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gente che ci fu tanto cortese, incominciammo la salita tino alle Forbici.
Io ed il canonico Spini, che va piano, calmo, costante, apriamo la marcia; dietro, a breve distanza, movesi il guardiaboschi col suo Andrino, per ultimo appare ogni tanto, sopra i dossetti, il conico cappello del curato e il berretto alla ciclista di Ottorino.
La via alla bocchetta delle Forbici non è per nulla difficile, è solo molto noiosa: la rende un po’ gradevole la prospettiva di tirar qualche colpo di fucile o di rivoltella contro le martore, zirlanti al sommo delle tane: il guardiaboschi si allontana con la speranza di colpirne qualcuna e noi, ascendendo, ne osserviamo le mosse e speriamo con lui.
Dopo due ore circa di cammino la bocchetta delle Forbici è raggiunta, passata: tutta la comitiva si sdraia a riposare in faccia ad una grande vedretta dello Scerscen, ed a guardar la valle, rocciosa, occupata in alcune parti dalla neve, da laghetti e da pozzanghere che ondeggiano appena, giù, in fondo.
A destra della bocchetta è il sentieruzzo che conduce alla capanna: qui il canonico Spini e l’illustratore osservano con un principio di tremito nell’anima e nel corpo, e s’accende una discussione vivace sulla paura; sulla necessità di recedere dinnanzi un passo difficile, perchè, talvolta, anche la sola visione del pericolo basta a rovinare un organismo e continuare, quando tremano troppo le gambe e gli occhi atterriti si chiudono, sarebbe pazzia.