Iliade (Romagnoli)/Canto XVIII

Canto XVIII

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Omero - Iliade (Antichità)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1923)
Canto XVIII
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     Questi cosí pugnavan: parevano fiamma che avvampi.
E messaggero ad Achille pie’ rapido, Antíloco giunse.
Presso alle navi che alta levavan la prora e la poppa,
ei lo trovò, presago di ciò che pur era seguíto:
5sí che crucciato, andava dicendo al magnanimo cuore:
«Misero me, perché di nuovo gli Achivi chiomati,
tutti sgomenti, dal piano s’addensano sopra le navi?
Deh!, che non abbiano i Numi compiuto per me quel gran lutto
che un dí mi profetò mia madre, quando ella mi disse
10che, me vivente ancora, caduto sarebbe il piú forte
dei Mirmídoni, sotto le mani dei Teucri guerrieri.
Sí certo, è spento il prode figliuol di Menezio! Meschino!
E ben detto gli avevo, che, spenta la fiamma nemica,
tornasse a noi, schivasse col figlio di Priamo la lotta».
     15Mentr’ei questi pensieri volgea nella mente e nel cuore,
ecco, gli giunse vicino di Nestore il fulgido figlio,
lagrime calde versando, gli diede la nuova funesta:
«Ahimè!, figlio del saggio Pelèo, che notizia di lutto
apprendere dovrai da me! Deh, non fosse avvenuto!

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20Pàtroclo spento giace, d’intorno al cadavere ignudo
arde la lotta: ché l’armi cadute son d’Ettore in mano».
     Disse. Ed Achille avvolse di cruccio una nuvola negra:
polvere e cenere prese con ambe la mani dal suolo,
e se le sparse sul capo, bruttandone tutto il bel volto.
25Tutto il nettareo manto fu sparso di cenere negra;
ed ei, l’alta persona distesa in gran tratto di suolo,
giacea, con le sue mani bruttava, straziava le chiome.
Tutte le donne che Achille con Pàtroclo aveva predate,
levarono alte grida, ferite nel cuore; ed uscite
30fuor dalla tenda, tutte d’intorno al figliuol di Pelèo,
si percotevano il seno, mancando a ciascuna le forze.
Lagni dall’altra parte levava di Nestore il figlio,
pianto versava, le mani reggendo ad Achille piangente,
ch’egli temea che la gola segarsi volesse col ferro.
35Orrido pianto levava. L’udí la divina sua madre,
che negli abissi del mare sedea presso il padre vegliardo,
e levò gemiti anch’essa. D’intorno si strinsero a lei
tutte quant’eran le figlie di Nèreo, nel fondo del mare:
erano quivi Azzurra, con Florida e Amicadellonde,
40Vaganegliàntri, Isolana, Veloce, Marina occhiardente,
Rattasulonde, Amicadeilidi, Paludecorrente,
Dolcedimiele, Gaietta, Velocesuiflutti, Miranda,
Donodelmare, Prima, Possente, Trasportosoave,
Vastodominio, Dolcericetto, Fragliuominibella,
45Doride, Tuttoveggente; con esse era pur Galatea
inclita, e Verità, Senzafrode, Bellezzasovrana,
Clímene v’era, e Gioiadelluomo, e Signoradigioia,
e Fulgida, e Amatèa dai riccioli belli, ed Orízia,
e quante v’erano altre Nerèidi nel fondo del mare.

