Istoria del Concilio tridentino/Libro quinto/Capitolo I
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CAPITOLO I
(settembre 1552-giugno 1555).
[Al sospeso concilio Giulio III pensa di sostituire in Roma una congregazione di riforma. — Cause delle due prime riunioni del concilio e del lungo indugio frapposto alla terza. — Tentativo di Carlo V di rendere ereditari nel figlio l’impero e il titolo di re dei romani: opposizione di Ferdinando e di Massimiliano. — In Roma si cercano compensi alla diminuita potenza papale: visita a Roma del patriarca Sullakam. — Maria Tudor e la restaurazione cattolica. — Nomina del cardinale Pole a legato, ed ostacoli frapposti da Carlo V alla sua andata in Inghilterra.— Il matrimonio della regina Maria con Filippo. — Azione del Pole in Inghilterra per il ritorno alla Chiesa. — Persecuzioni dei riformati in Inghilterra ed in Francia. — Supplizio del Serveto a Ginevra. — Ingerenza di Ferdinando in materia religiosa: decreto sulla comunione del calice e promulgazione d’un catechismo.— Spirato il termine della sospensione, il concistoro non è d’avviso di riproporre il concilio. — Dieta di Augusta del 1555: Ferdinando propone un colloquio religioso, che il papa cerca di ostacolare. — Invio del cardinale Morone alla dieta. — Morte di Giulio III. — Breve pontificato di Marcello II: suoi propositi di riforma.— Elezione di Paolo IV: sua indole e suoi intendimenti. — L’ambasciata inglese per l’obbedienza. — Erezione dell’Irlanda a regno. — Il papa insiste per la restituzione dei beni ecclesiastici e del danaro di san Pietro.]
Il pontefice, per la dissoluzione del concilio liberato da molti pensieri, riputò bene prevenire le occasioni che potessero farlo ricader di novo, e propose in consistoro la necessitá di reformare la Chiesa: che per questo effetto aveva ridotto il concilio in Trento; il quale non avendo portato il fine da lui desiderato, per li accidenti della guerra, prima d’Italia, e poi anco di Germania, giusta cosa era far in Roma quello che in Trento non s’era potuto. Ordinò pertanto una congregazione numerosa de cardinali e prelati che attendessero all’opera. Dell’averne eletto molti egli allegava la causa, acciò le risoluzioni passassero con maturitá e avessero riputazione maggiore: con tutto ciò era stimato comunemente il fine essere, acciò per la moltitudine piú impedimenti fossero interposti, e il tutto a niente si risolvesse. L’evento fu giudice delle opinioni, perché la riforma nel principio fu trattata con grand’ardore, poi per li impedimenti camminò per molti mesi frigidamente, e in fine andò in silenzio; e li anni interconciliari in luoco di due furono dieci, verificandosi in questo la massima dei filosofi, che cessando le cause cessano gli effetti. Il concilio la prima volta ebbe per cause le grandi instanzie della Germania e la speranza concepita dal mondo che quello dovesse medicar tutti li morbi di cristianitá: li effetti vedutisi sotto Paulo III estinsero le speranze degli uomini e mostrarono alla Germania che concilio tale, quale desideravano, era impossibile avere. La seconda reduzione ebbe un’altra causa: quella fu estremo desiderio di Carlo imperatore di mettere col mezzo della religione Germania sotto il giogo e far l’Imperio ereditario, facendosi succeder il figlio, e in tal guisa constituir una monarchia in cristianitá, maggiore di qualonque altra dopo la romana, eziandio di quella di Carlo Magno. A che la sola vittoria avuta non era bastante: né meno si poteva confidar di supplire con mezzo di nove armi solamente; ma ben sottomettendo li popoli con la religione e li principi con le pratiche, aveva concepito vasta speranza d’immortalar il suo nome. Questo fu la causa della grand’instanza che fece con Giulio per la seconda reduzione, e delle persuasioni efficaci, per non dir sforzate, al li tre elettori di andarvi in persona, e alli protestanti con quali piú poteva, di mandar li loro teologi.
