Istoria del Concilio tridentino/Libro quarto/Capitolo IV
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CAPITOLO IV
(novembre - dicembre 1551).
[Decreto di riforma della giurisdizione episcopale, contro le licenze ottenute a Roma, gli abusi dei vescovi titolari, le esenzioni dalla correzione episcopale, le lettere conservatorie, sul vestire del clero, contro la dispensa ai clerici omicidi, contro l’estensione della giurisdizione fuori della diocesi, l’unione di piú chiese, le commende dei benefici regolari, i benefici secolari posseduti da regolari e gli abusi del ius patronatus.— Arrivo a Trento degl’inviati del Württemberg.— Carlo V si trasferisce ad Innsbruck. — Istruzioni papali al legato. — Sessione decimaquarta: pubblicazione dei decreti della penitenza, dell’estrema unzione e di riforma.— Critiche suscitate in Germania.— Dottrina e canoni del sacrificio della messa. — Gli inviati del Württemberg pretendono di presentare la dottrina formulata dai loro teologi, pei quali chiedono piú largo salvocondotto. — Risoluto contegno del legato. — Arrivo di altri inviati tedeschi, con analoghe pretese. — Loro doglianze all’imperatore ed al nipote Massimiliano.— Creazione cardinalizia del Natale.]
Ma nella materia della riforma, sí come s’è detto, quattordici furono gli articoli proposti appartenenti tutti alla giurisdizione episcopale: nella trattazione de’ quali, dopo aver inteso il parere dei canonisti nelle congregazioni, e il tutto letto nella generale, si venne alla formazione del decreto. Nel che la mira dei vescovi non era altra che accrescer l’autoritá propria, recuperando quello che la corte romana s’aveva assonto spettante a loro; e il fine delli presidenti non era altro che di concederli quanto manco fosse possibile: ma con destrezza procedevano l’una e l’altra parte, mostrando tutti d’aver una stessa mira al servizio di Dio, e la restituzione dell’antica disciplina ecclesiastica. Riputavano li vescovi di esser impediti da far il loro ufficio, perché quando suspendevano alcuno, per urgenti cause note a loro, dall’esercizio degli ordini, gradi o dignitá ecclesiastiche, o vero per qualche simile rispetto ricusavano concederli di passar a maggior gradi, con una licenzia da Roma o con una dispensa il tutto era retrattato; il che cedeva in diminuzione della reputazione episcopale, in dannazione delle anime e in total detrimento della disciplina. Sopra che fu formato il primo capo, che simil licenze o restituzioni non giovassero. Ma però non volsero li presidenti che per riputazione della sede apostolica fosse nominato né il pontefice, né il sommo penitenziario, né altri ministri di corte, da chi simil licenzie si solevano impetrare. Erano ancora di grand’impedimento li vescovi titolari, li quali, vedendosi per il decreto pubblicato nella sesta sessione privati di poter esercitar gli uffici pontificali nelle diocesi senza licenza del proprio vescovo, si ritiravano in luoco esente, non suddito ad alcun vescovato, ammettendo alli ordini sacri li reietti giá dalli vescovi propri come inabili; e questo per vigor di privilegio di poter ordinare ciascuno che se gli presentasse. Questo fu proibito nel secondo capo, con moderazione però che, per riverenzia della sede apostolica, non si facesse menzione di chi ha concesso il privilegio. E in consequenza di questo, nel terzo capo fu data facoltá ai vescovi di poter suspender, per il tempo che a loro paresse, ciascuno ordinato senza loro esamine e licenza per facoltá data da qualsivoglia. Le qual cose dalli vescovi avveduti erano ben conosciute esser di leggier sussistenzia, poiché per la dechiarazione de’ canonisti sotto li nomi generali non vengono mai comprese le licenze, privilegi e facoltá concesse dal pontefice, se non è fatta special menzione di loro; con tutto ciò, non potendo di piú avere, si contentavano di questo tanto, sperando che il tempo potesse aprir strada di far qualche passo piú inanzi.
Era anco nella medesima sesta sessione stato decretato che nessun chierico secolare per virtú di privilegio personale, né regolare abitante fuori del monasterio, per vigor di privilegio dell’ordine suo, fosse esente dalla correzione del vescovo come delegato della sede apostolica; il che riputando alcuni che non comprendesse li canonici delle cattedrali o altre dignitá delle collegiate, le quali non per privilegi, ma per antichissima consuetudine, o vero per sentenzie passate in giudicato, o per concordati stabiliti e giurati con li vescovi si ritrovavano in possessione di non esser soggetti al giudicio episcopale, e altri anco restringendo alle sole occasioni di visita, fu nel quarto capo ordinato, quanto ai chierici secolari, che si estendesse a tutti i tempi e a tutte le sorti di eccessi, e dechiarato che nessuna delle suddette cose ostassero.