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50Tutta fu piena di loro l’argentea spelonca; ed insieme
si percotevano il seno: principio die’ Teti al lamento:
«Udite, o mie sorelle Nerèidi, e tutte sappiate
chiaro, dal labbro mio, che doglie m’angosciano il cuore.
Ah!, che sciagura per me, generare il migliore dei figli!
55Un figlio ho generato gagliardo ed immune da pecca,
primo fra tutti gli eroi. Crescea che pareva un virgulto;
e poi che lo nutrii, come arbusto sul dorso d’un campo,
ad Ilio io lo mandai, sovresse le navi ricurve,
contro i Troiani a pugnare; né accogliere piú di ritorno
60in patria io lo potrò, nei tetti del vecchio Pelèo;
e pur mentre egli vive, contempla la luce del sole,
deve soffrire; e non posso recarmi a lui presso, aiutarlo.
Ma ora, io vado, il figlio diletto a vedere, a sapere
perché, mentre egli lungi riman dalla zuffa, si cruccia».
     65E, cosí detto, lasciò la spelonca; ed insieme con lei,
mossero tutte l’altre, piangendo; ed i flutti del mare
s’apriano intorno ad esse. Poi, giunte alla fertile Troia,
saliano ad una ad una sul lido, ove fitte le navi
dei Mirmidóni, in secco tratte erano intorno ad Achille.
70A lui, che amaramente piangeva, la madre divina
stette da presso, acuti lamenti levando; e abbracciando
del figlio il capo, queste parole, fra il pianto, gli volse:
«Figlio, che piangi? Che doglia t’è dunque piombata sul cuore?
Dimmelo, non tacere. S’è pure compiuto il tuo voto,
75quello, che, al cielo alzando le palme, invocasti da Giove,
che fosser tutti i figli d’Acaia incalzati alle navi,
che, di te privi, duri volgesser per essi gli eventi!».
     E a lei rispose Achille veloce, con gemiti gravi:
«O madre mia, sí, quello ch’io chiesi, l’Olimpio ha compiuto:

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80ma che gioia è la mia, se Pàtroclo è spento, l’amico
diletto mio, che io pregiavo fra tutti i compagni,
come la vita mia? L’ho perduto, dell’armi superbe
Ettore l’ha spogliato, che morte gli diede, dell’armi
meravigliose, belle, che diedero i Numi a Pelèo,
85quel dí che te, Celeste, gittarono in braccio a un mortale.
Deh!, se tu fossi rimasta vicina alle Ninfe immortali,
e avesse il padre mio sposata una donna mortale!
E invece.... Anche tu devi crucciarti di doglia infinita,
pel figlio tuo che deve morire, che tu non potrai
90rïabbracciare al ritorno: ché vivere piú non voglio io,
né rimaner su la terra, se prima di Príamo il figlio
dalla mia lancia non cada colpito, non sconti la pena:
ch’ei Pàtroclo spogliò dell’armi, il figliuol di Menezio».
     E Teti a lui rispose, di pianto bagnando le ciglia:
95«E dunque, presto, o figlio, per ciò che tu dici, morrai,
poiché il Destino per te dopo Ettore segna la morte».
     E a lei rispose Achille veloce, col cuore in corruccio:
«Súbito, deh!, potessi morir, ché non seppi al compagno
dare soccorso; ed egli caduto è lontan dalla patria,
100e invano attese ch’io giungessi a salvarlo da morte!
Ed ora, poi, non faccio ritorno alla terra paterna,
né a Pàtroclo soccorso saputo ho recar, né ai compagni!
Presso alle navi seggo, disutile peso alla terra,
sebbene tale io sia, quale niun degli Achivi guerrieri
105nelle battaglie, ch’altri mi può superar nei consigli.
Deh!, la contesa andasse distrutta fra gli uomini e i Numi,
distrutta andasse l’ira, che spinge a furore anche il saggio,
che, piú soave assai del miele che stilla dai favi
si espande entro nei petti degli uomini, a guisa di fumo,

