instanza che s’attendesse alla riforma e che li suoi prelati fossero aspettati; e soggionsero che, quando si facessero disputare dalli teologi e trattare dalli prelati le materie proposte dell’ordine e del matrimonio immediate, niente resterebbe piú della dottrina, e li francesi in vano venirebbono: però si contentassero di differirle sino al fine di ottobre, attendendo tra tanto alla riforma, o vero si parlasse alternativamente uno di sopra la dottrina e uno sopra la reformazione, non differendo, come per il passato, tutta la riforma sino alli giorni ultimi prossimi alla sessione, sí che non resta tempo bastante pur per vedere gli articoli, non che per deliberarvi sopra.

Ebbero risposta che le proposte meritavano d’esser ponderate, che vi averebbono considerazione, per sodisfarli in tutto il possibile: chiesero copia della instruzione mandata dal re, per poter meglio deliberare. Gli ambasciatori diedero una scrittura, il tenore della quale era: che avendo il re visto li decreti delli 16 luglio della comunione sub utraque, e di differire doi articoli di quella medesma materia, e insieme quelli che erano proposti nelle congregazioni sopra il sacrificio della messa, se ben loda tutto quello che è fatto, reputa non poter tacere quello che viene universalmente detto, cioè che si tralascia o leggermente si tratta quello che tocca li costumi o la disciplina, e si precipita la determinazione dei dogmi della religione controversi, in quali tutti i padri sono d’accordo. Le qual cose se ben egli reputa false, nondimeno ricerca che le proposte delli suoi ambasciatori siano interpretate come necessarie per provveder a tutto il cristianesmo e alle calamitá del suo regno. E avendo esperimentato non esser giovata né la severitá né la mediocritá delle pene per far ritornare li dipartiti dalla Chiesa, ha stimato bene ricorrer al concilio generale, impetrandolo dal sommo pontefice. Dispiacergli di non aver potuto per li tumulti di Francia mandar piú presto i suoi prelati, ma ben vedere che, per venir alla [p. 6 modifica] pace e unitá della Chiesa, la constanza e rigidezza nel continuare la formula giá principiata dalli legati e vescovi non esser a proposito: però desiderare che nel principio del concilio non si faccia cosa che alieni gli animi delli avversari, ma siano invitati e, venendo, ricevuti come figliuoli con ogni umanitá, con speranza che cosí facendo si lasceranno insegnare e ridur al grembo della Chiesa. E perché tutti quelli che sono ridotti in Trento professano l’istessa religione, e non possono né vogliono dubitare di alcuna parte di quella, parer a Sua Maestá che quella disputa e censura delle cose della religione non solo sia soverchia, ma impertinente alli cattolici, e causa che li avversari si separino maggiormente: e chi crede che debbino ricevere li decreti del concilio, nel quale non sono intervenuti, non li conosce bene, e s’inganna chi non pensa che con tal maniera non si fa altro che parecchiar argomenti da scriver libri. Per il che il re stima meglio il tralasciare questa disputa di religione, sin che sia statuito tutto quello che s’aspetta all’emenda della disciplina. Esser questo lo scopo dove convien che ognuno risguardi, acciò il concilio, che è numeroso, e maggiore sará con l’arrivo de’ francesi, possi far frutto. Dimanda appresso il re che per la assenzia delli suoi vescovi la prossima sessione sia prolongata sino in fine di ottobre, o differita la pubblicazione dei decreti, o aspettato novo ordine dal papa, al quale ha scritto; e tra tanto s’attendi alla riforma. E perché s’intende che qualche cosa è mutata dall’antica libertá dei concili, nei quali fu sempre lecito alli re e prencipi e alli loro ambasciatori esponere li bisogni de’ loro regni, dimanda la Maestá sua che sia salva quest’autoritá dei re e prencipi, e sia revocato quello che in contrario è fatto.

