In Valmalenco/Capitolo XVIII

Capitolo XVIII. Alla capanna Marinelli.

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Capitolo XVIII. Alla capanna Marinelli.
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Alla capanna Marinelli.


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XVIII.


Trascrivo pochissimi appunti, buttati giù in fretta, a fianco della baita del Serafin.

Monte Musella è il mio osservatorio: il sole nasce dietro le mie spalle, o, per essere più precisi, dietro le, bitorzolute spalle della catena Felleria, in continuazione ed a sinistra della quale, per chi come me si lascia accarezzare gli omeri e le terga dalla primissima luce, è la Spondaccia, catena che ha una denominazione appropriata, perchè si eleva con tutti i caratteri giganteschi di una immensa sponda di fiume.

La Spondaccia s’innesta poi con la Scalata, la quale, da di dietro le mie spalle, avanza, s’incurva mettendosi alla mia sinistra, e s’avvalla per lasciare il passo al fiume Scerscen: dal mio luogo d’osservazione non vedo e non sento l’acqua che so bianca e densa, e il rumore che so forte, incessante. [p. 182 modifica]

Ma la catena, abbassatasi per il valico del fiume, si rileva subito, anzi sembra balzare per reazione impetuosa, tutta fremente di pini, scapigliata come la testa d’un lottatore che s’azzuffi e, soggiogato, tenti rizzarsi e riesca.

È questa l’Alpe di Campolungo, seguita dall’Alpe Campaccio, che, dalla mia sinistra, continuando, viene a torreggiarmi dinnanzi e passa alla mia destra facendosi meno selvaggia e integrandosi col monte di Scerscen.

Al di là delle baite, sempre alla mia destra, sale, con certe gobbe da dromedario, Musella, e verdeggia quasi fino alla bocchetta delle Forbici; poichè Musella è uno sperone teneramente prativo, che ha la base nella simpatica pianura di Campaccio e connette lo Scerscen colle prime montagne del gruppo Felleria, che mi sta dietro le spalle.

Questo è il contorno di creste e di pendii, ripidi o dolci, che incatena torno torno la pianura di Campaccio; basterà aggiungere che, dove la Scalata e Campolungo discendono, permettendo al fiume il passaggio, appare una valle, chiusa in fondo in fondo da una catena azzurrina in cui domina il Pizzo Serra. Non è però la sola catena visibile, dinnanzi ad essa ce ne sono altre più basse e fra l’ultima, azzurrina, e le predette, s’adagia la Val d’Antognasca, o di Togno, bellissima fra le più belle d’Italia.

Prese le poche note importanti, fatti gli ultimi preparativi, rifornito il sacco di cibarie, esaminata la botticella di vino e salutata la buona [p. 183 modifica]gente che ci fu tanto cortese, incominciammo la salita tino alle Forbici.

Io ed il canonico Spini, che va piano, calmo, costante, apriamo la marcia; dietro, a breve distanza, movesi il guardiaboschi col suo Andrino, per ultimo appare ogni tanto, sopra i dossetti, il conico cappello del curato e il berretto alla ciclista di Ottorino.

La via alla bocchetta delle Forbici non è per nulla difficile, è solo molto noiosa: la rende un po’ gradevole la prospettiva di tirar qualche colpo di fucile o di rivoltella contro le martore, zirlanti al sommo delle tane: il guardiaboschi si allontana con la speranza di colpirne qualcuna e noi, ascendendo, ne osserviamo le mosse e speriamo con lui.

Dopo due ore circa di cammino la bocchetta delle Forbici è raggiunta, passata: tutta la comitiva si sdraia a riposare in faccia ad una grande vedretta dello Scerscen, ed a guardar la valle, rocciosa, occupata in alcune parti dalla neve, da laghetti e da pozzanghere che ondeggiano appena, giù, in fondo.

A destra della bocchetta è il sentieruzzo che conduce alla capanna: qui il canonico Spini e l’illustratore osservano con un principio di tremito nell’anima e nel corpo, e s’accende una discussione vivace sulla paura; sulla necessità di recedere dinnanzi un passo difficile, perchè, talvolta, anche la sola visione del pericolo basta a rovinare un organismo e continuare, quando tremano troppo le gambe e gli occhi atterriti si chiudono, sarebbe pazzia. [p. 184 modifica]

Ma la prima impressione di paura è vinta: la sicurezza placida e serena del curato, che, prima di incamminarsi, riaccende la storta pipetta, le barzellette che si accoppiano alle volute azzurre di fumo che egli sprigiona dalle labbra, hanno soffocato in me ogni timore. Lo Spini invece non è del tutto sicuro, e, guardando il sentiero, che talvolta si perde o sembra terminare ad un rapidissimo scoscendersi della montagna, frammezzo a macigni sporgenti nel vuoto, domanda:

“È di là che bisogna passare?”