Ma mentre quello si celebra, Carlo, avendo con quel disegno posto in gelosia tutti li principi cristiani, trovò li primi incontri in casa propria. Poiché Ferdinando, se ben altre volte pareva che avesse consentito di fare líImperio comune ad ambiduo (come giá fu tra Marco e Lucio con ugual autoritá; esempio che fu seguito da Diocleziano, e piú volte dopo), e poi far opera che Filippo fosse eletto re de’ romani per succeder ad ambiduo, avendosi per questo affaticato efficacemente la regina di Ongaria sorella loro in persuaderlo al fratello Ferdinando per grandezza della casa; nondimeno, consegliato meglio da Massimiliano suo figlio, incominciò a sentir altrimenti. E dandosi principio alla negoziazione, per effettuar la quale Filippo fu chiamato dal padre, acciò fosse conosciuto dagli elettori nella dieta d’Augusta del 1551, ritiratosi Ferdinando, la regina su detta per risarcir la concordia tra li fratelli era andata alla dieta; e Massimiliano, temendo che la bontá del padre potesse soccombere, lasciato il governo delli regni di Spagna, a’ quali l’imperatore l’aveva preposto, in mano della moglie, figlia di Cesare, repentinamente se ne tornò in Germania. Per li uffici del quale restò Ferdinando costante in dissentire, e dalli elettori Carlo non ebbe se non buone parole. Rimesse per quest’opposizione l’animo l’imperatore, e rimandò il figlio in Spagna, non sperando di poter ottener mai consenso da Massimiliano. Ma poi successa la guerra (della quale s’è detto), costretto ad accettar l’accordo, deposta la speranza della successione del figlio, depose insieme il pensiero di restituir la religione antica in Germania: e in consequenza non ebbe piú alcun pensiero al concilio, quantonque restasse molti anni in governo; né la corte pensò a restituirlo, poiché nissuno gliene faceva instanza. Ma ben in quel tempo occorsero diversi accidenti, quali se ben pareva che preparassero perpetuitá alla suspensione, nondimeno nell’occulto della provvidenza superiore somministravano altre cause per la terza reduzione: quali il filo dell’istoria ricerca che non si passino sotto silenzio, servendo molto la cognizione delle cause a ben penetrare gli effetti che successero dopo che il concilio fu reassunto.
Vedendo il pontefice che per la alienazione della Germania la riputazione della sua sede si diminuiva appresso alli popoli di sua obbedienza, imitando Eugenio IV (che sustentò la riputazione che gli levava il concilio di Basilea con un’apparenza de greci e un’ombra d’armeni), e il fresco esempio di Paulo III suo precessore (il quale nel tempo che bollivano le contenzioni tra lui e l’imperatore per la transazione del concilio a Bologna, che li davano molto carico appresso a’ popoli, con molta ceremonia ricevette un certo Stefano con nome di patriarca dell’Armenia maggiore, con un arcivescovo e due vescovi, venuti a riconoscerlo per vicario di Cristo, universale maestro della Chiesa, e renderli obedienza), con questi esempi Giulio con molta solennitá pubblica ricevette un certo Simon Sullakam, eletto patriarca di tutti li popoli che sono tra l’Eufrate e l’India, e mandato da quelle chiese per esser confermato dal papa, successore di Pietro e vicario di Cristo. Lo fece ordinar vescovo, e con le sue mani in consistoro li diede il pallio patriarcale, e lo rimandò a casa, acciò la Chiesa non patisse nella sua assenza, accompagnato da alcuni religiosi intendenti della lingua siriaca: da che nacque che non solo per Roma, ma per tutta Italia non si parlava se non dell’immenso numero de cristiani che in quei paesi sono, e dell’aumento grande che la sede apostolica fatto aveva. Particolarmente si discorreva di gran numero di chiese nella cittá di Muzal, che dicevano esser l’antica Assur sopra il fiume Tigri, oltre il quale poco distante ponevano di lá dal fiume l’antica Ninive, celebre per la predica di Jona; sotto la giurisdizione ponevano Babilonia, Tauris e Arbela, famosa per il conflitto tra Dario e Alessandro, con molte regioni della Assiria e Persia. Trovavano anco le antiche cittá nominate nella Scrittura, e Ecbatana, dagli altri autori Seleucia, e Nisibi. Narravasi come questo eletto da tutti li vescovi fu mandato al pontefice per la conferma, accompagnato da settanta fino in Gerusalem, e di lá in oltra da tre di loro, uno de’ quali era morto e l’altro restato in viaggio infermo, e il terzo, per nome Calefi, con lui gionto a Roma. Le quali cose tutte poste in stampa erano lette con gran curiositá. Ricevette anco il papa un altro Marderio assirio, giacobita, mandato dal patriarca antiocheno a riconoscer la sede apostolica e darli obedienza, e far la professione della fede romana; ma il mondo saziato di quel primo, poco si curò saper le cose di questo secondo.
Ma dopo queste ombratili obedienze che la sede romana acquistò, ne successe una reale e molto importante, che ricompensò abbondantemente quanto in Germania s’era perduto. L’anno 1553, a’ 6 di luglio, morí Edoardo, re d’Inghilterra, di etá d’anni sedici, avendo quindici giorni prima, con l’approbazione del suo conseglio, fatto testamento; nel quale, dechiarato che a lui s’appartenesse nominar la legittima successione secondo le leggi del regno, escluse Maria ed Elisabetta sue sorelle, come quelle li natali de quali erano posti in dubbio, e tutta la descendenza di Margarita, maggiore sorella di suo padre, come di forestieri non nati nel regno, nominò in regina quella che per ordine seguiva: cioè Gioanna di Suffolch, nipote per figlia di Maria giá regina di Francia e minore sorella di Enrico VIII suo padre, non ostante che questo nel suo testamento gli avesse sostituito Maria e Elisabetta; la qual sostituzione egli diceva esser stata pupillare, e non obbligarlo dopo che era fatto maggiore. E se bene Gioanna fu pubblicata regina in Londra, con tutto ciò Maria, ritiratasi in Nortfolch per comoditá di passar in Francia se fosse stato bisogno, si nominò regina; e fu accettata finalmente da tutto il regno, allegando a suo favore il testamento di Enrico, e che da matrimonio contratto con buona fede, eziandio che sia nullo, la prole nasce legittima. Fu impregionata Gioanna e li suoi seguaci; e Maria entrata in Londra, e ricevuta con universale applauso, fu pubblicata regina di Anglia e Francia, con titolo anco del primato ecclesiastico. Liberò immediate li pregioni che si trovarono nella Torre per ordine del padre, parte per la religione, parte per altre cause. Poco dopo il suo ingresso nacque sedizione in Londra, per un predicatore che prese animo di predicar alla cattolica, e per un altro che celebrò messa: per acquietar il qual rumore che era assai considerabile, la regina fece pubblicar un editto che ella voleva viver nella religione de’ suoi maggiori; non però permetteva che al popolo fosse predicato, salvo che secondo il consueto. Fu poi al primo ottobre consacrata con le solite ceremonie.