L’istesso giorno li cesarei comparvero alli legati, richiedendo che fossero proposti gli articoli mandati dall’imperatore, e da loro giá presentati; e ricercarono con instanza che si differisse di trattare delli dogmi sino alla venuta delli francesi: e acciocché la trattazione della riforma fosse non solo per servizio generale di tutta la Chiesa, ma particolare anco d’ogni [p. 7 modifica] regno, fossero deputati doi per nazione, li quali avessero a raccordare quello che meritasse esser proposto e discusso nella sinodo. E li legati cosí a questi come a quelli di Francia fecero una comune risposta: che la sinodo non può senza gravissimo pregiudicio alterare l’ordine instituito di trattare li dogmi insieme con la riforma; e quando volesse ben farlo, altri prencipi s’opponerebbono; ma in grazia loro si ordinarebbe che li teologi e prelati esaminassero la materia dell’ordine sola, e appresso si trattassero alcuni capi di riforma, osservando tuttavia il modo consueto che ognuno, di che condizione si voglia, può raccordare ad essi legati quello che giudica necessario, utile o conveniente, cosa di maggior libertá che il deputare doi per nazione: doppoi s’attenderebbe al matrimonio. Di che non restando li ambasciatori ponto contenti, li legati mandarono al pontefice tutte le suddette dimande.

Ma li francesi, mal sodisfatti, si dolevano appresso tutti, cosí di tanta durezza, come perché novamente il papa aveva comandato ad altri prelati di andar al concilio; il che chiaramente appariva farsi per esser superiore di numero; cosa che dalli pontifici medesmi non era lodato che si facesse cosí all’aperta, e nel tempo che correvano le nove della venuta de’ francesi; piacendoli però che il numero crescesse per assicurarsi, ma con tal destrezza che non si potesse dir essere fatto per tal causa. Ma il pontefice non operava cosí alla scoperta per imprudenza, anzi a bello studio, acciò il cardinale di Lorena conoscesse che li tentativi non li sarebbono riusciti, e si risolvesse di non venire, o vero li francesi pigliassero qualche occasione di far dissolvere il concilio. Né il papa solo era di questo pensiero, ma la corte tutta, temendo qualche pregiudicio per li disegni che portava quel cardinale; li quali quando anco non fossero riusciti (cosa non cosí facile da sperare), la venuta sua nondimeno sarebbe di grand’impedimento, allongazione e disturbo al concilio. Certo è che il Cardinal di Ferrara fece ufficio con Lorena, come parente, dicendo che la sua andata sarebbe di nessun momento e con poca sua [p. 8 modifica] reputazione, poiché arriverebbe dopo spedite tutte le determinazioni. E il Bianchetti, familiarissimo del Cardinal d’Armignacco e anco di credito con Lorena, scrisse l’istesso ad ambidua; e dal secretario del Seripando, come amico del presidente Ferriero, fu fatto l’istesso ufficio con esso lui: li quali uffici mostravano il fine cosí scopertamente, che apparivano, se non fatti per commissione del pontefice, almeno conformi alla sua volontá.

Non s’intermise però la sollecitudine circa le azioni conciliari: si diedero immediate li articoli sopra il sacramento dell’ordine, per disputare dalli teologi; e furono scelti quelli che dovevano parlare nella materia, e distinti in quattro classi, dovendo ciascuna di esse discutere doi articoli solamente. Li articoli erano otto:

I. Se l’ordine è vera e propriamente sacramento instituito da Cristo, o finzione umana, o rito di eleggere li ministri della parola di Dio e dei sacramenti.

II. Se l’ordine è un solo sacramento, tenendo tutti gli altri come mezzi e gradi al sacerdozio.

III. Se nella chiesa cattolica vi è la gerarchia che consta de vescovi, preti e altri ordini, e se tutti li cristiani sono sacerdoti, e se sia necessaria la vocazione e consenso della plebe o del magistrato secolare, e se chi è sacerdote può deventar laico.

IV. Se nel Testamento novo vi è sacerdozio visibile ed esterno, e potestá di consecrare e offerir il corpo e sangue di Cristo, e di rimettere li peccati, o il solo nudo ministerio di predicare l’Evangelio, sí che quelli che non predicano non sono sacerdoti.

V. Se nell’ordinazione si dá e riceve lo Spirito Santo e s’imprime carattere.

VI. Se l’onzione e altre ceremonie nel conferire l’ordine sono necessarie, o pur superflue, o ver anco perniciose.

VII. Se li vescovi sono superiori alli preti e hanno potestá propria di confermare e ordinare; e se quelli che senza l’ordinazione canonica in qualonque modo sono introdotti, siano veri ministri della parola e delli sacramenti. [p. 9 modifica]

VIII. Se li vescovi chiamati e ordinati per autoritá del pontefice romano sono legittimi; e se veri vescovi siano quelli che per altra via vengono, senza canonica instituzione.

Il 23 del mese si diede principio alle congregazioni de’ teologi due volte al giorno, e il 2 ottobre fu posto fine alla discussione. Seguendo il mio instituto, non narrerò li pareri se non notabili per la singolaritá o contrarietá tra loro.

