Istoria del Concilio tridentino/Libro sesto/Capitolo VI

Libro sesto - Capitolo VI (7 - 23 giugno 1562)

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CAPITOLO VI

(7 - 23 giugno 1561).

[Si acuiscono i contrasti fra il concilio e Roma. — Il papa propone una vasta lega cattolica contro i protestanti, ma nessun principe vi aderisce. — Indole di Pio IV, e modi da lui usati con gli ambasciatori ed i prelati. — La missione del vescovo Visconti a Trento. — Il papa, scontento del Gonzaga, vorrebbe sostituirlo, ma poi si ricrede, per le rassicurazioni avute dall’arcivescovo di Lanciano sugli intendimenti dei legati e del concilio. — I teologi esaminano minutamente i singoli articoli della comunione sub utraque specie ed ai fanciulli.]

Li scambievoli disgusti e detrazioni delli romani contra li trentini, e di questi contra di quelli, ad ogni arrivo di novo corriero s’accrescevano. In Trento li fautori della residenza deploravano le miserie della Chiesa, la servitú del concilio e la desperazione manifesta di veder la Chiesa riformata in Roma. Li contrari si lamentavano che al concilio fosse macchinato un scisma, anzi apostasia dalla sede apostolica; dicevano che gli oltramontani per odio e invidia contra gl’italiani miravano non tanto alla depressione, quanto all’abolizione del pontificato; quale essendo il fondamento della Chiesa (ché per tale Cristo l’ha posto), bisognava che ne seguisse total destruzione dell’edificio. Il pontefice, giongendo novi avvisi giornalmente, e sempre peggiori, sí come anco ogni giorno succedeva novitá in Trento (oltre li accidenti che in Germania e in Francia occorrevano, contrari alle cose sue), sentiva maggior disgusti. Non tanto li dava noia l’opinione della residenza nella maggior parte, quanto le pratiche che erano fatte, massime dalli ambasciatori, penetrando egli che dentro vi fosse interesse de prencipi contra la sua autoritá. Vedeva l’imperatore tutto vòlto al crear re de’ romani il figlio, e parato a dar ogni satisfazione [p. 401 modifica] alla Germania; e per questo aver fatto presentar li articoli di riforma alli legati, e chiamato l’ambasciator Praga per trovar modo di proporli in concilio e stabilirli: il re di Francia esausto, circondato da difficoltá infinite, e in pericolo di esser costretto ad accordarsi con li ugonotti; il che successo, corrino tutti li prelati francesi al concilio e s’accostino alli spagnoli, e si facciano anco autori di altre proposte contra l’autoritá pontificia. Pensò di rimediare alla tempesta, che vedeva prepararsi, con le opere e con le parole: diede ordine di levar quattromila svizzeri e tremila cavalli tedeschi; mandò in Avignone Nicolò Gambara con cinquecento fanti e cento cavalli leggieri; diede denari al duca di Savoia per star armato e opporsi, se ugonotti fossero per descender in Italia; e per impegnare tutti li principi deliberò di trattar una lega defensiva di tutti li cattolici contra le macchinazioni de’ protestanti in ciascun luoco, tenendo per cosa facile che ciascuno condescendesse, se non per altra causa, almeno per liberarsi dalle suspizioni l’uno dell’altro. In Italia li pareva facil cosa indurvi tutti: il duca di Fiorenza tutto suo, Savoia interessato per li suoi aiuti e per il pericolo, veneziani desiderosi di tenir le genti oltramontane fuori d’Italia, il re di Spagna nel bisogno stesso per Napoli e Milano, Francia per la necessitá in che attualmente si trovava. Pertanto fece la proposta in Roma alli ambasciatori imperiale e veneto, e mandò l’abbate di San Solutore per questo in Francia, e al re di Spagna monsignor Odescalco, al quale anco diede instruzione di dolersi col re che li vescovi spagnoli fossero uniti contra la sua autoritá, e di mostrarli che le proposte dell’imperatore sarebbono atte a causar un scisma. Era facile preveder l’esito di questa proposta a chi sapeva (ancorché superficialmente) li fini de’ principi. L’imperatore per niente sarebbe condesceso a cose di sospetto a’ protestanti; il re di Francia tanto era lontano da ovviare l’entrata dei ugonotti in Italia, che averebbe desiderato vedere una total evacuazione del suo regno; Spagna, possedendo tanto stato in Italia, piú temeva e aborriva una unione di principi italiani, che non desiderava l’opposizione alli eretici; li [p. 402 modifica] veneziani e il duca di Fiorenza non potevano consentir a cosa che potesse turbar la quiete d’Italia. E cosí successe che alla proposta di lega non fu corrisposto da alcuno dei prencipi: da ciascuno fu allegata qualche causa propria; ma anco una comune, che sarebbe impedir il progresso del concilio; se ben molti credevano che, quando fosse seguito, non li sarebbe dispiaciuto. Ed egli dava materia di cosí credere, perché di novo propose in consistoro di far dechiarar la continuazione e di dechiarar esso la residenza; le qual cose non eseguÌ, considerato il voto del cardinale da Carpi, seguito dalla maggior parte degli altri, che non fosse servizio suo e della sede apostolica farsi autore delle cose odiose che potessero alienarli l’animo d’una parte, ma meglio fosse lasciar in libertá del concilio per allora.