Poichè, è bene saperlo, noi siamo sopra una costa scoscesa, a perpendicolo sulla valle, e il sentiero, appena segnato, è una sfumatura, una vena, in due punti può essere paragonato a un filo che sta sull’abisso. E lo scoscendimento roccioso da noi veduto, che è il fianco della montagna minante e che sembra impossibile al passaggio, quello che ha strappato al canonico la domanda angosciosa: “È di là che bisogna passare?!” è uno dei punti più belli, più facili, più interessanti e meno pericolosi.

Avanti, avanti, canonico!

E il canonico avanza, tasteggiando il terreno con l’alpenstok, appoggiandosi con la mano, talvolta afferrandosi alla riva superiore, assicurando molto bene il piede prima di arrischiare il passo, ed io gli sto dietro, certo con più sicurezza nell’incesso, ma con eguale timore: passiamo così la sporgenza e si libera un grande respiro dal petto.

Ma, ahimè! mentre ci fermiamo un attimo, e [p. 185 modifica]lo sguardo precorre ansioso ancora e dubitante, ecco apparirci, sempre più indeterminato, il sentiero e, di sotto, ognor più sprofondarsi la valle ed a fianco, al di là di essa, ridere per mille crepacci neri il ghiacciaio immenso.

Avanti ancora, avanti sempre, o canonico! Non vedi forse passare dietro te, fra gli stessi pericoli, sulla stessa roccia scheggiata, fra le medesime punte e sulle medesime paurose profondità, il nostro curato don Luigi Parolini, che fuma sempre e chiacchiera sempre e sorride?

Avanti ancora, avanti sempre, o canonico! È bello, è grande sfidare la natura selvaggia e domarla: io, vedi non ho più paura; il pericolo ora m’esalta; cammino in mezzo a queste insidie, passo fra gli agguati della montagna nemica sereno e forte; non ho in bocca la pipa come il curato, ma non importa, ne assumo il tranquillo coraggio le proseguo.

Ecco perchè non mi piego, non mi inginocchio, non istriscio carpone, quando passiamo per una esile ardesia, posticcia sopra una fenditura enorme le cui labbra, per un capriccio pericolosissimo del caso, si uniscono poco sopra il ponticello e si protendono in grugno colossale, massiccio, che ti obbliga, nel passaggio, a bilanciarti più che mezzo nell’aria, e sotto c’è proprio il vuoto, e di lì la caduta deve essere vertiginosa, la morte fulminea!

Ecco perchè non tremo quando su, in cima alla cresta, che s’inabissa a picco, manca d’improvviso la strada, e tu devi arrampicarti, mettendo [p. 186 modifica]una parte minima dei piedi nei crepacci, sulle sporgenze brevi, sottili, e intorno ti circola l’aria e t’avviluppa e t’offende e sotto si spalanca la voragine cupa!

Avanti, avanti canonico! amico mio, prosegui; è una grande battaglia contro te, contro la natura che vinci, non t’importi se io, vedendoti così dinoccolato sull’abisso, dò in uno scroscio di risa; non badare se, quando t’arrampichi a rana, comprimendo il ventre sui sassi acuminati, senti dietro te un frizzo impertinente; l’attimo più terribile dell’ascesa è superato; tu sei vincitore! Vedi? sotto quest’ultimo dosso raggiunto si spiana scintillante la vedretta di Caspoggio, al di là, fra i sassi, alto, guarda e pare sorridere ai tuoi sforzi e al tuo trionfo il Rifugio Marinelli.

Salve! Salve!

Discendiamo cauti e siamo sul ghiaccio, che si scioglie per il raggio caldo del sole. Quale impressione di frescura! con quanto piacere i piedi nostri s’immergono nella neve, ed imprimono l’orma della scarpa ferrata sui dossetti traditori del ghiaccio; come l’acqua penetra freddissima per i forellini e gli interstizi dei gambali; navighiamo quasi!

Il canonico, per la sua simpatica corpulenza, sprofonda fino a mezza gamba; ma non si lamenta: qui non c’è pericolo, nessuna fenditura s’apre sotto di lui, solo, a tratti, sentiamo scricchiolare la superficie leggera del ghiaccio e lo vediamo mettersi in posizione di salvataggio, portando l’alpenstok, con movimento improvviso e [p. 187 modifica]rapidissimo, ad una perfetta orizzontale e tenendolo rigido, saldo.