Nella prima congregazione parlarono quattro teologi pontifici, quali sopra il primo articolo furono conformi a provare l’ordine esser sacramento per molti luochi della Scrittura, specialmente per quello di san Paulo: «Le cose che da Dio vengono sono ordinate»; poi per la tradizione degli apostoli, per li detti de’ Padri, per uniforme parer de’ teologi, e sopra tutto per il concilio fiorentino, aggiongendo anco la ragione che la Chiesa sarebbe una confusione, quando non vi fosse chi regge e chi ubidisce. Ma nel secondo articolo fra’ Pietro Soto si estese con molte parole a mostrare che erano sette ordini, ciascun di essi propriamente sacramento, e tutti da Cristo instituiti: e trattò che fosse necessario farne sopra dechiarazione, perché alcuni canonisti, passando i termini della professione loro, hanno aggionto doi altri, la prima tonsura e il vescovato; l’opinione de’ quali potrebbe indur molti altri errori e piú importanti. Similmente si estese a dimostrare che Cristo aveva esercitato nella vita mortale questi ordini graduatamente, e in fine il sacerdozio, che è l’ultimo; e sí come tutta la vita di Cristo fu inviata a quell’ultimo sacrificio, cosí esser chiaro che tutti gli ordini non sono per altro se non per far scala alla salita del sommo grado, che è il sacerdozio.

Ma fra’ Gerolamo Bravo, esso ancora dominicano, avendo protestato di tener fermamente che gli ordini fossero sette, e ciascun d’essi vero sacramento, e che si doveva servar l’uso della Chiesa che per mezzo degli ordini inferiori passa alli superiori e al sacerdozio, soggionse non parerli che si dovesse descendere a cosí minuta dechiarazione, attesa la varietá che è tra’ teologi, de’ quali con difficoltá si troverá che doi convengano: onde il Gaetano in sua vecchiezza, atteso questo, [p. 10 modifica] lasciò scritto che chi raccoglie le cose insegnate da’ dottori e scritte nei ponteficali antichi e moderni, vederá la materia molto confusa in tutti gli altri ordini, fuorché nel presbiterato. Il Maestro [delle sentenze] tenne che li minori e sottodiaconato siano stati instituiti dalla Chiesa; il diaconato instituito nella Scrittura pare un ministerio delle mense, e non come il nostro dell’altare. La varietá circa li ordini minori, che si vede nei vecchi pontificali, dove quello che è nell’uno è tutt’altra cosa che nell’altro, mostra che siano sacramentali, non sacramenti: e la ragione ancora a ciò ci guida, perché le azioni che fa l’ordinato le può far anco un non ordinato, e sono ugualmente valide, e hanno l’istesso effetto e perfezione. Che san Bonaventura ancora, quantunque senta che tutti sette sono sacramenti, reputò ancora per probabili due altre opinioni: l’una, che il solo sacerdozio sia sacramento, ma li minori e gli altri doi ancora (versando circa cose corporali, come aprir porte, legger lezioni, accender lumi) non si vede come configurino a Dio, e però siano sole disposizioni al sacerdozio; la seconda, che li tre sacri siano sacramenti. E per quello che tocca il detto comune che gl’inferiori siano gradi alli superiori, affermar san Tomaso che nella Chiesa primitiva molti erano ordinati preti immediate, senza passar per gli ordini inferiori, e che la Chiesa dopo ordinò questo passaggio al sacerdozio per tutti li gradi, a fine di umiliar le persone. Si vede ben chiaro negli Atti degli Apostoli che san Mattia fu ordinato immediate apostolo, e li sette diaconi non passarono per ordini minori e suddiaconato. San Paulino egli di se stesso narra che, disegnando applicarsi al servizio divino nel clero, per umiliazione voleva camminar per tutti li gradi ecclesiastici, incominciando dall’ostiario; ma mentre pensava quando far principio, essendo ancora laico, alla sprovvista il dí del Natale in Barcellona fu preso per forza dalla moltitudine, e portato inanzi il vescovo, e ordinato prete di salto: il che non sarebbe stato fatto, se in quel tempo non fosse stato usitato. Per le qual cose concluse il Bravo non esser bene che la sinodo passasse oltre le cose che tra tutti li [p. 11 modifica] cattolici convengono; e aggionse meglio esser incominciare questa materia del sacramento dell’ordine dal sacerdozio (il che anco sará un dar connessione a questa sessione con la passata, che fu del sacrificio), e dal sacerdozio passar all’ordine in universale, senza descendere a maggior particolaritá.