Non nasceva minor disordine perché dal pontefice a qualunque cosí ricercava, con li mezzi usati in corte, era concesso giudice ad elezione del supplicante, con autoritá di proteggerlo, defenderlo e mantenerlo in possessione delle ragioni, levando le molestie che gli fossero date, estendendo anco la grazia alli domestici e familiari. E questa sorte di giudici chiamavano «conservatori»; li quali estendevano l’autoritá loro (in luoco di defendere il supplicante dalle molestie) a sottrarlo dalle giuste correzioni, e anco a dare molestia ad altri ad instanzia loro, e travagliare li vescovi e altri superiori ecclesiastici ordinari con censure. A questo disordine provvede il quinto capo, ordinando che non giovino le grazie conservatorie ad alcuno, ad effetto che non possi esser inquisito, accusato e convenuto inanzi l’ordinario nelle cause criminali e miste. Appresso, che le civili, dove egli sia attore, non possino essere trattate inanzi al conservatore; e nelle altre, se l’attore averá il conservatore per suspetto o nascerá differenzia tra esso e l’ordinario sopra la competenzia di fòro, siano eletti arbitri secondo la forma della legge; e che le lettere conservatorie che comprendono anco i familiari non si estendano se non al numero di due soli e che vivino a spese di lui, e simili grazie non durino per piú che cinque anni; né i conservatori possino aver tribunali; non intendendo però la sinodo di comprender in questo decreto le universitá, collegi de dottori o scolari, li luochi de’ regolari e li ospitali. Sopra la qual eccezione, quando questo capo fu trattato, vi fu grandissima contenzione, perché pareva alli vescovi che contra ogni dovere l’eccezione fosse piú ampia che la regola, essendo maggior il numero de’ dottori, scolari, regolari e ospitalari, che degli altri che abbiano lettere conservatorie; e che ad un particolare è facile provvedere, ma li disordini che nascono per collegi e universitá esser importantissimi. Di questo il legato ne diede conto a Roma; dove essendo giá deciso per quello che sotto Paulo III fu consultato, cioè essere necessario per mantenimento dell’autoritá apostolica che li frati e le universitá dependessero totalmente da Roma, non fu bisogno di nova deliberazione, ma fu immediate risposto che le conservatorie di questi non fossero in alcun modo toccate. Onde, essendo entrati in quel parere li padri della sinodo aderenti a Roma, gli altri che erano in numero minore, aggionto qualche ufficio e qualche speranza per quietarli, furono costretti contentarsi della eccezione.
Il sesto capo fu sopra il modo di vestir de’ preti, nel che facilmente fu concluso di ordinare che tutti li ecclesiastici di ordine sacro, o beneficiali, fossero tenuti portare l’abito conveniente al grado loro, secondo l’ordinazione del vescovo, dando a quello potestá di potere suspender li transgressori, se ammoniti non obediranno, e privarli delli benefici, se dopo la correzione non si emenderanno: col rinovar la constituzione del concilio viennese in questo proposito; la qual però era poco adattata a quei tempi, proibendo le sopravesti vergate e di diversi colori e li tabarri piú corti della veste e le calze scaccate rosse o verdi, cose disusate che non hanno piú bisogno di proibizione.
Fu antichissimo uso di tutte le nazioni cristiane che, ad imitazione della mansuetudine di Cristo nostro Signore, tutti li ministri della Chiesa fossero netti e mondi dal sangue umano, non ricevendosi mai ad alcun ordine ecclesiastico persona macchiata di omicidio, o fosse quello volontario o casuale; e se qualsivoglia ecclesiastico fosse incorso per volontá in simil eccesso, o per caso ancora, gli era levata immediate ogni fonzione ecclesiastica. Questo dalle altre nazioni cristiane, alle quali le dispense contra i canoni sono incognite, è stato ed è di presente inviolabilmente osservato; ma dalla latina, dove le dispense sono in uso e in facilitá, avendo comodo li ricchi di valersene, è rimasto in osservanza solo per i poveri. Essendo proposto nel quarto e quinto articolo di moderar l’abuso, fu nel settimo capo statuito che l’omicida volontario resti sempre privo d’ogni ordine, beneficio e ufficio ecclesiastico; e il casuale, quando vi sia ragione di dispensarlo, la commissione della dispensazione non sia data ad altri che al vescovo; ed essendoci causa di non commetterla a lui, al metropolitano o ad un altro vescovo piú vicino. Il qual decreto ben si vedeva che non serviva a moderar gli abusi, ma piú tosto ad incarir le dispense; perché quanto all’omicidio volontario non erano legate le mani al pontefice, e quanto al casuale era servato il decreto, non commettendo ad altri che al vescovo; ma non impedito però il dispensare alla dritta senza commetter la causa ad altri, facendo prima le prove in Roma, o veramente espedendo la dispensa sotto nome di moiu proprio, o con altre clausule delle quali la cancellarla abbonda, quando li vien prestato occasione di valersene.