Queste cose [erano] andate a notizia al pontefice, il qual attendendo che la regina era allevata nella religione cattolica e interessata nelli rispetti della madre e cugina carnale dell’imperatore, sperò di poter aver qualche ingresso nel regno, e creò immediate legato il Cardinal Polo, con speranza che, per essere della casa regia e di costumi esemplari, fosse unico istromento d’inviare una riduzione del regno alla romana chiesa. Il cardinale, che per pubblico decreto era bandito dal regno e privato della nobiltá, non giudicò conveniente mettersi all’impresa prima che s’intendesse intieramente lo stato delle cose, essendo certo che la maggior parte era ancora devota alla memoria d’Enrico, ma fece passar secreto in Inghilterra Giovan Francesco Commendone per informarsi pienamente, scrivendo anco una lettera alla regina, dove, commendata la perseveranza nella religione in tempi turbulenti, l’esortava continuare nelli felici, li raccomandava la salute delle anime di quei populi e la redintegrazione del vero culto divino. Il Commendone, esplorato ogni particolare, e avendo trovato modo di parlar alla regina, se ben da ogni canto circondata e guardata, ritrovò l’animo di lei non mai alienato dalla fede romana, e da lei ebbe promessa di far ogn’opera per restituirla in tutto il regno; e il cardinale, intesa la mente della regina, si messe in viaggio.
Ma in Inghilterra dopo la coronazione si tenne parlamento, nel quale fu decretato illecito il repudio di Catarina d’Aragona, madre della regina, e dechiarato il matrimonio e la prole nata di quello legittima; il che obliquamente fu un restituir il primato pontificio, non potendo quel matrimonio esser valido senza la validitá della dispensa di Giulio II, e per conseguente senza la sopranitá della sede romana. Fu anco statuito che tutte le ordinazioni in materia di religione fatte da Edoardo fossero annullate, e si seguitasse la religione che era al tempo della morte di Enrico. In questo parlamento fu trattato anco di maritare la regina, se ben giá eccedeva l’anno quadregesimo; al qual matrimonio erano nominati tre: il Polo, che, se ben cardinale, non aveva però alcun ordine sacro, e il Cortineo, ambidua del sangue regio e in pari grado cugini di Enrico VIII, questo della Rosa bianca, nepote per figlia di Edoardo IV, quello della Rosa rossa, nepote per sorella di Enrico VII: ambidua grati alla nobiltá anglica, il Polo per la prudenza e santitá di vita, il Cortineo per l’amabilitá de costumi. Ma a questi la regina anteponeva Filippo principe di Spagna, cosí per le pratiche tenute da Carlo imperatore suo cugino, inclinando assai piú l’affetto al materno che al paterno sangue, come anco perché credeva dover assicurar piú con quel matrimonio la sua quiete e del regno. E l’imperatore, che sommamente desiderava effettuar questo matrimonio, dubitando che dal Polo potesse esser disturbato con la presenza sua in Inghilterra, inteso che era deputato legato, per mezzo del cardinale Dandino, ministro ponteficio appresso di sé, operò che non partisse cosí tosto d’Italia, dicendo non essere tempo ancora che un legato apostolico potesse andar con dignitá in Inghilterra. Né avendo fatto effetto la lettera del Dandino, ma essendosi il Polo messo in viaggio e arrivato sino in Palatinato, li mandò Diego Mendoza incontra per fermarlo con l’autoritá. Al cardinale parve cosa grave, e si lamentò che la legazione del pontefice fosse trattenuta con danno della cristianitá, del regno d’Inghilterra, e con allegrezza della Germania. Per il che l’imperator, per non dar tanta materia di parlare, lo fece andar a Brusselles e lo trattenne in Brabanzia, sin che si finisse il matrimonio e tutte le cose fossero accomodate a gusto suo; e per colore l’implicò a trattare la pace tra sé e il re di Francia.
Nel principio dell’anno 1554 mandò l’imperator ambasciatori in Inghilterra per far la conclusione; e la regina, camminando innanzi a favore della religione antica, sotto i 4 marzo pubblicò altre leggi, restituendo la lingua latina nelle chiese e proibendo che maritati potessero esercitare le fonzioni sacre. e ordinando alli vescovi di non fare piú giurare a quelli che si ricevevano nel clero (secondo che Enrico determinato aveva) che il re fosse supremo capo della chiesa anglicana, e che il pontefice romano non avesse alcuna superioritá in quella, ma fosse solo vescovo della cittá di Roma. Ordinò anco che fosse scancellata da tutti li rituali e proibita ogni stampa della «formula di orazione» instituita da Enrico, dove tra le altre cose era pregato Dio di liberar quel regno dalla sedizione, conspirazione e tirannide del vescovo romano.