Finita la congregazione, e partendo li prelati che s’erano trovati presenti, restò il Cinquechiese con li suoi ongari e alcuni polacchi e alquanti spagnoli, ai quali tutti egli fece un ragionamento, con dire che, essendo l’imperatore fuori d’ogni sospetto di guerra per la tregua seguita tra lui e il Turco, non aveva cosa piú a cuore che la riforma della Chiesa, la quale si sarebbe posta ad effetto quando nel concilio qualche parte de prelati avesse coadiuvato: però li esortava e pregava per la riverenza divina, e per la caritá che ciascun cristiano debbe alla Chiesa portare, che non abbandonino una causa cosí onesta, giusta e proficua: che ciascun dovesse metter in scritto quello che giudicava potersi constituire per servizio divino, senza metter pensiero a qualsivoglia respetto umano, non mirando a regolare una parte, ma tutto il corpo della Chiesa, per riformarla nel capo e nelle membra. Granata secondò il ragionamento, mostrò la necessitá e opportunitá di riformare, ringraziò il Cinquechiese dell’ammonizione, e disse che tra loro si sarebbe ragionato. A questo effetto si ridussero li spagnoli insieme, e dopo aver discorso fra loro la necessitá del riformare, e fermata la speranza di poter vederne frutto per l’inclinazione dell’imperatore, dalla quale il re loro, per natura inclinatissimo a pietá, non averebbe dissentito, e perché li prelati francesi, che in breve s’aspettavano, averebbono promosso e aiutato l’opera con affetto e diligenza, passarono a raccontare diversi abusi, mostrando l’origine di tutti venire dalla corte romana, la quale non solo è corrotta in se medesima, ma è ancora causa della disformazione di tutte le Chiese. E narrata l’usurpazione dell’autoritá episcopale con le riserve (la qual se non fosse restituita, e levato alla corte quello che s’ha assonto alli vescovi spettante, mai li abusi si leverebbono), considerò Granata che, essendo necessario prima gettar [p. 12 modifica] li fondamenti per far una cosí nobil fabbrica, il campo allora esser aperto, che si parlava del sacramento dell’ordine, se sará determinato che l’autoritá episcopale sia da Cristo instituita, ché da questo si tirerá in consequenza che non può esser diminuita, e si renderá alli vescovi quello che, datogli da Cristo, per ambizione e avarizia d’altri e negligenza loro gli è stato usurpato. Aggionse Braganza che tanto piú era necessario, quanto l’autoritá episcopale è ridotta a niente, e fatto un ordine superiore alli vescovi, incognito nel passato alla Chiesa, quello cioè de’ cardinali, li quali nelli primi tempi erano stimati nel numero degli altri preti e diaconi, e solo dopo il decimo secolo s’innalzarono oltre il debito grado; ma non tanto che ardissero uguagliarsi alli vescovi, de’ quali furono riputati inferiori anco sino al 1200. Ma dopo s’hanno non solo pareggiato, ma esaltati sopra, sí che al presente tengono li vescovi sino per servitori nelle loro case: né mai la Chiesa sará riformata, sin che li vescovi e li cardinali non siano ridotti al loco debito a ciascuno.