Pareva che impedisse assai l’autoritá episcopale certa sorte de prelati, li quali, per conservarsi in qualche riputazione nel luoco dove abitavano, impetravano dal pontefice autoritá di poter castigare li delitti de ecclesiastici in quel luoco; e alcuni vescovi anco, sotto pretesto che li preti loro ricevessero scandoli e mali esempi da quelli delle diocesi vicine, impetravano autoritá di poterli castigare. Questo disordine desiderando alcuni che fosse rimediato con revocar totalmente simili autoritá, ma parendo che se ciò si facesse, sarebbe dato disgusto a molti cardinali e prelati potenti che abusano tal autoritá, fu trovato temperamento di conservargliela senza pregiudicio del vescovo, con ordinare nell’ottavo capo che questi non potessero procedere se non con l’intervento del vescovo o di persona deputata da lui. Era un altro modo di sottopor le chiese e persone d’una diocesi ad un altro vescovo, con unirle alle chiese o benefici di quello; il che se ben veniva proibito con termini generali nella settima sessione, però, non essendo tanto chiaro quanto alcuni averebbono desiderato, ne dimandarono espressa dechiarazione. Sopra che si venne in resoluzione di proibir ogni unione perpetua di chiese d’una diocesi a quelle dell’altra, sotto qualunque pretesto.
Li regolari facevano grand’instanzia di conservar li loro benefici e di racquistar anco li giá perduti con l’invenzione delle commende perpetue; e molti vescovi per diversi rispetti desideravano suffragarli; per la qual causa averebbono volentieri proposto che le commende perpetue fossero a fatto levate; ma dubitando della contradizione, si ristringevano al moderarle. E dall’altro canto li presidenti, vedendo il rischio che questa materia pericolosa per la corte fosse posta a campo, proposero essi un leggier rimedio per impedir che si trattasse del buono: e questo fu che li benefici regolari, soliti esser dati in titolo a religiosi, quando per l’avvenir vacheranno, non siano conferiti se non a professi di quell’ordine, o vero a persona che debbi ricever l’abito e far la professione: che fu il capo decimo. Il che alla corte romana poteva impotar poco, essendo giá commendati tutti quelli che si potevano commendare; e nelli prelati non era grand’ardore di ottener maggior cosa, se ben cedeva in onor delle chiese loro aver abbati regolari residenti. Ma per il favore fatto al monacato di non usurparli piú di quello che sino allora era usurpato, li fu aggiorno un contrappeso nel seguente capo, con ordinare che non potessero aver benefici secolari, eziandio curati. Il qual capitolo, se ben parla de quelli solamente che sono trasferiti da un ordine ad un altro, ordinando che non sia alcun ricevuto se non con condizione di star nel chiostro, nondimeno per la paritá della ragione, anzi per un argomento di maggior ragione, è stato inteso generalmente di tutti. E perché si concedeva in corte per grazia le chiese in iuspatronato, e per far anco maggior grazia a petizione di chi l’impetrava era conceduto che potessero deputar persona ecclesiastica con facoltá di instituir il presentato, nel duodecimo capo fu rimediato al primo disordine, ordinando che il ius di patronato non possi competere se non a chi averá de novo fondato chiesa, o vero sará provvisto di beni suoi patrimoniali per dote competente de una fondata; e per rimedio del secondo disordine, nel capo decimoterzo fu proibito al patrone, eziandio per virtú di privilegio, di far la presentazione ad altri che al vescovo.