Non restava però di querelarsi anco nel consistoro delli ambasciatori tutti. Delli francesi diceva che Lansac li pareva un ambasciatore de ugonotti nelle sue proposte, ricercando che la regina d’Inghilterra, li svizzeri protestanti, Sassonia e Virtemberg siano aspettati al concilio, quali sono dechiarati inimici e rebelli, e non hanno altro fine che di corrompere il concilio e farlo ugonotto; ma che egli lo conserverá cattolico, e averá forze da farlo; che esso e li colleghi difendevano alcuni, quali disputavano l’autoritá del concilio sopra il papa, quale è eretica opinione, e li fautori di quella eretici; minacciando di perseguitarli e castigarli. Passò anco a dire che vivevano da ugonotti, non facevano riverenza al Sacramento; che Lansac a tavola, in presenza di molti prelati invitati, avesse detto che sarebbono venuti tanti vescovi di Francia e di Germania che averebbono scacciato l’idolo da Roma: si querelava d’uno delli ambasciatori veneti, e contro lui fece indoglienza con quei Signori. Diceva de’ cardinali Mantoa, Seripando e varmiense che erano indegni del cappello; e delli prelati secondo che occorreva, operando con gli amici di ciascuno che gli fosse scritto. Il tutto era da lui fatto e detto (quantonque non fosse tutto creduto da lui) non per incontinenza di lingua, ma con arte, per costringer ciascuno, chi per timore, chi per [p. 403 modifica] vergogna e chi per civiltá, a far la sua difesa con lui, la qual egli con facilitá grandissima riceveva e prontamente credeva: e per questa via incredibil cosa è quanto avanzassero le cose sue. Si guadagnò alcuni, e altri fece che procedessero piú cautamente e piú rimessamente; onde vivificandosi in lui il suo naturale, che era di aver molta speranza, diceva che tutti erano uniti contra lui, ma in fine li averebbe tutti riuniti a suo favore, perché tutti di lui hanno bisogno e li dimandano chi aiuti, chi grazie.

Tra li molti prelati che il papa mandò ultimamente, come s’è detto, da Roma al concilio, uno fu Carlo Visconte vescovo di Vintimiglia, che era stato senator di Milano e in molte legazioni, persona di gran maneggio e di giudicio fino; quale avendo caricato di promesse (che gli attese anco, avendolo, nella prima promozione dopo il concilio, creato cardinale), volle averlo in Trento, oltre li legati, ministro secreto. Li commise di parlare a bocca con diversi quello che non conveniva mettere in carta, e di avvertir bene li dispareri che fossero tra li legati, e avvisar particolarmente le cause; di osservare accuratamente li umori delli vescovi, le opinioni e pratiche, e scriver minutamente tutte le cose di sustanzia; gli impose di onorare il Cardinal di Mantoa sopra tutti li altri legati, ma intendersi però col Cardinal Simonetta, qual era conscio della mente sua, e di fare ogn’opera perché la dechiarazione della residenzia si sopisse a fatto; e quando questo non si potesse, si prolongasse sino alla fine del concilio: il che se non si potesse ottenere, si portasse al piú longo che possibil fosse, adoperando tutti li mezzi che conoscesse esser espedienti per questi fini. Li diede anco una polizza con li nomi di quelli che avevano tenuto la parte romana nella stessa materia, con commissione di ringraziarli e confortarli a proseguire, e con promessa di gratitudine; rimettendo a lui, nel trattar con li contrari, l’usar qualche sorte di minaccie, senza acrimonia di parole, ma gagliarde in sostanza; e promettere, a chi si rimettesse, l’oblivione delle cose passate; e tener avvisato minutamente il Cardinal Borromeo di tutto quello che occorreva: come fece. [p. 404 modifica]

E il registro delle littere, scritte da lui con molto sale e giudicio, m’è venuto fatto vedere; dal quale è tratta gran parte delle cose che si diranno.