Furono queste proposte udite con applauso, e giudicati ottimi li discorsi; onde vennero in risoluzione di eleggere sei di loro, che adunassero in scritto le cose necessarie e opportune, cosí in generale per la riforma, come in particolare per questo capo dell’instituzione de’ vescovi, donde disegnavano incominciare. Furono nominati esso Granata, Gaspar Cervante arcivescovo di Messina, il vescovo di Segovia, Martino di Cordova vescovo di Tortosa. Il qual fu causa che non si passasse piú oltre; perché, intendendosi egli in secreto con li pontifici, si scusò dall’accettar il carico, allegando prima la propria insufficienza, e il tempo che a lui non pareva intieramente opportuno, soggiongendo che il Cinquechiese non era mosso da pietá, e non aveva altro fine che di valersi di loro per constringere il papa con questo mezzo di riforma a conceder l’uso del calice, al quale essi erano stati contrari. E vedendosi fatta qualche disposizione di audienza, fece tanto e tanto persuase, che non si passò piú oltre, ma s’interpose dilazione. Non però si differí longamente, perché il seguente giorno Granata, [p. 13 modifica] Braganza, Messina e Segovia, chiesta audienza dalli legati, fecero instanza che si trattasse l’articolo giá proposto dal cardinale Crescenzio in questo medesimo concilio, e anco concluso, se ben non pubblicato, cioè «che li vescovi sono instituiti da Cristo, e de iure divino sono superiori alli preti». Li legati, dopo aver conferito insieme, risposero che, avendo li luterani asserito esser l’istesso il vescovo e il prete, era giusta cosa dechiarare che il vescovo è superiore, ma non esser bisogno dechiarar quo iure né da chi il vescovo sia instituito, poiché non vi è sopra ciò controversia. E replicando Granata che anzi in questo è la controversia, e che facendo disputare li teologi si sarebbe conosciuto la necessitá di decider questo ponto, né volendo per modo alcuno li legati acconsentirvi, dopo qualche moti di parole risentiti di ambe le parti, li spagnoli si partirono senza alcuna cosa ottenere, restando però essi in risoluzione di far ufficio con qualche teologi che nelle discussioni introducessero questo particolare, e di farne menzione al tempo del dire li voti in congregazione. Il che essendo pervenuto alle orecchie delli pontifici, fecero passar voce tra li teologi che fosse stato dalli legati vietato il parlar sopra quella questione.

Ma tornando alla congregazione, quando parlò la classe seconda mista de teologi e canonisti, Tomaso Dassio, canonico di Valenza, disse che il metter dubbio sopra la gerarchia ecclesiastica nasceva da crassa ignoranza dell’antichitá, essendo cosa notissima che nella Chiesa il popolo sempre è stato governato dal clero, e nel clero li inferiori dalli superiori, sino che tutti li gradi sono ridotti ad un solo rettor universale, che è il romano pontefice. E avendo con longa narrazione mostrato la proposta, soggionse che non vi era bisogno, salvo che far apparir questa veritá con levar li errori contrari, li quali a lui pareva esser stati introdotti dalli scolastici, mentre col sottilizzar troppo alle volte oscurano le cose chiare, opponendosi alli canonisti che mettono tra gli ordini la prima tonsura e l’episcopato. Di questo parerli cosa molto strana come confessino che sia proprio di quello la confermazione, l’ordinazione e tant’altre consecrazioni, quali altri che tentasse ministrarle, [p. 14 modifica] non farebbe niente, e neghino che non sia ordine, facendo poi ordine l’ostiariato per serrar le porte, che ugualmente saranno ben serrate da un laico. E quanto alla prima tonsura, aver sempre sentito dir alli teologi che sacramento è un segno esteriore che significa una grazia spirituale; nella prima tonsura esserci il segno e la cosa significata, la deputazione alle cose divine; e però restar pieno d’admirazione perché voglino levarli l’esser sacramento, gionto che per quello s’entra nel clero, si participa l’esenzioni ecclesiastiche: che se quella non fosse da Cristo instituita, non si potrebbe dire che né il chiericato né la esenzione di quello fosse de iure divino. Esser chiara cosa che la ierarchia consiste negli ordini ecclesiastici, né altra cosa vuol dire gerarchia, se non sacro ordine di superiori e inferiori; e questo non potrá mai ben stabilirsi, chi non mette tra gli ordini, come li canonisti hanno con ragione posto, l’infimo, che è la tonsura, e il sommo, che è il vescovato. E questo fatto, la gerarchia è tutta stabilita, seguendo necessariamente li mezzi, dato il primo e l’ultimo, e restando quelli senza sussistenza, quando non siano posti questi.