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110come or d’ira m’empié Agamennone sire di genti.
Ma or, ciò ch’è passato scordiamo, per quanto ci crucci,
freno poniamo al cuore, se questo è pur d’uopo, nel petto.
Ed ora andrò: ché coglier voglio io chi l’amico m’uccise,
Ettore; e il fato mio saprò sopportar, quando Giove
115voglia che sia compiuto, lo vogliano gli altri Celesti.
Ercole, neppur egli sfuggiva al destino di morte,
sebben diletto egli era su tutti al figliuolo di Crono;
ché a lui la Parca, e d’Era lo sdegno, distrusse la vita.
Ed io pure, cosí, se tale m’aspetta una sorte,
120morir dovrò, giacere. Ma nobile fama ora bramo,
bramo che delle donne Troiane e Dardànidi, alcuna
debba asciugare con ambe le mani le lagrime fitte
sopra le tenere guance, levando alte grida di lutto.
S’accorgeranno allora, quanto io dalla pugna fui lungi.
125Non trattenermi, perciò: non voler ch’io non muova alla pugna».
     E Teti a lui rispose, la Dea dall’argenteo piede:
«Sí, tutto questo è vero, figliuolo. Non è cosa trista
che dai compagni lungi tu tenga l’estrema rovina.
Però, l’armi tue belle si trovano presso ai Troiani,
130l’armi di bronzo abbaglianti: di Priamo il fulgido figlio
sugli omeri le regge, superbo ne va. Ma per poco
pompa dovrà menarne, ché a lui già vicina è la morte.
Ma tu non ti dovrai crucciar nel travaglio di Marte,
prima che gli occhi tuoi veduta non m’abbian tornare.
135All’alba io tornerò dimani, col sole che sorge:
armi ti recherò dalle mani d’Efesto foggiate».
     E, cosí detto, il viso distolse la Diva dal figlio,
alle sorelle marine si volse con queste parole:
«Entro l’immenso grembo del mare immergetevi adesso,

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140sí che vediate il vegliardo marino, e la casa paterna,
e tutto a lui diciate. Frattanto, alle cime d’Olimpo
io vado, e cerco Efesto, l’artefice insigne, se voglia
armi pel figlio mio foggiare, ben salde e lucenti».
     Cosí diceva. E quelle s’immerser nei flutti del mare:
145Teti all’Olimpo ascese, la Dea dall’argentëo piede,
per procurare l’armi ben salde al figliuolo diletto.
     Teti sui rapidi piedi moveva all’Olimpo. E gli Achivi
con infinito tumulto, da Ettore sterminatore
cacciati, a l’Ellesponto pervennero in breve, ai navigli.
150E qui, neppure il corpo di Pàtroclo, il prode scudiere
d’Achille, trarre in salvo potevan dai colpi gli Achivi,
perché raggiunto ancora l’avevano i fanti e i cavalli,
ed Ettore, figliuolo di Priamo, pareva una fiamma.
Tre volte Ettore prode ghermí per i piedi la salma
155ché la voleva strappare, levando ai Troiani grandi urli:
tre volte ambi gli Aiaci, che avean di valore l’usbergo,
lo ricacciarono lungi. Ma ei, di sua forza sicuro,
or si lanciava innanzi nel fiero tumulto, poi stava,
levando fiere grida; né pure la presa lasciava.
160Come i pastori, a notte, nei campi, lontan dalla preda
non valgono a tenere un rosso leone affamato,
cosí gli Aiaci entrambi tentavano invano dal corpo
di Pàtroclo, lontano tenere di Priamo il figlio.
E tratto via lo avrebbe, ne avrebbe riscossa alta gloria,
165se Iride veloce, che piedi ha di vento, discesa
al figlio di Pelèo non fosse d’Olimpo, per dirgli
ch’egli s’armasse; né Giove né altri dei Numi sapeva:
Era l’aveva mandata. Vicino gli stette, e gli disse:
«Sorgi, figliuol di Pelèo, tremendo fra tutti gli eroi,

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170corri a difesa di Pàtroclo. Innanzi alle navi, per lui
arde accanita la zuffa, l’un l’altro si stanno uccidendo,
questi, pugnando a difesa del morto figliuol di Menezio,
ed i Troiani, portare lo vogliono ad Ilio ventosa.
Ettore piú d’ogni altro, di Priamo il fulgido figlio,
175trarlo vorrebbe in Ilio, vorrebbe recidergli il capo,
via dal morbido collo, configgerlo in vetta ad un palo.
Via, non poltrire piú a lungo! Il cuore vergogna ti tocchi,
che Pàtroclo divenga ludibrio dei cani di Troia:
tuo, se fra i morti giungesse sconciato, sarebbe lo smacco».
     180E a lei rispose Achille dai piedi veloci, e le disse:
«Iride, e quale a me degli Dei ti mandò messaggera?».
     Ed Iri a lui rispose, la Diva dai piedi di vento:
«Era mandata m’ha, di Giove l’illustre consorte:
non il figliuolo di Crono lo sa, né alcun altro dei Numi
185ch’ànno dimora sopra l’Olimpo coperto di neve».
     E a lei rispose Achille Pelíde dai piedi veloci:
«Or, come andrò nella zuffa? Mi tengono i Teucri l’armi,
e non consente mia madre ch’io possa affrontare la guerra,
se ritornare prima non l’abbian veduta questi occhi:
190ché mi promise ch’altre armi recate m’avrebbe, d’Efesto;
né so poi di chi altri potrei rivestire buone armi,
se non del grande Aiace lo scudo; ma questi, mi penso,
dev’esser nella mischia, di certo, a pugnare fra i primi,
con la sua lancia, a difesa del morto figliuol di Menezio».
     195E a lui cosí rispose la Diva dai piedi di vento:
«Bene anche noi lo sappiamo, che prese t’han l’armi tue belle:
récati, pur tuttavia, su l’orlo del fosso, e ai Troiani
móstrati, se, per sorte, di te sbigottiti, lasciare

