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Quel che l’uomo ha lasciato sulla montagna dice al viatore una parola di gioia o di pianto.

Ma la capanna non parla; se ne sta imbronciata e scura; quel: “Salve, hospes” che le hanno scarabocchiato, il più chiaro possibile, a fianco della porta, è una menzogna: la capanna vive di una vita molto diversa da quella che viviamo noi; le abitudini sue, i suoi desideri, i pericoli ch’ella corre, i suoi sogni medesimi, sono troppo diversi dai nostri, o perlomeno dai miei: il suo amore per la solitudine candida non potrà mai ricevere nè cordialmente ospitare l’anima mia, trafitta spesso da un assillo nostalgico, e spesso palpitante, raggiunta la cima di una montagna, per tutti gli affetti, fuorchè per quello grande, assorbitore degli altri, che le dovrebbe infondere la vetta.

Questo forse perchè io non conosco ancora le vere grandi cime.

Il fatto è che la capanna non mi riceve: è ermeticamente chiusa e manca il custode; può darsi che sia andato a caccia di camosci, o abbia intrapresa qualche escursione per conto suo: noi dobbiamo rimanere all’aperto, sotto il sole, in mezzo al vento, sudati e stanchi.

Che si fa?

Entriamo nella capanna maggiore, aperta solo perchè mancano ancora i battenti della porta, e l’esaminiamo; non c’è che l’edificio; si esce per accendere in qualche angolo il fuoco, ci si rasciuga alla meglio, si mangia e poi io e il curato cerchiamo un punto alto per godere quello spettacolo sublime.