Ma sopra l’altra parte dell’articolo disse: dalla lezione delli sacri canoni esser cosa molto chiara che nell’elezione dei vescovi e nella deputazione delli preti e diaconi il populo e la plebe era presente e rendeva il suo voto, o vero prestava l’assenso; ma questo era per concessione del papa, tacita o espressa, perché non può alcun laico nelle cose ecclesiastiche aver alcuna autoritá, se non per privilegio pontificio: e questo fu concesso allora, perché il populo e li grandi ancora erano devoti, e con questo si trattenevano nelle cose spirituali, e portavano perciò maggior ossequio e riverenza al clero, e si rendevano pronti ad aumentarlo con oblazioni e donazioni; donde si vede la santa Chiesa venuta nello stato che si trova. Ma dopo che la devozione è cessata, li secolari non hanno altra mira che usurpar quello della Chiesa e operar che siano poste nel clero persone aderenti alla loro volontá: e però fu conveniente levarli il privilegio datogli ed escluderli affatto dalle elezioni e ordinazioni. E li moderni eretici aver trovato una diabolica [p. 15 modifica] invenzione, con dire che fosse debito quello che per grazia fu conceduto; e questa è delle piú pestifere eresie che mai fossero inventate, poiché distrugge la Chiesa, e senza quella non può star la fede. Allegò molte ragioni e congruenzie, per quali l’ordinazione debbe esser in sola potestá dell’ordinatore; e quelle confermò con decretali de pontefici. E in fine concluse che non solo sentiva che l’articolo dovesse esser condannato per eretico, ma ancora che, essendosi levato via con giuste e necessarie ragioni il voto e consenso della plebe nelle ordinazioni, si correggesse anco il ponteficale, e si levassero quei luochi che ne fanno menzione; perché restando, sempre gli eretici se ne vaieranno per provare che l’intervento del populo sia necessario. Li luochi esser molti; ma per recitarne uno, nell’ordinazione del li preti il vescovo ordinatore dice che non senza causa fu statuito dai Padri che nell’ordinazione delli rettori dell’altare intervenga il voto del populo, acciò sia ubidiente all’ordinato, poiché averá prestato il consenso suo ad ordinarlo: se questo e altri tal riti resteranno, sempre li eretici detteranno alla chiesa cattolica; diranno che le ordinazioni al presente sono mostre e apparenze, come impiamente disse Lutero.

Fra’ Francesco Forier, dominicano portughese, disse non potersi metter in dubbio la gerarchia della chiesa cattolica, avendosi per tradizione degli apostoli e per testimonio di tutta l’antichitá e per costume della Chiesa in ogni tempo. E quantunque il vocabolo non sia da tutti usato, nondimeno la cosa significata esser stata sempre in uso. Dionisio Areopagita averne fatto un proprio trattato; e il concilio niceno averla approbata, e nominatala costume antico; e quel che dalli Padri nel principio del quarto secolo è chiamato antico, nissun potrá negargli l’origine al tempo degli apostoli. Solo a lui pareva che non fosse luoco di trattarne insieme col sacramento dell’ordine, se ben molti delli scolastici ne trattano in quel luoco, ponendo la ierarchia negli ordini superiori e inferiori: cosa che non sussiste, essendo certo che il pontefice è il sommo ierarca: seguono li cardinali, patriarchi, primati, arcivescovi, vescovi, e dopo ancora arcipreti, arcidiaconi e gli altri de’ [p. 16 modifica] prelati subalterni sotto un capo, il papa. E tralasciata la disputa se il vescovato sia ordine, almeno è cosa certa che l’arcivescovato, patriarcato e papato non sono ordini, e sopra il vescovato non dicono se non superioritá e giurisdizione. Adunque nella giurisdizione consiste la ierarchia; e il concilio niceno in quella la pone, quando parla del pontefice romano e dell’alessandrino e antiocheno; e però trattando dell’ordine non esser opportuno trattare della ierarchia, acciocché non vi sia luoco alla calunnia.

Molta diversitá fu nella discussione di questi articoli, ritornando questi della seconda classe alli anteriori, e disputando alcuni che il vescovato fosse ordine, e altri che sopra il presbiterato non aggiongesse altro che giurisdizione, alcuni allegando san Tomaso e san Bonaventura; e altri portavano una media opinione, cioè che sia una dignitá eminente, o vero ufficio nell’ordine. Fu ben anco allegato il celebre luoco di san Gerolamo, e l’autoritá di sant’Agostino in confermazione di questo, li quali vogliono il vescovato esser ben antichissimo, ma però ecclesiastica instituzione. Ma a questi Michiel di Medina opponeva che la chiesa cattolica, come sant’Epifanio testifica, condannò per eretico Aerio, per aver detto che il vescovato non è maggior del presbiterato: nella qual eresia non è maraviglia se Gerolamo, Agostino e qualche altro dei Padri è incorso, perché la cosa non era ben chiara per tutto. Fu con non poco scandolo udita l’audacia del dire che Geronimo e Agostino sentissero eresia; ma quel dottore tanto piú insisteva, sostentando la sua opinione. E si divisero li dottori in pari numero in due pareri intorno la ierarchia: altri la ponevano nelli ordini soli, allegando Dionisio che nel nominar li ierarchi non fa menzione se non de diaconi, preti e vescovi; altri seguirono il Forier, che fosse nella giurisdizione; sin tanto che uscí fuori una terza opinione, che consistesse nella mistione d’ambidua. La quale dopo piú universalmente era approvata; perché, ponendola nell’ordine, non appariva come vi entrassero arcivescovi e patriarchi e, quello che piú importa, il papa, essendo tutti d’accordo che questi gradi non siano ordini sopra il [p. 17 modifica] vescovato (se ben alcuni in contrario allegavano la comun sentenza: l’ordine episcopale è quadripartito in vescovi, arcivescovi, patriarchi e papa), e ponendola nella giurisdizione, nessuno delli sacri ordini vi entrava.