Ma, avuto ultimamente l’avviso della promessa fatta da Mantoa, vidde la difficoltá di divertire la trattazione dell’articolo, e dalla dissensione nata tra li legati entrò in dubbio di qualche catena di mali maggiori, ed ebbe questo punto per principalissimo, cosí per la esistenza come per la reputazione. Perché come potrebbe sperar di reprimere li tentativi delli ministri d’altri principi, quando non provvedesse alli suoi propri? Pertanto conobbe che alla malattia gionta alle parti vitali convenivano rimedi potentissimi. Risolvette di dechiarar apertamente la mala sodisfazione che di Mantoa aveva, per cavarne frutto che egli mutasse modo di operare, o vero dimandasse licenza, o in altro modo da Trento si ritirasse: e quando bene ne seguisse la dissoluzione del concilio, tanto meglio. Li spazzi, che a Trento s’inviavano a lui come primo tra li legati, ordinò che si inviassero a Simonetta: levò dalla congregazione de’ cardinali preposti alle consultazioni di Trento il Cardinal Gonzaga, e per Federico Borromeo gli fece dire che il Cardinal suo zio pensava alla rovina della sede apostolica, ma non li sarebbe successo altro che rovinar se stesso e casa sua. Al Cardinal Sant’Angelo, amicissimo di Mantoa, narrò il pontefice tutte le cose successe, contra di lui mostrandosi alteratissimo, e non meno contra di Camillo Olivo, secretarlo del cardinale, come quello che non avesse operato secondo che gli promise quando fu mandato a Roma. Il che anco costò caro al pover uomo, imperocché, quantunque seguisse la riconciliazione del papa col cardinale, nondimeno dopo la morte di quello, tornato a Mantoa col corpo del patrone, sotto diversi pretesti fu impregionato dall’inquisizione e longamente travagliato; il quale, dopo cessate le persecuzioni, ho conosciuto io persona di molta virtú e non meritevole di tali infortuni.

In questa disposizione d’animo, arrivò Lanciano in Roma. Presentò tra le altre cose al pontefice una lettera sottoscritta [p. 405 modifica] da piú di trenta vescovi di quelli che tenevano la residenza, nella quale si dolevano del disgusto di Sua Santitá e protestavano di non intendere che la loro opinione fosse contra l’autoritá pontificia, la qual si dechiaravano di voler defendere contra tutti e mantenerla inviolata in ogni parte. Le quali lettere fecero una mirabil disposizione nell’animo del pontefice a ricever gradatamente quelle delli legati, di Mantoa, Seripando e varmiense, e ascoltar la relazione dell’arcivescovo, il quale li diede minuto conto di tutte le cose passate, e li levò gran parte della suspizione. Poi passò a scusar li cardinali e mostrar al pontefice che, non potendo prevedere dover nascere inconveniente alcuno, avevano scoperto l’opinione che in conscienzia tenevano; e dopo nate le contenzioni senza loro colpa né mancamento, la loro aderenza a qual parere era riuscita con onor di Sua Santitá e della corte. Perché cosí non si poteva dire né che Sua Santitá né che tutta la corte fosse contraria ad un’opinione stimata dal mondo pia e necessaria; il che era ben riuscito, perché cosí hanno acquistato e credito e autoritá appresso li prelati, e hanno potuto moderar l’empito di alcuni, ché altrimenti sarebbe nata qualche gran divisione con notabil danno della Chiesa. Li narrò li frequenti ed efficaci uffici fatti da loro per quietar li prelati, e li affronti anco ricevuti da chi li rispondeva di non poter tacere contra conscienzia. Narrò li pericoli e necessitá che constrinser Mantoa alla promessa; li soggionse che, per levar ogni suspizione dall’animo di Sua Santitá, la maggior parte delli prelati si offerivano nella prossima sessione dechiararlo capo della Chiesa; e avevano dato a lui carico di fargliene ambasciata, che per molti rispetti non giudicavano da esser messa in scritto; e gliene nominò tanti, che fece maravigliare il papa, e dire che male lingue e peggior penne gli avevano depinto quei padri d’altre qualitá. Li mostrò poi la unione e fermezza delli ministri delli principi a mantener il concilio, e la disposizione delli prelati a sopportar ogni cosa per continuarlo: che non poteva nascer occasione di dissolverlo; che la trattazione della residenza era cosí inanzi, e li padri interessati per la [p. 406 modifica] conscienzia e per l’onore, e li ambasciatori per la riputazione, che non bisognava trattar di negare che si difinisse. Li diede conto e copia delle richieste delli ambasciatori imperiali; li mostrò come tutte miravano a sottoporre il papa al concilio; li raccontò con quanta prudenza e destrezza il Cardinal di Mantoa aveva declinato il proporle in congregazione. Concluse che, non essendovi rimedio per fare che le cose passate non le siano, la sapienza di Sua Santitá potendo attribuire molto al caso, se ancora qualche accidente fosse occorso non per malizia, ma per poca avvertenza d’alcuno, con la benignitá sua l’indurrebbe a perdonare il passato e dar ordine per l’avvenire, essendo tutti pronti a non propor né trattar cosa, se non prima consegliata e deliberata da Sua Santitá.