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voglian la pugna, ed abbian respiro i figliuoli d’Acaia,
200per quanto oppressi: poco può dar nella pugna sollievo».
     Iri, dai piedi veloci, partí, come egli ebbe ciò detto.
E Achille surse, amico dei Superi, e gli omeri saldi
gli cinse allora Atena con l’egida ornata di frange,
tutto d’intorno al capo gli avvolse una nuvola d’oro,
205ed una fiamma fece da lui divampare abbagliante.
Come d’una città si leva per l’ètere il fumo,
lungi, da un’isola, cui stretta hanno d’assedio i nemici:
quelli per tutto il giorno si provano in zuffa tremenda
fuor dalle loro mura; ma poi, come il sole tramonta,
210l’un dopo l’altro fuochi sfavillano, ed alta si leva
l’impetuosa fiamma, ché vedan le genti vicine,
se mai recare aiuto potesser coi loro navigli:
tale dal capo d’Achille per l’ètra sorgeva un bagliore.
Mosse dal muro, stette vicino alla fossa, né pure
215si mescolò con gli Achèi: ché seguía della madre il consiglio.
Quivi ristette, e un urlo levò. Gridò Pàllade anch’essa
da un’altra parte, e gittò fra i Troiani un immenso scompiglio.
Come distinta s’ode la voce, se squilla una tromba,
allor ch’è una città recinta da infesti nemici,
220cosí chiara la voce sonò del nipote d’Eàco.
E come gl’inimici udîr quella bronzëa voce,
furono invasi tutti d’orrore: i criniti cavalli
volsero addietro i carri, ché in cuor presentivano i danni,
rimasero percossi gli aurighi, poiché su la fronte
225vider d’Achille il fuoco tremendo che mai non s’estingue,
distruggitore: acceso l’avea l’occhiglauca Atena.
Tre volte il divo Achille levò dalla fossa un grande urlo,
fuggirono a scompiglio tre volte Troiani e alleati.

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E dodici guerrieri qui caddero spenti, fra i primi,
230d’attorno ai carri, all’aste d’attorno; e a loro agio gli Achivi,
tratto di Pàtroclo il corpo lontan dalla furia dei colpi,
sopra un giaciglio lo posero. Intorno gli stetter piangendo
tutti gli amici. E Achille veloce pur ei li seguiva,
lagrime calde versando, poiché vide il fido compagno
235che su la bara giaceva, trafitto dal ferro affilato:
però ch’egli mandato l’aveva col carro e i corsieri
alla battaglia; né piú l’aveva abbracciato al ritorno.
     Ed Era, allor, la Dea veneranda dagli occhi lucenti,
Elio costrinse, contro sua voglia, a tornare nel mare.
240Ed Elio si tuffò, desisteron gli Achivi divini
dalla spietata guerra, dal fiero cozzar della mischia.
     Ed i Troiani anch’essi, lasciata la pugna feroce,
fattisi lungi, dai carri disciolsero i pronti corsieri,
e si riunirono, pria di pensare alla cena, a consiglio.
245E in piedi l’assemblea fu tenuta: ché niuno avea cuore
di star seduto: tutti terrore ingombrava: ché Achille
apparso era, che tanto dal campo rimasto era lungi.
Polidamante, l’accorto figliuolo di Panto, a parlare
prese per primo: ch’ei solo vedeva il passato e il futuro.
250D’Ettore esso era compagno, nati erano entrambi una notte,
ma l’un piú nei consigli valeva, piú l’altro nell’armi.
Questi, pensando al bene, cosí cominciava a parlare:
«Pensate bene a tutto, compagni: ché io vi consiglio
che súbito in città torniam, senza attendere l’alba,
255presso le navi, nel piano: ché lungi siam qui dalle mura.
Sinché fu con l’Atride Agamennone irato quell’uomo,
cosa piú agevole fu combatter coi figli d’Acaia:
allor piacque anche a me, pernottar presso i rapidi legni,