Mentre che si trattavano queste materie, gionsero in Trento Gioanni Teodorico Pleniagoro e Gioanni Eclino, mandati ambasciatori dal duca di Virtemberga al concilio, con ordine che dovessero pubblicamente presentare la confessione della loro dottrina della quale di sopra s’è parlato, e insieme dire che sarebbono andati teologi per esplicarla piú copiosamente e defenderla, purché li fosse data sicurezza e salvocondotto secondo la forma del concilio basiliense. Questi si presentarono al conte di Monfort ambasciator cesareo, mostrarono il loro mandato, e dissero aver commissione di proponer alcune cose in concilio. Il che dal conte riferito al legato, egli rispose che sí come gli altri ambasciatori inanzi ad ogni altra cosa si presentano alli presidenti per nome del pontefice, e li significano la somma dell’ambasciaria loro, cosí dovevano fare li virtembergici; però andassero, che egli li averebbe ricevuti con ogni umanitá. Il conte fece la risposta, della quale non si contentarono, dicendo questo esser a punto uno delli capi richiesti in Germania, che nel concilio il papa non presedesse; al che non volendo contravvenire senza ordine del suo principe, averebbono scritto e aspettato risposta. Provò il conte con destro modo di sottrar quel tutto che il loro carico portava, per avvisarne il legato, ma li vertembergici stando sopra li generali, non uscirono a specificazione alcuna. Il legato diede immediate avviso a Roma, ricercando il modo di governarsi, massime che s’intendeva doverne venir altri ancora.
Ma nel principio di novembre Cesare, per esser piú vicino al concilio e alla guerra di Parma, si transferí in Inspruc, non piú distante da Trento di tre giornate, e di strada anco assai comoda, in modo che poteva dagli ambasciatori suoi, occorrendo, esser in un giorno avvisato. Ebbe il pontefice nova tutt’insieme dell’arrivo dell’imperatore e delli virtembergici. E se ben si fidava delle promesse di Cesare fattegli inanzi la convocazione del concilio, e replicate tante volte (e ne vedeva effetti, perché gli ambasciatori imperiali raffrenavano li spagnoli quando mostravano troppo ardire in sostentar l’autoritá episcopale), e li interessi comuni contra il re di Francia persuadevano a credere che dovesse perseverare, nondimeno, essendogli alle orecchie penetrato qualche cosa trattata in Germania, aveva anco alcuna gelosia che, o per necessitá o per qualche grand’opportunitá che gli affari potessero portare, non mutasse opinione. Prese però in se medesimo confidenza, considerando che se la Germania passava a guerra, non si sarebbe tenuto conto di concilio; durante la pace, che egli aveva gli ecclesiastici tedeschi dalla parte sua e li prelati italiani, il numero de’ quali gli era facile aumentare spingendo lá tutti quelli che erano in corte; e il legato ben risoluto, e che pieno di speranza di papato opererebbe come per se medesimo; e il noncio sipontino affezionatissimo alla persona sua; e finalmente esser sempre aperto l’adito di riconciliarsi con Francia, cosa da quel re desiderata: col mezzo del quale, e delli prelati del suo regno, poteva ovviar ad ogni tentativo che contra l’autoritá sua fosse fatto.
Rispose al legato che poca instruzione poteva dar di piú a lui, che era stato non solo consapevole, ma anco autor principale delle trattazioni passate nel formar la bolla della convocazione; raccordassesi che studiosamente furono approvate in quella le cose decretate sotto Paulo; che fu detto al pontefice appartenere non solo il congregare, ma l’indrizzar li concili e presedervi col mezzo de’ ministri suoi; non lasciasse fare alcun fòro pregiudiciale ad alcuna di queste: del rimanente si governasse sul fatto; raccordandogli di fuggire li consegli medi e li temperamenti come la peste, quando d’alcuna di esse si tratterá; ma immediate che la difficoltá nasca, debbi romper affatto, senza aspettare che li avversari abbiano adito di penetrare. Che non voleva caricarlo di addossarsi translazione o dissoluzione del concilio; ma quando avesse veduto il bisogno, avvisasse in diligenza. Del rimanente mettesse sempre a campo piú materia che fosse possibile delli dogmi per far piú buoni effetti; l’uno, desperar li luterani di poter trovar modo di concordia se non sottomettendosi affatto, e interessar anco maggiormente li prelati contra di loro; far che questi occupati non avessero tempo di pensar alla materia di riforma; e dar anco presta espedizione al concilio, capo importantissimo, essendo sempre in pericolo di qualche inconveniente mentre dura. E quando si vedesse costretto a dar loro qualche sodisfazione per ampliar l’autoritá episcopale, condescendesse, stando però indietro quanto fosse possibile; perché quando ben si concedesse alcuna cosa pregiudiciale alla corte, come alquante erano concesse sino allora, restando l’autoritá pontificale intiera, restava insieme modo di ritornar facilmente le cose allo stato di prima.