Il papa, pensata e consegliata bene la rimostranza, riespedí l’arcivescovo in diligenza, l’accompagnò con lettere alli legati e ad alcuni altri delli sottoscritti a quelle che gli portò, e gli diede commissione di dire per suo nome a tutti che egli vuole il concilio libero, che ognuno parli secondo la propria conscienzia, che si decreti secondo la veritá; che non s’è alterato né ha preso dispiacere perché li voti siano dati piú ad un modo che all’altro, ma per le pratiche e tentativi a persuader e violentar altri, e per le contenzioni e acerbitá nate tra loro, le qual cose non sono degne di un concilio generale: però che non s’oppone alla determinazione della residenza, ben conseglia che lascino sbollire il fervore che li porta; e quando gli animi saranno addolciti e mireranno al solo servizio divino e beneficio della Chiesa, si potrá trattar la materia con frutto. Al Cardinal di Mantoa condescese a dire d’aver conosciuto con sommo piacer la sua innocenza e affezione, e che gliene mostrerá segno, pregandolo ad adoperarsi che il concilio presto si termini, poiché dalli ragionamenti con Lanciano avuti ha compreso che al settembre si può metterci fine. E in conformitá scrisse in comune a tutti li legati che, seguendo li vestigi del concilio sotto Giulio e pigliando le materie da quello giá digeste, dovessero determinarle immediate e metterci fine. [p. 407 modifica]

In questo tempo s’attese in Trento ad ascoltar l’opinione de’ teologi sopra li sei articoli nelle congregazioni, che cominciarono il 9 e finirono il 23 del mese. Nelle quali, se ben sessanta teologi parlarono, non fu detta cosa degna di osservazione, atteso che, essendo la disputa nova, dalli scolastici non promossa, e nel concilio constanziense di primo salto difinita, e dalli boemi piú tosto con le armi e forza che con ragioni e dispute sostentata, non avevano altro da studiare che quanto dopo scrissero nelli prossimi quaranta anni alcuni pochi, eccitati per le proposte di Lutero: imperò furono tutti concordi che non vi fosse necessitá né precetto del calice. Per prova della conclusione allegavano luochi del novo Testamento, dove il pane solo è nominato, come in san Giovanni: «Chi mangia questo pane, viverá perpetuamente». Dicevano che sino nel tempo degli apostoli era in frequente uso la sola specie del pane, come in san Luca si legge, che li discepoli in Emaus conobbero Cristo nel frangere il pane, e del vino non ci è menzione; e san Paulo in mare naufragante benedice il pane, né si parla di vino: in molti delli canoni vecchi si fa menzione della comunione laica differente da quella del clero, che non poteva esser in altro che nel calice. A queste aggiongevano le figure del Testamento vecchio: la manna, che significa l’eucarestia, non ha bevanda; Gionata, che gustò il miele, non bevette; e altre tal congruitá: e cosa di molta pazienza era sentir tutti replicar le medesime cose a sacietá.

Non debbo tralasciar di narrare questo particolare: che Giacomo Paiva portoghese seriamente prononciò che Cristo con suo precetto e col suo esempio aveva dechiarato doversi la specie del pane a tutti, e il calice a’ soli sacerdoti, imperocché egli, consecrato il pane, lo porse agli apostoli, che ancora erano laici e rappresentavano tutto il populo, comandando che tutti ne mangiassero; dopo questo ordinò li apostoli sacerdoti, con le parole: «Fate questo in mia memoria»; e in fine consecrò il calice e lo porse loro, giá consecrati sacerdoti. Ma li piú sensati passavano leggermente questa sorte de argomenti e si restringevano a doi: l’uno, che [p. 408 modifica] la Chiesa ha da Cristo potestá di mutare ie cose accidentali nelli sacramenti, e che all’eucarestia come sacrificio è necessaria l’una e l’altra specie, ma come sacramento una sola, onde ha potuto la Chiesa ordinare di una solamente l’uso: cosa che confermavano, perché la Chiesa quasi nel principio mutò una volta la forma del battesimo per invocazione della Trinitá in sola invocazione di Cristo, e poi ritornò alla instituzione divina. L’altra ragione, che la Chiesa non può errare; ma ella ha lasciato introdur l’uso della sola specie del pane, e finalmente l’ha approvato nel concilio constanziense: adunque convien dire che non vi sia precetto divino o altra necessitá in contrario.