Una gran disputa fu tra loro, qual fosse la forma della ierarchia, alcuni dicendo la caritá, altri la fede informe, altri l’unitá, secondo l’opinione del Cardinal Turrecremata. Ma a questo era opposto che l’unitá è una passione generica in tutto quello che è uno, ed è effetto della forma che la produce. Quelli che asserivano la caritá, portavano innumerabili luochi de’ Padri, che a quella attribuiscono l’unitá della Chiesa. Ma gli altri opponevano che fosse l’eresia di Viglef; perché, se cosí fosse, il prelato, perdendo la caritá, sarebbe fuori della ierarchia e perderebbe l’autoritá. Però nel porre la fede informe non fuggivano la difficoltá, atteso che potrebbe essere un prelato in suo secreto infedele, che la fingesse in esterno; il qual quando non appartenesse alla ierarchia, il popolo cristiano non saprebbe chi ubidire, potendosi dubitare di tutti, e avendo causa di farlo alcune volte. Come sogliono li teologi, massime frati, esser liberi nell’esemplificare, portavano anco in tavola il pontefice romano, dicendo che quando fosse incredulo, perirebbe tutta la ierarchia per difetto di esso, cosí ponendo per forma la fede come la caritá. Ed essi mettevano il battesmo: ma le medesme difficoltá nascevano per l’incertezza di quello, ricercandosi essenzialmente, secondo la determinazione del concilio, l’intenzione del ministro, tanto piú occulta, quanto quell’altre due: per la qual causa non si può di alcuno affermar che sia battezzato.

Li articoli se vi è sacerdozio visibile, se tutti li cristiani sono sacerdoti e se il sacerdote può deventar laico, e se il suo ufficio è la predicazione, non furono trattati con discussione, ma con declamazione contra li luterani, che privano la Chiesa del commercio con Dio, e del modo di placarlo, che la fa una confusione senza governo, e che la priva di tutta la sua bellezza e decoro. Fra’ Adamanzio fiorentino, teologo del Cardinal Madruccio in questa classe, avverti d’aver udito per il [p. 18 modifica] piú, da quei che inanzi avevano parlato, solo ragioni probabili e convenienze, che in simil propositi, dove si trattano articoli di fede, non solo non constringono gli avversari, ma li fanno confermare maggiormente nelle opinioni loro; e produsse in confermazione di questo un luoco di sant’Agostino molto espresso. Aggionse anco che il parlar in concilio vorrebbe esser differente da quello delle scole; imperocché in quelle, quanto piú le cose sono sminuciate e con curiositá esaminate, tanto meglio è; ma non è decoro in concilio esaminar se non quello che si può dilucidare e metter in chiaro: che tante questioni erano ventilate, delle quali non si può in questa vita, dove Dio non vuol che tutto sia saputo, venir in cognizione. Bastar assai per quest’articolo che la Chiesa sia ierarchica, e che la ierarchia consta delli prelati e ministri, che questi sono ordinati dai vescovi, che l’ordine è sacramento, che li secolari non hanno in questo parte alcuna. Fra’ Pietro Ramirez franciscano, seguendo la dottrina di Giovanni Scoto, avvertí che non si dovesse dir l’ordine esser sacramento, per esser cosa invisibile e permanente, dove che li sacramenti tutti convien che visibili siano, e, fuor che l’eucaristia, consistano in azione: e però a fine di fuggir tutte le difficoltá, si debbia dire che non l’ordine, ma l’ordinazione è sacramento. Questo ebbe gran contradizione, perché tutti li teologi dicono l’ordine sacramento, e (quello che non meno importa) anco il concilio fiorentino; e sarebbe grand’audacia tassar d’improprietá tutti li dottori, un general concilio e tutta la Chiesa che cosí parla.