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con la speranza che prender potremmo le rapide navi:
260adesso, invece, troppo temo io pel veloce Pelíde:
tale uno spirito avendo quale ha, tracotante e superbo,
ei non vorrà nel piano restar, dove Achivi e Troiani
vanno con sorte alterna tentando la furia di guerra,
ma la città tenterà di prender, le donne troiane.
265Datemi retta, alla rocca torniamo: ché questo ci aspetta:
ha posto freno adesso la rorida notte al Pelíde;
ma quando sorgerà l’aurora, e recinto dell’armi,
egli si slancerà, se qui pur ci trova, piú d’uno
saprà chi sia: beato sarà chi potrà con la fuga
270salvarsi in Ilio: molti dovranno dei Teucri far sazi
cani e avvoltoi! Deh!, ch’io non debba udir mai tale scempio!
Ora, se pure a malgrado, volete il mio mònito udire,
teniam la notte in piazza raccolte le forze: la rocca
custodiranno le torri, le porte alte, i travi confitti
275sopra le porte, lunghi, di salda compagine, lisci.
Poi, come la prima alba si levi, recinti dell’armi,
sopra le torri staremo: sarà crudel prova per lui,
se dalle navi ei vorrà venire a pugnar sotto il muro:
alle sue navi tornare dovrà, poi che sazi i cavalli
280di scorribande vane saran sotto i valli di Troia;
né il cor gli basterà di spingersi dentro la rocca,
e non l’espugnerà: sarà prima ludibrio dei cani».
     Ma Ettore guerriero, guardandolo bieco, rispose:
«Polidamante, le tue parole mi piacciono poco,
285se vuoi che alla città di nuovo si torni respinti.
Sazi non siete ancora di starvene dentro le mura?
Tempo fu già che tutte le genti, di Priamo la rocca
ricca dicevano d’oro, dicevano ricca di bronzo.

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Ma sono i bei tesori scomparsi oramai dalla casa,
290e in Frigia e ne la bella Meonia van molti dei beni
venduti, ora che Giove possente è crucciato con noi.
Ed ora, poi che il figlio di Crono concesse che gloria
presso le navi io raccolga, che al mare gli Achivi respinga,
stolto, alle turbe tu non porgere tali consigli.
295E già, niuno vorrà darti retta: ché io nol consento.
Ma via, su, tutti quanti facciamo cosí com’io dico:
ora si faccia la cena nel campo, ciascuno al suo posto,
e si sovvenga di fare la guardia, e ciascuno sia desto:
ché se qualcuno dei Teucri si cruccia dei troppi suoi beni,
300li metta insieme, e dia, perché li consumi, alla turba:
meglio che alcuno di loro li goda, e non già qualche Achivo.
Domani, come l’alba sarà, tutti cinti dell’armi,
presso alle concave navi si desti il furore di Marte.
Ché se il divino Achille davvero è vicino alle navi,
305dura sarà la prova per lui, se la cerca: alla fuga
io già non penserò, bensí gli starò faccia a faccia,
sia ch’ei la gran vittoria consegua, o pur ch’io la consegua.
Eníalo è incerto; e spesso chi sta per uccidere, muore».
     Ettore questo diceva, gli fecero plauso i Troiani.
310Stolti! Ché Pallade Atena li aveva sviati dal senno:
ché d’Ettore i consigli lodarono, ed erano tristi,
e niun Polidamante lodò, che parlava pel meglio.
Cosí presero il pasto, restando nel campo. E gli Achivi
piansero Pàtroclo tutta la notte, con alti lamenti.
315E cominciò fra loro l’amaro lamento il Pelíde,
sul seno del compagno stendendo le mani omicide,
gemiti fitti levando: pareva leon generoso,
a cui dal folto bosco rapiti abbia i teneri figli