All’aprile un altro parlamento fu tenuto, dove fu dato l’assenso al contratto matrimoniale. E in quel medesimo parlamento avendo la regina proposto di restituir il primato al pontefice romano, ebbe tanta resistenzia dalla nobiltá, che non potè ottenerlo; e quella nobiltá non s’avvidde come vanamente negava questa dimanda, che virtualmente era contenuta nell’assenso al matrimonio. Arrivò Filippo prencipe di Spagna in Inghilterra a’ 18 di luglio, e il dí di san Giacomo si fecero le nozze, e ricevette il titolo di re di Napoli e consumò il matrimonio.
Al novembre si ridusse di novo il parlamento, nel quale fu restituita la nobiltá e la patria al cardinale Polo, e mandati doi che l’invitassero e accompagnassero; con quali egli passò nell’isola, e gionse a Londra a’ 23 novembre, portando inanzi la croce d’argento. Introdotto la prima volta in parlamento innanzi il re e regina e ordini del regno, fece un ragionamento in lingua anglese: ringraziò con molte e affettuose parole d’esser stato restituito alla patria, soggiongendo che in cambio era andato per restituir loro la patria e corte celeste, della quale s’erano privati partendosi dalla Chiesa; li esortò a riconoscer l’errore e ricever il beneficio che li mandava Dio per mezzo del suo vicario. Fu longhissimo il ragionamento e pieno di arte; in fine del quale concluse che egli aveva le chiavi d’introdurli in Chiesa, la quale essi stessi s’avevano chiusa con le leggi fatte contra la sede apostolica; le quali quando fossero revocate, egli averebbe aperto loro le porte. Fu aggradita la persona del cardinale, e alla proposizione fu prestato apparente assenso, se ben nel secreto la maggior parte aborriva la qualitá di ministro pontificio, e sentiva dispiacere di ritornar sotto il giogo. Ma s’avevano lasciato condur troppo oltre, che potessero pensar a ritornar indietro.
Il giorno seguente in parlamento fu deliberata la reunione con la chiesa romana: il modo fu cosí ordinato con decreto pubblico, che si formasse una supplica per nome del parlamento, nella quale si dechiarasse di esser grandemente pentiti di aver negato l’obedienza alla sede apostolica e d’avere consentito ai decreti fatti contra di quella, promettendo per l’avvenire di operare che tutte quelle leggi e decreti fossero aboliti, e supplicando il re e la regina che intercedessero per loro, acciò fossero assoluti dalli delitti e censure e restituiti al grembo della Chiesa come figli penitenti, a servir Dio nella obedienzia del pontefice e sede romana. L’ultimo novembre, giorno di sant’Andrea, ridotte ambedue le Maestá, il cardinale e tutto il parlamento, il cancellier interrogò l’universitá di detto parlamento se li piaceva che si domandasse perdono al legato e si ritornasse all’unitá della Chiesa e all’obedienza del pontefice, supremo capo di quella: gridando alcuni sí e altri tacendo, per nome del parlamento fu presentata alli re la supplica. La qual pubblicamente letta, li re si levorono per pregarne il legato; ed egli andato loro incontra, si mostrò pronto a compiacerli; e fatta legger l’autoritá datagli dal papa, discorse quanto a Dio fosse grata la penitenzia, e l’allegrezza che li angeli allora avevano della conversione del regno; ed essendo tutti ingenocchiati, implorata la misericordia divina, li assolvè; e questo fatto, con tutta la moltitudine andò in chiesa a rendere grazie a Dio.
Il dí seguente fu destinata la legazione al pontefice per renderli grazie e prestarli obedienzia; alla quale furono nominati Antonio Brovano visconte di Montacuto e Toma Turlbeio vescovo d’Ely e Odoardo Carno, che era altre volte stato in Roma ambasciatore per Enrico VIII, dando anco ordine a quest’ultimo che si fermasse a Roma come in legazione ordinaria. Andò l’avviso di ciò a Roma in diligenza, per il quale si fecero molte processioni non solamente in quella cittá, ma per tutta Italia, in rendimento di grazie a Dio; e il pontefice approvò le cose dal suo legato fatte, e a’ 24 decembre mandò un giubileo, allegando nella bolla per causa che, come padre di famiglia per aver ricuperato il figlio prodigo, conveniva che non solo facesse domestica allegrezza, ma ancora convitasse tutti universalmente all’istesso giubilo: lodò e magnificò le azioni del re, della regina e di tutto il popolo anglico.