Ma frate Antonio Mondulfo, teologo del vescovo di Praga, avendo prima affermato di sentir con gli altri in questo, che non vi fosse precetto divino, avvertí che era cosí contrario alla dottrina cattolica il dare a’ laici il calice per precetto di Dio, come il negarglielo parimente per precetto: però bisognava metter da canto tutte quelle ragioni che cosí concludevano, e insieme quelle delli discepoli in Emaus e di san Paulo in nave, poiché da quelle si concluderebbe che non fosse sacrilegio il consecrar una specie senza l’altra: che è contra tutti li dottori e ’l senso della Chiesa, e distrugge la distinzione portata dell’eucarestia come sacramento e come sacrificio. Quella distinzione ancora di comunione laica e clericale esser chiaro nell’ordinario romano che era diversitá de luochi nella Chiesa, non di sacramento ricevuto; oltre che questa ragione concluderebbe che non li soli celebranti, ma tutto il clero avesse il calice. Dell’autoritá della Chiesa in mutar le cose accidentali dei sacramenti non si poteva dubitare, ma non era tempo di metter adesso a campo se il calice sia accidentale o sustanziale. Concludeva che questo articolo si poteva tralasciare, come giá deciso dal concilio constanziense, e trattar accuratamente il quarto e quinto; perché concedendo il calice a tante nazioni che lo ricercano, tutte le altre dispute sono superflue, anzi dannose. In questa medesima sentenza parlò anco fra’ Giovanni Paulo, teologo del Cinquechiese; e [p. 409 modifica] furono mal uditi da tutti, tenendosi che parlassero contra la propria conscienzia, ma questo ad instanza del suo patrone, e quello per commissione avuta dal suo inanzi la partita.

Sopra il secondo articolo li teologi furono parimente uniformi nella affirmativa, e tutte le ragioni si riducevano a tre capi: le congruitá del Testamento vecchio, quando il populo nei sacrifici partecipava delli cibi offerti, ma niente mai delli libami; il levar al vulgo l’occasione di credere che altra cosa si contenga sotto la specie del pane e altra sotto la specie del vino; il terzo, il pericolo di irreverenza. E qui furono nominati li recitati da Gerson: che il sangue potrebbe versarsi o in chiesa o nel portarlo, massime per montagne l’inverno; che s’averebbe attaccato alle barbe longhe dei laici; che conservandosi potrebbe inacidire; che non ci sarebbono vasi di capacitá per dieci o ventimila persone; che in alcuni luochi sarebbe troppa spesa per la carestia del vino; che li vasi sarebbono tenuti sporchi; che sarebbe di ugual dignitá un laico quanto un sacerdote. Le qual ragioni è necessario dire che siano giuste e legittime, altrimenti per tanti secoli tutti li prelati e dottori averebbono insegnato la falsitá, e la Chiesa romana e il concilio di Costanza averebber fallato. Di quei medesmi che queste cause allegavano (eccetto l’ultima) insieme anco se ne ridevano, perché con quei modi che s’era ovviato alli narrati pericoli per dodici secoli, quando la Chiesa era anco in maggior povertá, si poteva rimediare a tutti piú facilmente nei nostri tempi; e l’ultima ben si vedeva non esser d’alcun valore a dimostrar la ragionevolezza della mutazione, ma bene per mantenerla dopo fatta. Li due teologi soprannominati consegnarono anco che questo articolo fosse tralasciato.

Nell’articolo terzo fu presa per argomento la dottrina de’ teologi della concomitanza, che tutto Cristo sia ricevuto sotto una sola specie, imperocché essendo sotto il pane per virtú della consecrazione il corpo, dicendo le parole di Cristo, oinnipotenti ed effettive: «Questo è il corpo mio», ed essendo il corpo di Cristo vivo, adunque, con sangue e anima e con la divinitá congionta, onde restava senza dubbio alcuno che sotto la specie del pane tutto Cristo fosse ricevuto. Ma da questo [p. 410 modifica] inferivano alcuni: «Adunque insieme tutte le grazie, poiché a chi ha tutto Cristo niente può mancare, ed egli solo abbondantemente basta». Altri in contrario dicevano non esser illazione necessaria, né meno probabile, che ricevendo tutto Cristo si ricevi ogni grazia; perché anco li battezzati, secondo san Paulo, sono tutti ripieni di Cristo, e nondimeno alli battezzati si danno gli altri sacramenti. E perché alcuni fuggivano la forza della ragione, con dire che gli altri sacramenti sono necessari per li peccati dopo il battesimo, era da altri replicato che l’antica Chiesa comunicava immediate li battezzati; onde sí come dall’esser ripieno di tutto Cristo per il battesmo non si poteva inferir che l’eucarestia non donasse altre grazie, cosí per aver ricevuto tutto Cristo sotto la specie del pane non si poteva inferir che altra grazia non s’avesse da ricevere mediante il calice; e meno senza estrema assurditá potersi dire che il sacerdote nella messa, avendo ricevuto il corpo del Signore, e per consequenza tutto esso, nel bevere il calice non riceva grazia, perché il beverlo altrimenti sarebbe un’opera indifferente e vana. Poi esser deciso dalla comun dottrina della scola e della Chiesa che per ogni azione sacramentale si conferisce, per virtú dell’opera medesima che dicono ex opere operato, un grado di grazia. Ma il bevere il sangue di Cristo non si può negare esser azione sacramentale; adunque né meno potrá negarsegli la sua grazia speciale. In questa controversia il maggior numero de’ teologi tenne che, non parlandosi della quantitá di grazia rispondente alla disposizione del recipiente, ma di quella che li scolastici «sacramentale» chiamano, quella fosse uguale in chi riceve una specie sola, e in chi ambedua. L’altra opinione, se ben da manco numero, era difesa con maggior efficacia.