Un pensiero si comprende, si legge fra ruga e ruga della sua fronte: “Io cascherò, forse, in un crepaccio; ma questo sostegno batterà contro i due margini, i compagni correranno al tonfo, alle grida, e mi estrarranno rammollito, ma vivo.” Anche la vedretta è superata: si dà l’assalto al dosso roccioso e si giunge trafelati alla capanna, anzi alle capanne, poichè sono due.

La prima piccola, nera per il tempo, bassa, non misura più di quattro metri di lunghezza sopra due o tre di larghezza; la seconda invece, che le sorge allato, è grande due volte e forse più la piccoletta, e l’intonaco nuovo, da cui è rivestita, contrasta singolarmente con il color fosco della compagna.

Se la vecchia capanna potesse parlare, racconterebbe qualcosa delle tormente orrende che si sono scatenate dinnanzi e sopra di essa; se potesse ricostruirci qualcuna delle catastrofi alpine alle quali ha dovuto assistere, la sentiremmo gemere, disperarsi, ma poi narrare la voluttà bianca che la prende, quando la neve la seppellisce e l’abbraccia come un’amante desiosa; fors’anche saprebbe descrivere il tepore che la pervade quando il sole la batte!

Non sembri fittizia la vita ch’io dò alla capanna.

Tutti gli alpinisti, che, dopo ore di solitudini meravigliose, riescono in faccia ad opere umane abbandonate, hanno creduto ritrovare in esse l’anima di coloro che le avevano erette. [p. 188 modifica]

Quel che l’uomo ha lasciato sulla montagna dice al viatore una parola di gioia o di pianto.

Ma la capanna non parla; se ne sta imbronciata e scura; quel: “Salve, hospes” che le hanno scarabocchiato, il più chiaro possibile, a fianco della porta, è una menzogna: la capanna vive di una vita molto diversa da quella che viviamo noi; le abitudini sue, i suoi desideri, i pericoli ch’ella corre, i suoi sogni medesimi, sono troppo diversi dai nostri, o perlomeno dai miei: il suo amore per la solitudine candida non potrà mai ricevere nè cordialmente ospitare l’anima mia, trafitta spesso da un assillo nostalgico, e spesso palpitante, raggiunta la cima di una montagna, per tutti gli affetti, fuorchè per quello grande, assorbitore degli altri, che le dovrebbe infondere la vetta.

Questo forse perchè io non conosco ancora le vere grandi cime.

Il fatto è che la capanna non mi riceve: è ermeticamente chiusa e manca il custode; può darsi che sia andato a caccia di camosci, o abbia intrapresa qualche escursione per conto suo: noi dobbiamo rimanere all’aperto, sotto il sole, in mezzo al vento, sudati e stanchi.

Che si fa?

Entriamo nella capanna maggiore, aperta solo perchè mancano ancora i battenti della porta, e l’esaminiamo; non c’è che l’edificio; si esce per accendere in qualche angolo il fuoco, ci si rasciuga alla meglio, si mangia e poi io e il curato cerchiamo un punto alto per godere quello spettacolo sublime. [p. 189 modifica]

Raggiungiamo, faticosamente, una delle vette basse del Pizzo d’Argento e rimaniamo in contemplazione.

Danna parte i grandi ghiacciai dello Scerscen, dall’altra le nevi immacolate e luminose di Felleria.

Tutte le vette aghiformi che s’avventano contro l’azzurro del cielo, cocuzzoli innominati, spade di perla che fendono lo spazio e l’anima e danno ali possenti alla fantasia; la Sella, il Pizzo, Caspoggio, che strapiombano sullo Scerscen, il canalone ghiacciato del Rosegg, Crest’Atguzza, e specialmente le grandi pianure ad immense onde materiate di ghiaccio, tutte faccettate di brillanti, quasi per magica cristallizzazione, mi trasformano; émpiti di sentimenti nuovi non mai provati, indicibili, m’agitano: la montagna alta ha trovato un adoratore nuovo, un islámita, mi ha conquistato e per sempre.

È così, o montagna!

Ora la mia piccola anima, libera da indecisioni nostalgiche e da terrori, è capace d’abbracciare le tanto diverse bellezze che ti formano, essa che ha retto il mio corpo, fra disagi e pericoli, ti soggioga a sua volta, ti supera; è una vicendevole conquista; io sono per te, ma tu così grande, così bella, tu sei mia, mia!