Continuò il parlamento in Inghilterra sino a mezzo gennaro 1555, e furono innovati tutti li antichi editti dei re di punir gli eretici, e della giurisdizione de’ vescovi; fu restituito il primato e tutte le preminenze al pontefice romano; furono aboliti tutti li decreti contrari fatti nelli venti anni passati, cosí da Enrico come da Edoardo, e renovati li decreti penali contra li eretici, e con l’esecuzione anco proceduto alla pena di fuoco contra molti, massime delli vescovi che si mostrarono perseveranti nelle renovazioni abolite. Certo è che furono abbruggiati in quell’anno per causa di religione centosettantasei persone di qualitá, oltra gran numero de plebe; il che riuscí con poco gusto di quei popoli. A’ quali anco diede materia d’indignazione che Martino Bucero e Paulo Fagio, morti giá quattro anni, furono, come vivi, citati, condannati, dissotterrati li cadaveri e abbruggiati: azione da alcuni commendata come vindicativa di quanto Enrico VIII aveva contra san Tomaso operato, da altri comparata a quello che fu da Stefano VII e Sergio III pontefici contra il cadavero di Formoso eseguito.
Nelli medesimi tempi in Francia ancora furono abbruggiati molti per causa di religione, non senza indignazione delle persone sincere, quali sapevano che la diligenza era usata contra quei miseri non per pietá o religione delli giudici, ma per saciar la cupiditá di Diana Valentina, donna del re, alla quale egli aveva donato tutte le confiscazioni de beni che si facevano nel regno per causa d’eresia.
Fu anco udito con gran maraviglia che quei della nova riforma mettessero mano nel sangue per causa della religione.
Imperocché Michel Serveto di Tarragona, di medico fatto teologo, e rinnovatore dell’antica opinione di Paulo Samosateno e Marcello Ancirano che il Verbo divino non fosse cosa sussistente, e però che Cristo fosse puro uomo, per conseglio delli ministri di Zuric, Berna e SchiafFusa fu in Genéva fatto per ciò morire; e Gioanni Calvino, che di ciò era da molti incaricato, scrisse un libro, defendendo che il magistrato può punir gli eretici in la vita; la qual dottrina tirata a vari sensi, secondo che è piú ristretto o piú allargato o variamente preso il nome eretico, può una volta nocer a chi un’altra abbia giovato.
In questi tempi anco Ferdinando re de’ romani pubblicò un editto a tutti li popoli soggetti a lui, che nelle cose della religione e nelli riti non potessero far novitá alcuna, ma seguissero le antiche consuetudini; e in particolare nella santa comunione si contentassero di ricever il solo sacramento del pane. Al che se ben li principali e la nobiltá e molte delle cittá piú volte lo supplicassero almeno per l’uso del calice, con dire che cosí era instituito da Cristo, la qual instituzione non era lecito agli uomini mutare, e che tal fu l’uso della Chiesa vecchia, cosa anco dal concilio di Costanza confessata, pregandolo non gravar la loro coscienza, ma accomodar il suo comandamento alli ordini degli apostoli e della Chiesa vecchia, e promettendoli nel rimanente ogni sommissione e obedienzia, perseverò con tutto ciò Ferdinando nella sua deliberazione, e rispose loro che il suo comandamento non era novo, ma instituzione antica usata dalli maggiori suoi imperatori, re e duchi d’Austria: ma ben che era cosa nova l’uso del calice, introdotto per curiositá o per superbia, contra la legge della Chiesa e la volontá del suo prencipe. Moderò nondimeno il rigore della risposta, concedendo che, trattandosi della salute, averebbe piú diligentemente pensato per risponderli al suo tempo; ma tra tanto aspettava da loro obedienzia e osservazione dell’editto. Pubblicò anco sotto il 14 di agosto un catechismo, fatto componer con l’autoritá sua da alquanti teologi dotti e pii, comandando a tutti li magistrati di quelle regioni che non permettessero alli maestri di scola, né in pubblico né in privato, legger altro catechismo che quello, poiché per diverse tal operette che andavano attorno era stata depravata assai la religione in quei paesi. Riuscí questa ordinazione con molto disgusto della corte romana, che non fosse stato mandato al pontefice per esser approvato con l’autoritá sua, o vero almeno non fosse uscito sotto nome dei vescovi della regione; ma che il principe secolare si assumesse ufficio di far componer e di autorizzar libri in materia di religione, e massime con nome di catechismo; che altro non mostrava, se non che all’autoritá secolare appartenesse il deliberare quale religione il popolo dovesse tener e qual repudiare.
Finiti li due anni della suspensione del concilio, si trattò in consistoro quello che si doveva fare; perché, quantonque nel decreto vi fosse la condizione che ritornasse il concilio in vigore se gl’impedimenti fossero levati (li quali duravano per le guerre di Siena, di Piemonte e altre tra Cesare e il re di Francia), nondimeno pareva che restasse aperta una porta ad ogni inquieto di poter dire che quelli non fossero bastanti impedimenti che il concilio s’intendesse rimesso in piede, onde fosse bene far una nova dichiarazione e levarsi di quei pericoli. Ma altri piú prudenti consegnarono che non si movesse il male quando è in quiete; mentre che il mondo taceva, mentre che nissun principe né populo dimandava concilio, non era bene, col farne motivo o col mostrar di temerne, eccitar alcuno a richiederlo: e questo conseglio prevalse, e fece risolver il pontefice a non parlarne mai piú.