Sopra questo articolo, non so con che pensiero o fine, passò molto inanzi frate Amante servita bresciano, teologo del vescovo di Sebenico, uno delli fautori di questa seconda opinione, il quale portando la dottrina di Tomaso Gaetano, che il sangue non sia parte dell’umana natura, ma primo alimento, e soggiongendo non potersi dire che di necessitá un corpo tiri in concomitanza l’alimento suo, inferí che non onninamente [p. 411 modifica]fosse l’istesso il contenuto sotto ambe le specie; e aggionse che il sangue dell’eucarestia, secondo le parole del Signore, era sangue sparso, e per consequenza fuori delle vene, stando nelle quali non può esser bevanda, e non poteva dalle vene esser tirato in concomitanza; e che l’eucarestia era instituita in memoria della morte di Cristo, che fu per separazione ed effusione di sangue. Alla qual considerazione fu eccitato gran rumore dalli teologi presenti, e fatto strepito di banche; per il che egli, fermato il moto, si retrattò, dicendo che il calore della disputa l’aveva portato ad allegar le ragioni degli avversari come proprie, le quali però egli aveva pensiero in fine di risolvere; sí come anco consumò tutto ’l resto del suo ragionamento in risoluzione di quelle, dimandando in fine perdono dello scandolo dato, non avendo parlato con tal avvertimento che avesse apertamente mostrato quelle esser ragioni capziose e contrarie alla sua sentenza. E fini senza parlar sopra gli altri tre articoli.

Ma sopra il quarto articolo è maraviglia quanto fossero uniti li teologi spagnoli, e li altri da Spagna dependenti, in consegnare che non si permettesse in modo alcuno uso del calice alla Germania né ad altri. La sostanza delle cose dette da loro fu: che non essendo cessata alcuna delle cause che mossero la Chiesa nei tempi superiori a levar il calice al populo, anzi essendo quelle tutte fatte piú urgenti che giá non erano, ed essendone aggionte altre molto piú forti ed essenziali, conveniva perseverar nel deliberato dal concilio di Constanza e dalla Chiesa prima e dopo. E discorrendosi quanto alli pericoli d’irreverenza (che era il primo genere di cause) quelli al presente esser da temere piú che giá tempo, perché allora non vi era alcuno che non credesse fermamente la real e natural presenza di Cristo sotto il sacramento dopo la consecrazione sino che le specie duravano (e con tutto ciò il calice si levò, per non aver gli uomini quel risguardo al sangue di Cristo che era necessario), che riverenza si può sperare adesso, quando altri negano la real presenza, e altri la vogliono solo nell’uso? La devozione ancora nelli buoni cattolici esser diminuita, e accresciuta molto la diligenza nelle cose umane e la [p. 412 modifica] trascuratezza nelle divine; onde potersi temere che una maggior negligenza possi produr maggior irriverenza. Il far differenti li sacerdoti dagli altri esser piú che mai necessario ora che li protestanti li hanno messi in esoso al populo, e seminata dottrina che li leva le esenzioni, li sottopone alli magistrati laici e detrae dalla potestá di assolvere dalli peccati, e vuole anco che siano dal populo chiamati al ministerio e soggetti ad essere deposti da quelli: il che debbe constringere la Chiesa a conservar accuratamente tutti quei riti che possono darli riputazione. Il pericolo che il volgo non s’imprima di falsa credenza e sia persuaso esservi altra cosa nel calice che sotto la specie del pane, al presente è piú urgente, per le nove opinioni disseminate.