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un cacciatore di cervi: arriva egli tardi, e si cruccia,
320e va per molte valli cercando le tracce dell’uomo,
se mai lo può trovare: ché acuta lo invade la bile.
Cosí, con fiero lagno, parlava ai Mirmídoni Achille:
«Ahi, che parola vana m’uscí dalle labbra, quel giorno
ch’io, nella casa sua feci cuore a Menezio l’eroe!
325Io gli promisi che a Opunte gli avrei ricondotto suo figlio,
con la sua parte di preda, poiché fosse Troia espugnata!
Ma non vuol tutti Giove compiuti degli uomini i voti.
Vuole il Destino ch’entrambi di sangue arrossiamo la terra,
nella pianura di Troia: poiché neppur me nella casa
330accoglierà di ritorno l’antico guerriero Pelèo,
né Teti madre mia; ma qui giacer devo sepolto.
Pàtroclo, ed ora, poiché dopo te devo andare sotterra,
non ti farò l’esequie, se d’Ettore l’armi ed il capo
prima io non rechi qui, del guerrier che ti tolse la vita.
335E prima, tanta è l’ira che m’arde, dinanzi alla pira
dodici eletti vo’ figliuoli dei Teucri sgozzare.
Tu giacerai frattanto vicino alle concave navi,
e intorno a te le donne troiane e le donne dardanie
lagrime verseranno, gemendo di notte e di giorno,
340quelle che noi conquistammo con dura fatica di lancia,
quando le pingui città degli uomini a sacco ponemmo».
     E, cosí detto, impose Achille divino ai compagni
che senza indugio sul fuoco ponessero un tripode grande,
sí che lavasser le piaghe sanguigne di Pàtroclo. E quelli
345posero un gran bacile da bagno nel fuoco fiammante,
e vi versarono l’acqua, bruciandovi legna di sotto.
Tutta cingeva il fuoco la conca del tripode; e l’acqua
vi si scaldava; e quando bollí dentro il lucido rame,

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ecco, levarono il corpo, con pingue licore d’ulivo
350l’unsero, empieron tutte le piaghe d’unguento novenne.
Poscia lo poser sul letto, distesero un lino sottile
dal corpo ai piedi, e sopra vi posero un candido manto.
E tutta notte poi, d’intorno ad Achille veloce,
i Mirmidóni lamenti levaron su Pàtroclo spento.
     355E Giove ad Era, sua sorella e sua sposa, diceva:
«Era dagli occhi lucenti, compiuto hai pur ciò che volevi:
tornare Achille piediveloce hai pur fatto alla zuffa!
Sono tuoi figli di certo gli Achei dalle fulgide chiome!»
     Ed Era a lui, la Diva dagli occhi fulgenti, rispose:
360«Quali parole mai, prepotente Croníde, hai tu dette?
L’uom contro l’uomo pure riesce a tramare un suo danno,
sebbene sia mortale, sebbene non ha troppo senno:
e come io, che mi vanto fra tutte le Dive l’eccelsa,
per due ragioni, ch’io prima nacqui, e che sono tua sposa,
365di te che tutti i Numi d’Olimpo governi, come io
contro i Troiani ordire non devo malanni, se li odio?».
     Queste parole, dunque, scambiavano l’uno con l’altro.
E Teti pie’ d’argento, pervenne alla casa d’Efèsto,
stellata, eterna, bella fra quante son case dei Numi,
370tutta di bronzo, che aveva costrutta egli stesso, il Pie’ torto.
E lo trovò che sudava, girandosi ai mantici attorno,
che s’affrettava: stava foggiando dei tripodi, venti,
da stare alle pareti d’intorno a una solida stanza.
Sotto a ciascuno, alla base, disposte egli aveva rotelle
375d’oro, perché da sé movesser dei Numi ai convegni,
poi ritornassero a casa da sé, meraviglia a vederli.
Eran sin qui compiuti; ma ancora le fulgide orecchie
non v’erano: ei le stava foggiando, battendone i chiovi.