Ma del 1555 si fece dieta in Augusta, intimata da Cesare principalmente per sedar le controversie della religione, per esser questo il fonte di tutte le perturbazioni e calamitá di Germania, con perdita non solo della vita di molti migliara d’uomini, ma dell’anima ancora. Fece principio della dieta Ferdinando per nome dell’imperatore al 5 di febbraro; dove con una longa proposizione mostrò il lamentevole spettacolo della Germania, dove gli uomini d’un istesso battesmo, d’una stessa lingua e un istesso Imperio si vedevano distratti in tanta varietá di professione di fede, nascendo ogni giorno nove sette; il che non solo era con grand’irreverenza divina e perturbazione delle menti umane, ma causava ancora che la moltitudine non sapesse che credere; e molti della principal nobiltá e delli altri stati formavano l’animo loro senza fede alcuna, non tenendo conto di onestá né di conscienzia nelle azioni; il che levava ogni commercio, in maniera che al presente la Germania non si poteva dire migliore delli turchi e altri popoli barbari: per le qual cause Dio l’aveva afflitta di tante calamitá. Per il che esser necessario di pigliar in mano il negozio della religione. Per il passato era parso unico rimedio il concilio generale, libero e pio, perché essendo la causa della fede comune a tutti i populi cristiani, da tutti doveva esser trattata. E Cesare con tutte le sue forze s’era dato a questo e aveva operato piú d’una volta che fosse convocato; ma non era tempo né luoco di dire per che causa da questo rimedio non s’era cavato frutto, essendo molto ben noto che si sapeva da quelli che vi erano intervenuti. Ma ora, se li piaceva di provar di novo il medesimo rimedio, bisognava trattar con levar li impedimenti che per il passato avevano deviato dal desiderato fine. Ma se anco per li accidenti occorrenti li pareva di differir questo ad altro tempo, si poteva trattar di usar gli altri mezzi. Quanto al concilio nazionale, per non esser a questi tempi il modo e la forma e il nome in uso, non si poteva veder come valersi. La via delli colloqui molte volte tentata non aver fatto frutto, perché ambe le parti hanno mirato piú al comodo privato che alla pietá e utilitá pubblica. Con tutto ciò non è da sprezzar adesso, se si vorrá deponer l’ostinazione delli privati affetti: la qual via egli consegliava di tentare un’altra volta, quando la dieta non ne avesse proposto qualche altra migliore.
Questa proposizione, insieme con le altre pertinenti alla pace e guerra de’ turchi fatta da Ferdinando, fu stampata, acciò andasse per Germania e servisse per invito alla dieta, dove pochissimi erano andati: ma fu interpretata sinistramente, per l’editto da lui medesmo pubblicato nelli stati suoi, molto contrario a questa proposta, e piú per l’esecuzione per quale erano stati scacciati piú di dugento predicatori di Boemia: e andò a Roma ancora, dove il pontefice, maledicendo, secondo il solito suo, li colloqui e li inventori, si doleva di non poter trovar esito a queste difficoltá e dover stare sempre o con un concilio o con un colloquio o con una dieta addosso: malediceva li suoi tempi pieni di tante angustie, lodando quelli de’ secoli passati, quando li pontefici potevano viver con l’animo quieto, senza star sempre in dubbio dell’autoritá sua. Riceveva nondimeno consolazione per li avvisi d’Inghilterra della perfetta soggezione di quel regno alla sua obbedienzia e delli decreti fatti a suo favore, e per le lettere di ringraziamento ricevute, con promessa che presto anderebbe solenne ambasciaria, per ringraziarlo personalmente della paterna clemenzia e benignitá e prometter l’obbedienzia. Di che allegro, non si conteneva di motteggiare che godeva pur parte della felicitá, sentendosi ringraziare da chi meritava esser ringraziato.
Ma delle cose di Germania quantonque avesse il papa poca speranza, per non trascurarle nondimeno, ed esser attento a tutte le aperture che potessero farsi di proponer modi per ridur li sviati alla Chiesa, mandò alla dieta imperiale il Cardinal Morone per legato, con instruzione di metter sempre inanzi l’esempio d’Inghilterra, e con quello esortar la Germania a conoscere il suo fallo e a ricever la medesima medicina; e sopra ’l tutto divertire ogni colloquio e trattazione di religione. Non fu cosí presto gionto il Cardinal in Augusta che Giulio pontefice morí: di che l’avviso gli sopraggionse otto giorni dopo arrivato. Si parti egli perciò l’ultimo di marzo insieme col Cardinal d’Augusta per ritrovarsi all’elezione del novo papa.