Essendo le cose in questi termini, venne il 25 novembre, giorno destinato per la sessione. In quello si congregarono li padri, e col solito ordine s’incamminarono alla chiesa, dove, compite le ceremonie, dal vescovo celebrante fu letta la dottrina della fede, li anatematismi e il decreto della riforma. De’ quali avendo recitato giá il tenore, altro non resta dire. E finalmente fu letto l’ultimo decreto per dar ordine alla sessione futura; nel qual si diceva che, essendo quella giá stabilita per li 25 gennaro, in essa si doverá insieme con la materia del sacrificio della messa trattar ancora del sacramento dell’ordine. Cosi volle che fosse prononciato il legato, seguendo il parer del papa che fosse ben metter in tavola assai materie de dogmi. Finita la sessione, usò diligenza il legato che li decreti di essa non fossero stampati, e fu osservato il suo ordine a Ripa, dove la stampa era e gli altri si solevano stampare: ma non si potè tenere che molte copie non uscissero di Trento; onde furono stampati in Germania; e la difficoltá e la dilazione di uscir in luce eccitò maggiormente la curiositá e la diligenza alli critici di far esamine piú esatto per indagar la causa della procurata secretezza.
Gran materia di discorso diede quello che nel primo capo della dottrina e nel sesto canone era deciso, cioè che Cristo, quando soffiò verso li discepoli e diede loro lo Spirito Santo dicendo «che saranno rimessi li peccati a quelli a chi essi li rimetteranno e ritenuti a quelli a chi li riteniranno» [ordinò il sacramento della penitenza]. Era considerato che il battesmo prima fu usato da’ giudei per mondizia legale, poi da san Gioanni applicato per preparazione di andar al Messia venturo, e finalmente da Cristo con espresse parole e chiare instituito sacramento per remissione de’ peccati e ingresso nella Chiesa, ma ordinando che si ministrasse in nome del Padre, Figlio e Spirito Santo. Parimente [l’eucaristia] esser stato un postcenio instituito dagli ebrei nella cattivitá babilonica con pane e vino, per ringraziamento e memoria dell’uscita di Egitto, mentre che per esser fuori della terra di promissione non potevano mangiare l’agnello della Pasca: il qual rito imitando Cristo nostro Signore, instimi un’eucaristia per render a Dio grazie della universale liberazione del genere umano, e in memoria di lui che ne fu l’autore con lo spargimento del sangue. E con tutto che fossero simili riti giá in uso, se ben per altri fini, come è detto, nondimeno la Scrittura esprime tutte le singularitá di quelli. Ora che Cristo volesse introdur un rito di confessar ad un uomo li peccati suoi in singolare con tanta esattezza, di che non era uso alcuno simile, e volesse esser inteso con parole, da quali per sola molto inconnessa consequenza si potesse cavare, anzi non senza molte lontanissime consequenze, come si faceva dal concilio, pareva maravigliosa cosa. Ed era anco in maraviglia perché, stante l’instituzione per il verbo di «rimettere», non fosse usata per forma: «ti rimetto li peccati», piú tosto che: «ti assolvo». Aggiongevano altri che se per quelle parole è instituito un sacramento dell’assoluzione con la forma: absolvo te per chi viene assoluto; per necessitá inevitabile convien dire che sia instituito o un altro o quell’istesso per chi è legato, nel quale sia parimente necessaria questa forma: ligo te, non potendosi capire come la medesima autoritá di assolvere e legare, fondata sopra le parole di Cristo in tutto simili, ricerchi nell’assolvere la prononcia delle parole: absolvo te, e quella di legare non richieda la prononcia delle parole: ligo te. E con che ragione per esequir quello che Cristo ha detto: quorum retinueritis etc., et quorum ligaveritis etc., non è necessario dir: ligo te; ma per esequir quorum remiseritis, et quæcumque solveritis, è necessario dire: absolvo te?