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Mentre a queste opere intento con grande artificio era il Nume,
380Tètide a lui, la Dea dall’argentëo pie’, giunse presso.
Càrite giunger la vide, la bella dal morbido velo,
che sposa era d’Efesto, l’insigne ambidestro; e le mosse
contro, le prese la mano, le volse cosí la parola:
«Teti dal lungo peplo, qual causa, diletta e onorata,
385te guida al nostro tetto? Di rado venirci solevi!
Vieni prima con me, ché i doni ospitali ti porga».
     E, cosí detto, seco l’addusse la Dea fra le Dive,
sovra un bel trono ornato di borchie d’argento e di fregi,
seder la fece; ed uno sgabello anche v’era pei piedi.
390Efèsto indi chiamò, l’artefice insigne, e gli disse:
«Efèsto, fatti avanti, ché Tètide è qui che ti cerca».
     E a lei rispose allora l’artefice insigne ambidestro:
«Una gran Dea mi dici ch’è giunta, ch’io venero. In salvo
ella mi trasse, quando, caduto dal cielo, io pativo,
395mercè della mia madre, la cagna sfacciata, che volle
farmi sparire, perché ero zoppo; e avrei molto sofferto,
se non m’avessero accolto nel grembo Eurínome e Tèti,
Eurínome, la figlia d’Ocèano, che cinge la terra.
Stetti sette anni con esse, foggiando molte opere belle
400nel bronzo, e fibbie, e curvi bracciali, e collane ed anelli,
entro la cava spelonca: d’intorno, d’Ocèano il flutto
scorrea rimormorando, spumando incessante; né altri
sapea, né fra i Celesti, di me, né fra gli uomini: sola
Tèti sapea, che salvato m’aveva, ed Eurínome sola.
405Ed ora, alla mia casa giunge ella: pertanto conviene
che adesso io renda a Tèti dai riccioli belli il compenso.
Ora, imbandisci tu per essa la mensa ospitale,
ché io metta da parte i mantici e tutti gli arnesi».

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     E, cosí detto, surse di presso all’ancudine il mostro
410gagliardo, e trascinava, movendo, le gracili gambe.
Poscia, lontano dal fuoco i mantici pose e gli arnesi
del suo lavoro, e tutti li chiuse in un’arca d’argento:
con una spugna, poi, si deterse ben bene la faccia,
ambe le mani, il collo gagliardo ed il petto villoso,
415cinse la tunica, strinse lo scettro massiccio, e a pie’ zoppo
fuori dall’uscio mosse: con lui pur movevano ancelle
sculte nell’oro, che in tutto sembravano vive fanciulle,
perché senno entro i petti racchiudono, e forza, e favella,
e sperte sono, in grazia dei Numi, nell’opere belle;
420e ansavan sotto il peso del loro signore. E movendo,
questi, vicino a Teti, sede’ sopra il lucido trono,
e a lei prese la mano, le volse cosí la parola:
«Tètide, qual cagione t’addusse alla nostra dimora,
o riverita e cara? Di rado venirci solevi!
425Dimmi che cosa brami, ch’io bramo di farti contenta,
se pure io far lo posso, se cosa è che compiersi possa».
     E a lui dava risposta cosí, fra le lagrime, Tèti:
«Efesto, e quale mai, fra quante son Dive in Olimpo,
tanti dove’ nel cuore patir luttuosi cordogli,
430quanti ne inflisse a me più che ad altri il figliuolo di Crono?
Me, fra le Dive tutte del mare, die’ sposa a un mortale,
diede al figliuolo d’Eàco Pelèo: sí che, pur contro voglia,
giacer dovei nel letto d’un uomo. Or, da tristi tormenti
nella sua casa oppresso giace egli; ed io nuovi cordogli
435soffro; ché un figlio mi diede; io l’ho generato e cresciuto,
e primo è fra gli eroi; crescea che pareva un virgulto;
e poi che lo nutrii, come arbusto sul dorso d’un campo,
ad Ilio lo mandai, sovresse le navi ricurve,