Fu creato, inanzi l’arrivo loro in Roma, pontefice a’ 9 d’aprile Marcello Cervino Cardinal di Santa Croce, uomo di natura grave e severa, d’animo costante, qual volle dimostrare nella prima azione del suo pontificato con ritener il nome medesmo, e significar al mondo di non esser fatto un altro per degnitá ricevuta, cosa appunto opposita a quello che da tanti suoi precessori fu fatto. Imperocché dopo quel tempo, quando si diede principio alla mutazione de’ nomi, per esser assonti al pontificato tedeschi, nominati con vocaboli alle orecchie romane insoliti, li seguenti servarono l’uso di mutar il nome, per significar con quello d’aver mutato li affetti privati in pensieri pubblici e divini: dove questo pontefice, per dimostrare d’aver anco in stato privato avuto pensieri degni del pontificato, con ritener l’istesso nome volle mostrar immutabilitá. Un’altra simile azione fu che, essendogli presentati li capitoli fatti in conclave per giurare, rispose esser quel medesmo che pochi di prima aveva giurato, e voler servarli con fatti, non con promissioni. La settimana santa, che allora si celebrava, e le instanti feste di Pasca furono causa che il pontefice, per l’assiduità alle ceremonie ecclesiastiche, contraesse grave indisposizione; con tutto ciò ebbe il pensiero fisso alle cose che inanzi il pontificato (al quale sempre s’era augurato dover ascendere) disegnato aveva. Con molti cardinali, con quello di Mantova particolarmente, conferí il disegno suo di componer le differenze della religione con un concilio: cosa che diceva non esser riuscita giá, per la via impropria tenuta. Che era necessario prima fare una intiera riforma, per quale resterebbono accordate le differenze reali; il che fatto, le verbali parte da se stesse cesserebbono, parte con leggier opera del concilio si concordarebbono. Che li precessori suoi per cinque successioni avevano aborrito eziandio il nome di riforma, non per fine cattivo, ma persuasi che fosse posta inanzi con mira di abbassar l’autoritá pontificia; ma esso aver contraria opinione che nessuna cosa possi conservarla se non quella; anzi esser anco mezzo di aumentarla: e osservando le cose passate, ognuno poter vedere che quei soli dei pontefici romani, che si sono dati alla riforma, hanno innalzata e accresciuta l’autoritá; che la reforma non levava se non cose apparenti e vane, non solo di nessun momento, ma ancora di spesa e gravezza: li lussi, le pompe, le numerose comitive de prelati, le spese eccessive e superflue e inutili, che non fanno il pontificato venerando, ma contennendo; che, troncate queste vanitá, crescerá la vera potenza, la riputazione e credito appresso il mondo, il danaro e li altri nervi del governo, e sopra ogn’altra cosa la protezione divina, che debbe tenire per sicuro ognuno che opera conforme al proprio debito.
Si pubblicorono per la corte questi disegni, li quali dalli benevoli erano ornati con titoli di pietá e d’amore della pace e della religione; non mancando però gli emuli d’interpretar in sinistro, con dire che il fine non era buono, che il papa fondava sopra predizioni astrologiche, a quali era tutto dato, seguendo le vestigie del padre, che per quella professione fu aggrandito; che sí come alle volte, o per caso o per altre cause, riescono, cosí per il piú sono occasioni di precipitar molti. Tra le cose che disegnava il pontefice in particolare, era d’instituire una religione di cento a guisa d’una cavalleria, de’ quali voleva esser capo e far la scelta, estraendoli da qualsivoglia religione o stato di persone, quali tutti avessero cinquecento scudi per uno dalla camera ponteficia, facessero un solenne e molto stretto giuramento di fedeltá al pontefice, e non potessero esser assonti ad altro grado, né meno accrescer in entrata maggiore; solo potessero per meriti esser creati cardinali, non uscendo però della compagnia. Di questi soli voleva valersi per nonci, per ministri dei negozi e per governatori delle sue cittá, per legati, e ad ogni altro bisogno della sede apostolica; e giá erano nominati molti litterati abitanti in Roma, da lui conosciuti, e altri si avanzavano per aver questo onore. Di molte novitá la corte era piena, che si aspettavano, ma tutte furono poste in silenzio, perché Marcello, giá indebolito per le fatiche corporali delle longhe e gravi ceremonie, come s’è detto, sopraffatto da un accidente di apoplessia, morí l’ultimo di del mese, non verificate le altre predizioni astrologiche del padre e sue, che si estendevano per qualche anno oltra quel giorno.
Onde, congregati di novo li cardinali in conclave, facendo molta instanzia il Cardinal d’Augusta, aiutato anco dal Morene, che tra li capitoli soliti formarsi e giurarsi dalli cardinali vi fosse posto che il futuro pontefice con conseglio del collegio, per dar fine alla riforma incominciata, per determinare le rimanenti controversie della religione e per trovar modo come far ricever il concilio celebrato in Trento alla Germania, fra termine di due anni ne convocherebbe un altro; ed essendo il collegio de’ cardinali numeroso molto, fu anco capitulato che per due anni non potesse il novo pontefice creare piú di quattro cardinali. E a’ 23 del seguente fu creato Giovan Pietro Carafa, che si chiamò Paulo IV; repugnando quanto potêro li cardinali imperiali, perché era stimato poco amico di quella Maestá, per antichi disgusti ricevuti essendo in Spagna alla corte regia, dove serví otto anni, vivendo ancora il re Ferdinando cattolico, e per il possesso negatogli pochi anni inanzi dell’arcivescovato di Napoli, per la comune inclinazione delli baroni napolitani. A questo s’aggiongeva la severitá dei costumi suoi, che rese ancor tutta la corte molto mesta, e la pose in maggior timore di riforma che tutto il passato sostenuto nelle trattazioni del concilio. La severitá del vivere quanto alla persona e casa sua la depose immediate creato; che interrogato dal maestro di casa come voleva che gli fosse apparecchiato, disse: «Come ad un gran principe conviene». E volle esser coronato con maggior pompa del solito, che tale non era in memoria: e in tutte le azioni affettava di tenere magnificamente il grado e apparir pomposo e sontuoso; e con li nepoti e parenti si mostrò cosí indulgente, come qual pontefice fosse preceduto; la severitá verso gli altri affettò di asconderla, mostrando grandissima umanitá; però in poco tempo ritornò a mostrar il suo naturale.