Similmente era criticata la dottrina inserita nel quinto capo, dove si dice che Cristo con le medesime parole constituí li sacerdoti giudici dei peccati, e però sia necessario confessargli tutti intieramente in specie e singolarmente, insieme con le circonstanze che mutano specie; imperocché chiaramente appar dalle parole di nostro Signore che egli non ha distinto due sorti di peccati, una da rimetter e l’altra da ritenere, che perciò convenga saper de quali il delinquente sia reo, ma una sola che gli comprende tutti. E però non è detto se non peccata in genere; ma bene ha distinto due sorti di peccatori, dicendo quorum e quorum: una de penitenti a’ quali si concede la remissione, l’altra de impenitenti a’ quali si nega. Però piú tosto hanno da conoscere lo stato del delinquente che la natura e il numero de’ peccati. Ma poi quello che si aggionge delle circonstanze che mutano specie si diceva che ogn’uomo da bene poteva con buona conscienzia giurare; che li santi apostoli e loro discepoli, dottissimi delle cose celesti, non curando le sottilitá umane, mai seppero che vi fossero circonstanzie mutanti specie; e forse se Aristotele non avesse introdotta questa speculazione, il mondo a quest’ora ne sarebbe ignaro: e tuttavia se n’è fatto un articolo di fede, necessario alla salute. Ma sí come veniva approvato che absolvo è verbo giudiciale, e riputata buona consequenza che se li sacerdoti assolvono, sono giudici; cosí pareva un’inconstanza il condannar quelli che dicevano esser un ministerio nudo di prononciare, essendo cosa chiara che l’ufficio del giudice non è se non prononciar innocente quello che è tale, e colpevole il transgressore. Ma il far del delinquente giusto, come s’ascrive al sacerdote, non sostiene la metafora del giudice. Fa il principe grazia a’ delinquenti della pena, restituisce alla fama: a questi è piú simile chi fa de empio giusto, e non al giudice, il quale transgredisce il suo ufficio sempre che altro prononcia, salvo che quello che ritrova esser prima vero. Ma piú stupivano che d’ogni altra cosa, nel leggere il capo dove si prova la specifica e singolare confessione delli peccati con le circonstanze, perché il giudicio non si può esercitar senza cognizione della causa, né servar l’equitá nell’imponer le pene, sapendoli solo in genere; e piú di sotto, che Cristo ha comandato questa confessione, acciò potessero imponer la condegna pena. Dicevano che questo era ben un ridersi palesemente del mondo e stimare tutti per sciocchi, e persuadersi dover esser creduta loro ogni assurditá senza pensar piú oltre. Imperocché chi è quello che non sa e non vede quotidianamente che li confessori danno le penitenze non solo senza ponderare il merito delle colpe, ma anco senza averci sopra minima considerazione? Parerebbe, bene considerato il parlare del concilio, che li confessori avessero una bilancia che tirasse sino alli atomi; e pure con tutto ciò ben spesso il recitar cinque Pater sará dato in penitenzia per molti omicidii, adultèri e furti: e li piú letterati tra li confessori, anzi l’universale di essi, nel dar la penitenzia dicono a tutti che impongono solo parte della penitenzia. Adonque non è necessario impor quella esatta penitenzia che le colpe meritano, onde né meno la specifica numerazione de’ peccati e circonstanze. Ma a che andar tanto lontano, se l’istesso concilio nel nono capo della dottrina e nel decimoterzo anatematismo statuisce che si sodisfá anco per le pene volontarie e per la tolleranza delle avversitá? Adunque non fa bisogno, anzi non è cosa giusta impor in confessione la corrispondente pena; per il che né meno far la specifica numerazione che per questa causa si dice ordinata. E aggiongevano che, senza considerar ad alcuna delle cose su dette, il confessor, quantunque dottissimo, attentissimo e prudentissimo, avendo ascoltato la confessione d’un anno di persona mediocre, nonché di piú anni d’un gran peccatore, è impossibile che dia giudicio della pena, eziandio che avesse canoni di ciascuna debita a qualsivoglia peccato, senza pericolo di fallare della metá per dir poco; poiché neanco un tal confessore, vedendo in scritto e considerando piú giorni, potrebbe far un bilancio che dasse nel segno, nonché ascoltando e risolvendosi immediate come si fa. Sarebbe pur giusto, dicevano, che non fossimo cosí disprezzati, col tenerci tanto insensati che dovessimo creder tante assurditá. Della riservazione de’ casi fu troppo detto quello che dalli teologi di Lovanio e Colonia era stato predetto, ed era attribuita a dominazione e avarizia.