Dissero molti che la Chiesa proibí il calice per opporsi all’error di Nestorio, quale non credeva tutto Cristo esser sotto una specie; il che dicendo anco adesso alcuni delli medesimi eretici, conveniva tener la proibizione ferma. Quello che volessero in ciò inferire, non so esprimere meglio, non avendo mai letto che Nestorio parlasse in questa materia, né meno che moderni trattino con questi termini. Ma il terzo pericolo, che l’autoritá della Chiesa sia vilipesa, e s’argomenti che abbia commesso errore in levar il calice, si può dire non pericolo ma certo evenimento; né per altro esser sollecitata la richiesta da’ protestanti, se non a fine di concluder che, avendo la sinodo conosciuto l’error passato, l’ha emendato con la concessione: pubblicheranno immediate la vittoria, e da questo passeranno a dimandare mutazione nelli altri statuti della Chiesa. Ingannarsi chi crede li tedeschi doversi fermar in questo e disporsi a sottomettersi alli decreti del concilio; anzi vorranno levar li digiuni e le differenze de’ cibi; dimanderanno il matrimonio de’ preti e l’abolizione della giurisdizione ecclesiastica nell’esteriore: il che è il fine dove tutti mirano. Non esser credibile che siano cattolici quelli che fanno la richiesta del calice, perché li cattolici tutti credono che la Chiesa non può errare, che non sia grata a Dio alcuna devozione, se da quella non è approvata, e che l’obedienza della Chiesa è il sommo della perfezione cristiana. Aversi da tener per certo che chi dimanda [p. 413 modifica] il calice l’ha per necessario; e chi per tale lo tiene, non può esser cattolico; e nessun l’adimanda, credendo non poterlo legittimamente usare senza concessione del concilio, ma acciò li loro principi non li mettino impedimento; li quali se lasciassero far alli populi, essi l’usurperebbono senz’altra concessione. Di ciò poter ciascuno certificarsi, osservando che non li populi, ma li principi supplicano, non volendo novitá senza decreto legittimo, non perché li populi non l’introducessero da sé medesmi piú volentieri che ricercarla al concilio.

E tanta premura fu usata in questo argomento, che fra’ Francesco Forier portughese usci ad un concetto dagli audienti stimato non solo ardito, ma petulante ancora. E disse: «Questi principi vogliono farsi luterani con permissione del concilio». Li spagnoli esortavano a considerare che, concesso questo alla Germania, l’istesso dimanderebbe l’Italia e la Spagna, e converrebbe concederlo; di onde anco queste nazioni imparerebbono a non ubidire e richieder mutazione delle altre leggi ecclesiastiche; e a far luterana una regione cattolicissima nessun mezzo è migliore che darli il calice. Commemorò Francesco dalla Torre, gesuita, un detto del Cardinal Sant’Angelo, sommo penitenziero: che Satanasso, solito a trasformarsi in angelo celeste, e li ministri suoi in ministri di luce per ingannar li fedeli, adesso, sotto coperta del calice con sangue di Cristo, esorta a porger al populo un calice di veneno.

Aggiongevano alcuni che la provvidenza divina soprastante al governo della Chiesa inspirò il concilio di Costanza nel passato secolo a stabilir per decreto la remozione del calice, non solo per le ragioni che in quel tempo militavano, ma anco perché, se adesso fosse in uso, non vi sarebbe segno alcuno esteriore ed apparente per distinguere li cattolici dagli eretici; e levata questa distinzione, si mischierebbono in una stessa chiesa li protestanti con li fedeli, e seguirebbe quello che san Paulo dice, che «un poco di lievito fermenta presto una gran massa»; sí che conceder il calice altro non sarebbe che dar maggior comodo agli eretici di nocer alla Chiesa. Alcuni ancora, non sapendo che giá la petizione fosse stata al pontefice presentata, e da lui, per iscaricarsi e portar in longo, [p. 414 modifica] rimessa al concilio, interpretavano in sinistro che in quel tempo fosse fatta tal richiesta alla sinodo e non al papa, sospettando che fosse a fine di allargare ogni concessione che si facesse con interpretazioni aliene, onde s’inducesse nova necessitá di concilio.

Ma quei che sentivano potersi condescendere alle richieste dell’imperatore e tanti altri principi e populi, consigliavano a proceder con minor rigore e non dar cosí sinistra interpretazione alle pie preghiere de infermi fratelli, ma seguir il precetto di san Paulo di trasformarsi nei difetti degl’imperfetti per guadagnarli; e non aver mire mondane di riputazione, ma governarsi con le regole della caritá, che calpestando tutte le altre, eziandio quelle della prudenza e sapienza umana, compatisce e cede ad ognuno. Dicevano non vedersi ragione considerabile data dagli altri, se non che li luterani direbbono averla vinta, che la Chiesa ha fallato, e passarebbono a piú alte dimande; ma ingannarsi chi crede con la negativa farli tacere. Giá hanno detto che s’abbia commesso errore; diranno dopo che sopra il fallo s’aggionga l’ostinazione; e dove si tratta di ordinazioni umane, non esser cosa nova né indecente alla Chiesa la mutazione. Chi non sa che la medesima cosa non può convenir a tutti li tempi? Sono innumerabili li riti ecclesiastici introdotti e aboliti, e non è contra il decoro d’un concilio l’aver creduto utile un rito, che l’evento ha dimostrato inutile. Il persuadersi che da questa dimanda si debbi passar ad altre esser cosa da persone sospettose e troppo vantaggiose. «La semplicitá e caritá cristiana», dice san Paulo, «non pensa male, crede ogni cosa, sopporta tutto e spera bene».