Ricevette a grande sua gloria che il primo giorno del suo pontificato entrarono in Roma li tre ambasciatori inglesi spediti sotto Giulio, come si è detto; e il primo consistoro dopo la coronazione fu pubblico. In quello furono introdotti: dove prostrati alli suoi piedi, a nome del regno accusarono li falli passati, narratigli tutti ad uno ad uno (ché cosí il papa volle) confessandosi ingrati de infiniti benefici dalla Chiesa ricevuti, e chiedendone umil perdono. Il pontefice li perdonò, li levò di terra e abbracciò; e in onor di quei re diede titolo di corona regale all’Ibernia, concedendoli tale dignitá per l’autoritá che il pontefice ha da Dio, posto sopra tutti li regni, per spiantar li contumaci e edificarne de novi. Dagli uomini di giudicio, che allora non seppero la vera causa di tal azione, fu riputata una vanitá, non vedendosi che profitto né di potestá né di onorevolezza sia ad un re l’aver piú titoli nel paese che possede, e vedendosi piú onorato il re cristianissimo per il solo titolo di re di Francia, che se fosse il suo stato diviso in tanti titoli regi quante provincie possede. Né pareva molto opportuno in quei tempi il dire d’aver da Dio autoritá di edificar e spiantar regni. Li consapevoli della vera causa non l’ebbero per vanitá, anzi per arcano solito da molto tempo usarsi. Enrico VIII, dopo separato dal pontefice, eresse l’Ibernia in regno, e si chiamò re d’Anglia, Francia ed Ibernia. Questo titolo, continuato da Edoardo, fu assonto anco da Maria e dal marito. Il papa, subito creato, entrò in resoluzione che il titolo d’Ibernia fosse da quei re deposto, affermando constantemente non appartenere ad altri che a lui dare titolo regio. Ma difficil cosa pareva poter indur l’Inghilterra a deponer un titolo che giá da due re era usato, e dalla regina, senza altro pensare, continuato: trovò temperamento, dissimulando di saper il fatto da Enrico, d’eriger esso quell’isola in regno; che in quella maniera poteva il mondo credere il titolo esser usato dalla regina come donato dal papa, non come decretato dal padre. Cosí spesso li papi hanno donato quello che non hanno potuto levare ai possessori; e questi, per fuggire le contenzioni, parte hanno ricevuto le cose proprie in dono, e parte hanno dissimulato di saper il dono e la pretensione del donatore.
Ma nelli ragionamenti che passarono tra il papa e gli ambasciatori in privato, riprese che non fossero stati intieramente restituiti tutti li beni della Chiesa, dicendo che ciò non era da tollerarsi in modo alcuno; e che in ogni maniera era necessario recuperarli tutti sino al valore d’un minimo quadrante, perché le cose di Dio non possono mai ritornar ad usi umani, e chi teneva qualsivoglia minima parte di quei beni era in continuo stato di dannazione: che se egli avesse facoltá di concederli, lo farebbe prontissimamente per pietá paterna, e per aver esperimentato la loro filial obedienzia; ma la sua autoritá non estendersi a poter profanare le cose dedicate a Dio; e dover Inghilterra esser certa che quello sarebbe un anatema e una contagione che averebbe per divina vendetta tenuto sempre quel regno in perpetua infelicitá. Incaricò li ambasciatori di scriverne immediate; né contento d’averne una volta parlato, con ogni occasione replicava l’istesso. Li disse anco chiaramente che quanto prima si mettesse ordine di ritornar in uso l’esazione del denaro di san Pietro, per qual causa egli, secondo il costume, averebbe mandato un esattore; che quel carico di esattore era stato esercitato tre anni da lui, mandato a quest’effetto in Inghilterra, con molta sua edificazione, vedendo la prontezza nel populo, e nelli plebei maggiormente. Gl’inculcava che non potevano sperare che da san Pietro fosse loro aperto il cielo, mentre che usurpassero le cose proprie di quel santo in terra. Questa relazione fatta alla regina, con molti altri uffici che successivamente erano da Roma continuati, fecero che ella s’adoperò con tutti li spiriti a questo. Ma perché molti della nobiltá, e massime delli piú grandi, avevano incorporato diverse entrate nelle case loro, non si potè eseguire. Essa bene restituí tutte le decime e qualonque cosa ecclesiastica applicata al fisco regio dal fratello e dal padre. Li ambasciatori partirono da Roma molto lodati e favoriti dal papa per la sommissione da loro usata: modo col quale facilmente s’acquistava la sua grazia.