Ma nel concilio il dí seguente si fece la generale congregazione per metter ordine alla discussione della materia del sacrificio della messa e della comunione del calice e de’ fanciulli. E con tutto che giá li decreti erano formati per la sessione delli 11 ottobre e differiti, nondimeno, come se niente fosse trattato, di novo fu discorso, ed eletto li padri a raccogliere gli articoli per disputare; e furono formati al numero di sette, sopra quali fu disputato due volte al giorno da’ teologi, perché le cose si affrettavano; e poi eletti padri a formar il decreto, nel qual numero fu posto l’ambasciator di Ferdinando, e Giulio Plugio vescovo di Namburgo, e per maggior onore anco l’elettor di Colonia, acciò tutta quella dottrina paresse venir di Germania e non da Roma. Furono formati tredici anatematismi, condannando per eretici quelli che non la tengono per vero e proprio sacrificio, o che asseriscono non giovare a’ vivi e a’ morti, o vero non ricevono il canone della messa, o dannano le messe private, o vero le ceremonie che la chiesa romana usa; e poi formati quattro capi di dottrina: che nella messa si offerisce vero e proprio sacrificio instituito da Cristo; della necessitá del sacrificio della messa e della convenienza con quello della croce; delli frutti di quel sacrificio e della applicazione di esso; delli riti e ceremonie della messa. Le qual cose tutte furono stabilite per le feste di Natale; e non sono narrate qui piú particolarmente, poiché nella sessione seguente non furono pubblicate.
Ma mentre che li padri si trattengono nelle azioni conciliari, ricevettero gli ambasciatori di Virtemberg risposta dal suo principe che dovessero camminar inanzi e presentar la loro dottrina nel miglior modo che potevano; per il che essi, essendo assente il conte di Monfort, fecero ufficio col cardinal di Trento che operasse con li presidenti di far ricever le lettere e poi congregar li padri e ascoltarli. Il cardinale promesse ogni buon officio, ma disse esser necessario riferir prima al legato quello che dovevano trattare, essendo cosí statuito dalli padri, mossi dalli rumori che nacquero per l’abbate di Bellozana. Essi li comunicarono la loro instruzione, dicendo che erano mandati per ottener un salvocondotto (come fu dato in Basilea a’ boemi) per li teologi loro, e che avevano commissione di presentar la loro dottrina, acciò tra tanto fosse dalli padri esaminata, per esser in ordine a conferire con li teologi quando fossero arrivati: della quale avendo il cardinale fatta relazione al legato, egli gli comunicò quanto dal papa gli era stato scritto, e li considerò che non era da permettere che né essi né altri protestanti presentassero la loro dottrina, né meno fossero ammessi a defenderla, perché non si vederebbe il fine delle contenzioni; esser ufficio dei padri, il quale anco era sin a quell’ora esequito e s’averebbe cosí continuato, di esaminar la dottrina loro tratta dalli libri, e condannar quella che meritava; se essi protestanti avevano qualche difficoltá e la proponessero umilmente, e mostrandosi pronti a ricever instruzione, gli sarebbe data, secondo l’avviso del concilio. E però che negava assolutamente di volere che si congregassero li padri per ricevere la dottrina loro, e da questo parere non poter dipartirsi, quando bene dovesse metterci la vita. Per quello che toccava al dare salvocondotto in altra forma, che era con esorbitante indignitá della sinodo che non si fidassero del conceduto, e che il trattarne era ingiuria alla Chiesa di Dio insopportabile, e degna che ogni fedele vi mettesse la vita per propulsarla.
Il cardinale di Trento non volse dar risposta cosí aspra alli ambasciatori, ma disse che il legato aveva sentito con sdegno la proposizione loro di voler principiar dal presentare la dottrina, dovendo essi ricever dai suoi maggiori con riverenzia e obedienzia la regola della fede, e non voler prescriverla agli altri con tanto indecoro e absurditá. Per il che li consegliava trapassar qualche giorno, fin che lo sdegno del legato fosse rimesso, e poi principiar la proposta da qualche altro capo, per capitar poi a quelli del presentar la dottrina e chieder il salvocondotto. Ricevettero il conseglio, e dopo qualche giorni, essendo partito il cardinale di Trento, fecero far ufficio per il Toledo ambasciator cesareo, acciò dal legato fosse ricevuto il loro mandato e ascoltata la proposizione, per dover essi, intesa la mente di lui, deliberare secondo che dal loro principe avevano instruzione. L’ambasciatore trattò col legato, dal quale ebbe l’istessa risposta data al Trento, perché non sdegno, ma deliberata volontá l’aveva somministrata allora. L’ambasciatore, intesa la mente del cardinale, giudicò che per allora il negozio non potesse aver luoco. E conoscendo che il riferir la risposta era contra la dignitá di Cesare, quale aveva cosí largamente promesso che ognun sarebbe stato udito e averebbe potuto liberamente proporre e conferire, in luoco di dar risposta precisa alli virtembergici, trovò diverse scuse a fine di portar la cosa inanzi; né lo seppe far con tanta arte, quantunque fosse spagnolo, che non scoprissero esser pretesti per non dar una negativa aperta.