A questi soli toccò parlare sopra il quinto articolo, poiché quelli della negativa assoluta non avevano altro che dirci sopra. Ma questi furono divisi in due opinioni: l’una, e piú comune, che si concedesse con le condizioni che fu da Paulo III concesso, le quali al suo luoco s’è detto; l’altra, d’alcuni pochi, tutt’in contrario diceva che, volendo conceder il calice per fermare nella Chiesa li titubanti, conviene temperarla in maniera che possi far l’effetto desiderato. Quelle condizioni non poterlo apportare, anzi dover senza dubbio farli precipitare al [p. 415 modifica] luteranismo. Se ben è cosa certa che il penitente debbe elegger ogni male temporale piú tosto che peccare, fu nondimeno conseglio del Gaetano che non si venisse a specificate comparative, con dire d’esser tenuto ad elegger piuttosto d’esser tanagliato e posto in ruota ecc.; perché sarebbe un tentar se stesso senza necessitá e cadere dalla buona disposizione, presentandosi li spaventi senza proposito: cosí nell’occasione presente questi ambigui, quando li sará portata la grazia del concilio, resteranno contenti, ringrazieranno Dio e la Chiesa, non penseranno piú oltre, e pian piano si fortificheranno. È comandamento preciso di san Paulo di «ricever l’infermo nella fede, non con dispute», né con prescriver le opinioni e regole, ma semplicemente, e aspettando opportunitá per darli piú piena instruzione. Adesso chi in Germania proponesse la condizione che credino questo e quello, si metteranno in difficoltá, mentre che la mente tituba, e pensando se debbiano o non debbiano crederlo, capiteranno in qualche errore al quale non averebbono pensato. A questa ragione di piú aggiongevano che, mentre si sostiene la Chiesa aver con giuste cause levato il calice, e poi si concede senza alcun rimedio a quelle, ma con altre condizioni, si viene a confessare d’averlo levato senza causa; per il che concludevano che fosse a proposito statuire per condizioni tutti li rimedi alli inconvenienti per quali il calice giá fu levato, cioè che il calice mai si porti fuori di chiesa, e agl’infermi basti la specie del pane; che non si conservi, per levar il pericolo dell’acidume; che si usino le fistule, come giá nella Chiesa romana, per evitar la effusione. Che cosí ordinando, si dimostrerá che con ragione fu giá la provvisione fatta, si ecciterá la riverenza, si sodisfará al populo e principi, non si metteranno li deboli in tentazioni. Fu anco detto da un spagnolo che non era da creder cosí facilmente a quello che si diceva d’un cosí ardente desiderio e devozione de’ cattolici al calice, ma esser bene che il concilio mandasse in Germania ad informarsi chi sono questi che lo dimandano, e della fede loro nel rimanente, e delle cause motive: che la sinodo, avuta quella relazione, potrá deliberare con qualche fondamento, e non alla cieca sopra parole d’altri. [p. 416 modifica]

Nel sesto articolo non ci fu cosa da dire: tutti in poche parole si espedirono, considerando che l’eucarestia non è sacramento di necessitá, e che comandando san Paulo a chi l’ha da ricevere di esaminar se stesso se n’è degno, chiaramente apparisce che non può esser amministrata a chi non ha uso di ragione; e se nell’antichitá si trova usato in qualche luoco il contrario, questo esser stato fatto dove e quando la veritá non era cosí ben dechiarata come al tempo presente: per il che dal concilio doveva esser terminato che si servasse l’uso presente. Fu ben avvertito da alcuni che dell’antichitá conveniva parlare con maggior riverenza, e non dire che mancassero di cognizione della veritá. Fra’ Desiderio da Palermo, carmelitano, solo fu di parere che quell’articolo fosse tralasciato, dicendo che, non essendo promossa difficoltá dalli protestanti de’ nostri tempi, non era bene col trattarlo metter qualche novitá a campo. La materia poter ricever qualche probabilitá da ambe le parti; e quando uscisse a notizia che nel concilio se ne fosse trattato, sarebbe per mover la curiositá di molti a pensarci sopra, e darebbe occasione d’inciampare. Imperocché alcuno potrebbe indursi a credere che l’eucarestia sia sacramento di necessitá cosí bene come il battesimo, perché il fondamento di questo è sopra le parole di Cristo: «Chi non rinascerá di acqua e spirito non entrerá nel regno dei cieli»; e di quello: «Se non mangerete la mia carne e beverete il mio sangue, non averete vita»: e l’eccezione delli fanciulli non potersi con total apparenza fondare sopra il precetto di san Paulo di esaminarsi, che non lo può un fanciullo; perché la Scrittura divina medesimamente comanda che inanzi il battesmo preceda documento della dottrina della fede; e se questo s’ha da restringere alli soli adulti, non escludendo li fanciulli dal battesmo se ben non possono imparare, cosí l’esamine precedente l’eucarestia si potrá applicare alli adulti, senza escluder da quella li fanciulli. Concludeva che egli approvava l’uso di non comunicarli, ma non lodava che il concilio dovesse trattar di questo che nessuno oppugnava.