La terza classe nel quinto articolo non ebbe minor varietá; e se ben tutti convennero che lo Spirito Santo era dato e ricevuto nell’ordinazione, però altri dicevano che era dato in propria persona, altri nel dono della grazia: sopra che fu disputato assai. Ma piú da quei che la grazia asserivano era conteso se era data la grazia della giustificazione, o un dono per poter esercitar l’ufficio: quelli si fondavano perché tutti li sacramenti danno grazia di giustificazione; questi perché un impenitente non può riceverla, e pur riceve l’ordine. Ma del carattere, sí come tutti furono concordi che nel sacerdozio [p. 19 modifica] sia impresso, cosí nel rimanente furono di varie opinioni, dicendo alcuni che in tutti li sacri solamente, altri in tutti sette: le qual opinioni da san Bonaventura sono stimate tutte probabili. Ad alcuni piaceva la distinzione di Durando, che intendendo per carattere una potestá di far alcun effetto spirituale, il solo sacerdozio l’ha, che solo può far opera spirituale di consecrare e rimetter li peccati; gli altri non l’hanno, poiché le operazioni loro sono corporali, e cosí bene sono fatte dagli ordinati come da’ laici, eziandio senza minimo peccato veniale. Ma se per carattere s’intende una deputazione ad un speciale ufficio, cosí tutti li ordeni hanno il carattere proprio. A questi era opposto che fosse l’opinione luterana contenuta nel primo articolo, e però era necessario affermar in tutti un carattere proprio e indelebile. Non mancò chi voleva trovarlo anco nella prima tonsura. L’argomento di questi fu perché non si reiterano manco nel degradato, come bisognerebbe fare in quelli che non lasciano carattere impresso, e perché con questa l’uomo era ascritto al chiericato e partecipe delle esenzioni e immunitá ecclesiastiche; né sarebbe possibile sostentar che il chiericato e l’immunitá siano de iure divino, se non dicendo che la prima tonsura sia di divina instituzione. Del vescovato, maggior fu la controversia; e si rinnovò la questione se è uno degli ordini, perché avendo due proprie operazioni cosí insigni, confermare e ordinare, è necessaria la potestá spirituale che è il carattere, senza la quale l’ordinazione o confermazione non averebbono il suo effetto. Li prelati che stavano ad udire erano pieni di tedio, sentendo tante difficoltá, e prestavano l’orecchia grata a quelli che dicevano doversi tralasciare e parlar in termini universali: non senza mormorazione del li frati, che si stomacarono, udendo e vedendo in loro disposizione pel difinire articoli e prononciar anatemi senza intender le materie, e aborrendo chi gliele esplicava.

Nel sesto articolo tutti con una voce dannarono li luterani d’aver detratto alle onzioni e ceremonie nel conferir li ordeni: volevano alcuni che fossero distinte le necessarie, che appartengono alla sostanza del sacramento, sí come nel concilio [p. 20 modifica] fiorentino fu fatto, e si dechiarasse eretico chi senza di quelle asseriva potersi dare o ricever l’ordine: e quanto alle altre, con universali parole fosse condannato chi le chiamava perniciose. Per questo molta contenzione nacque, qual fossero le necessarie, e quali le aggionte per maggior decoro o devozione. Parve che molto al proposito parlasse Melchior Cornelio portughese, il quale considerò esser cosa certa che li apostoli nell’ordinare usavano le imposizioni delle mani, sí che mai nella divina Scrittura si legge alcuna ordinazione senza questa cerimonia; quale nelli tempi seguenti anco tanto fu stimata essenziale, che l’ordinazione veniva con quel nome chiamata; con tutto ciò Gregorio IX la dice rito introdotto dagli apostolici; e molti teologi non l’hanno per necessaria, se ben altri sono di contraria opinione. L’onzione ancora si vede, dalla decretale d’Innocenzio III in questa materia, che in tutte le Chiese non era usata; e li celebri canonisti Ostiense, Giovanni Andrea, l’Abbate e altri affermano che il papa può ordinare un prete con la sola parola, dicendo: «Sii sacerdote»: e quel che piú importa, Innocenzo, padre di tutti li canonisti, dice universalmente che se non fossero le forme ritrovate, basterebbe che l’ordinatore dicesse: «Sii sacerdote», o altre parole equivalenti, perché le forme che si osservano la Chiesa le ha ordinate dopo. E per queste ragioni il Cornelio consegliò che non si parlasse di ceremonie necessarie, ma solamente fossero condannati quelli che le hanno per superflue o perniciose.