Andarono in questo tempo a Trento ambasciatori della cittá d’Argentina e di cinque altre insieme, con instruzione di presentar la loro dottrina. Questi adoperarono Vielmo Pittavio, terzo ambasciator cesareo, il quale, per non incontrar nelle difficoltá occorse al collega, pigliò il loro mandato e li confortò ad aspettare pochi giorni, sin che lo mandasse a Cesare e ricevesse da lui risposta, perché in questa guisa si camminerebbe con piede fermo. Questo fu causa che anco li virtembergici si fermarono: e l’ambasciatore scrisse a Cesare, dando conto della risoluzione del legato e mostrando quanto fosse contra la dignitá della Maestá sua che non si tenesse conto d’una cosí onesta e giusta parola data da lei. Ma Cesare, volendo rimediare all’indignitá che riceveva e cavar anco frutto dal concilio con destro modo, aspettando gli ambasciatori dell’elettore di Sassonia in breve, scrisse che gli altri fossero trattenuti sino al loro arrivo, certificandoli che allora sarebbono stati uditi e conferito con essi loro con ogni caritá.
Al 13 di decembre passò per Trento Massimiliano, figliuolo di Ferdinando, con la moglie e figliuoli, e fu incontrato dal legato e dalli prelati italiani e spagnoli, e da alcuni germani ancora. Li principi elettori non l’incontrarono, ma lo visitarono all’alloggiamento. Con lui ancora gli ambasciatori protestanti fecero condoglianza che, con tante promesse fatte loro da Cesare, però non potevano manco aver audienza; e lo pregarono ad aver pietá della Germania, perché quei preti, come forestieri, per minimi rispetti loro non curano, se ben la vedono ardere; anzi, col loro precipitar le determinazioni e gli anatemi, fanno le controversie ogni giorno piú difficili. Massimiliano li confortò ad usar pazienza, e li promise di far ufficio col zio che le azioni del concilio passassero secondo che nella dieta aveva promesso.
Al Natale creò il pontefice quattordici cardinali, italiani tutti: tredici ne pubblicò allora, e uno si riservò in petto per pubblicarlo al suo tempo. E per onestar una creazione cosí numerosa in principio di pontificato, massime essendoci quarantotto cardinali nel collegio, che era stimato in quei tempi numero molto grande, prese occasione dalle azioni del re di Francia. Del quale si querelò cosí per la guerra che faceva contra la sede apostolica, come per li editti pubblicati, aggiongendo una nova arrivata allora da Lione e da Genova, che minacciasse anco di far un patriarca in Francia; la quale quando si fosse verificata, diceva esser necessario proceder contra lui per via giudiciaria; nel che averebbe riscontrato in molte difficoltá per il gran numero de cardinali francesi, a’ quali bisognava metter contrappeso creandone de novi e persone di valore, de’ quali la sede apostolica nelle occasioni importanti si potesse valere. Fu dal collegio corrisposto, e li novi cardinali ricevuti. Dopo questo spedí in diligenza il vescovo di Montefiascone a Trento, con lettere credenziali al Cardinal Crescenzio e alli tre elettori. A questi mandò per rallegrarsi della loro venuta e ringraziarli del zelo e riverenzia verso la sede apostolica, esortandoli alla perseveranzia. Ordinò che dasse loro conto della creazione de cardinali fatta per aver ministri dependenti da sé, poiché li vecchi erano dependenti tutti da qualche principe. E li diede anco commissione di scusarlo della guerra di Parma, dicendo che egli non faceva guerra, ma era fatta a lui: che contra suo volere era necessitato defendersi. Al Cardinal Crescenzio mandò a dar conto delli cardinali fatti, con promettere che averebbe fatto intender a tutti loro la mente sua, come dovessero in ogni tempo deportarsi verso un suo amico, al quale teneva tanti obblighi: fece anco dir al noncio sipontino molto in secreto che di lui aveva disposto come l’amicizia comportava; non si curasse di saper in che, ma attendesse a servir, come per il passato era stato solito di fare.