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contro i Troiani a pugnare; né accogliere piú di ritorno
440in patria io lo potrò, nella casa del vecchio Pelèo;
ed anche mentre ei vive, contempla la luce del sole,
deve soffrire; e non posso recarmi a lui presso, aiutarlo.
E la fanciulla che in premio prescelta i signori d’Acaia
aveano a lui, glie l’ebbe di mano poi tolta l’Atríde;
445e l’alma, egli, pel cruccio di lei si struggeva; e i Troiani
spinsero contro le navi gli Achivi, né uscir dalla stretta
piú li lasciarono. E allora, preghiera gli Achivi vegliardi
a lui volser, promessa gli fecer di fulgidi doni;
ma egli rifiutò di lungi scacciare il malanno,
450e l’armi proprie invece, fe’ cingere a Pàtroclo, e quello
a la battaglia mandò, con lui mandò pur molta gente.
Pugnaron tutto un giorno d’intorno alle porte sceèe;
e certo la città pigliavan quel giorno, se Apollo,
quando avea già molte stragi compiute il figliuol di Menezio,
455non l’uccideva fra i primi, che d’Ettore poi fu la gloria.
Per questo ai tuoi ginocchi vengo ora, se tu pel mio figlio,
che poco viver deve, foggiar mi volessi uno scudo,
ed un crinito elmetto, fimbriati schinieri, ed usbergo:
ché il suo, l’hanno i Troiani predato al suo fido compagno,
460ed egli a terra sta disteso, rodendosi il cuore».
     E a lei cosí rispose l’artefice sommo ambidestro:
«Sta di buon animo, e piú non t’affannino questi pensieri:
cosí lungi potessi tenerlo, nascosto alla Morte
abominata, quando lo giunga il suo fiero destino,
465come egli avrà belle armi, che niuno fra i tanti mortali
potrà restare senza stupor, come le abbia vedute».
     Detto cosí, la lasciò, e ai mantici fece ritorno.
I mantici eran venti: soffiavano dentro i crogiòli,

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fuori spirando soffi gagliardi, piú forti e piú leni,
470ora per secondare la fretta d’Efesto, ora l’agio,
come volea l’Ambidestro, per compiere a punto il lavoro.
Poscia nel fuoco gittò l’indomito bronzo, lo stagno,
e l’oro prezïoso, l’argento gittò: sovra il toppo
quindi piantò l’incudine grande; e il possente martello
475nell’una mano strinse, con l’altra impugnò le tenaglie.
     Ed uno scudo, prima di tutto, fe’, grande e massiccio,
che tutto istorïò, gittandovi un orlo d’intorno,
triplice, luccicante: fregiato era il balteo d’argento.
Aveva cinque strati lo scudo; ed Efesto sovra esso
480avea molti lavori condotti con fine artificio.
     Quivi foggiata aveva la terra ed il cielo ed il mare,
l’infaticato Sole, la Luna che piena rifulge,
e tutte quante le stelle che sono corona del cielo,
le Iädi, le Plèiadi, il fiero gigante Orïone,
485e l’Orsa, che le genti chiamare anche sogliono Carro,
che sovra un punto sempre si gira, guatando Orióne,
e tra le stelle, sola è dai lavacri d’Ocèano immune.
     Poi, vi foggiò due belle città di parlanti mortali.
Erano feste di nozze scolpite nell’una e banchetti.
490Per la città le spose guidavano ai talami, al lume
di scintillanti faci, volando il sonoro imenèo:
e giovinetti in giro tessevano danze, e fra loro
la voce si levava di flauti e di cetre; e le donne
stavano, ognuna sopra la soglia di casa, ammirando.
     495Quindi, una piazza, e in quella gran ressa di genti. Una lite
quivi era sorta: due contendeano fra lor, per la multa
d’un uomo ucciso. L’uno, facendone pubblico giuro,
dicea d’averla tutta sborsata; quell’altro negava;

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e per venirne a fine, chiedevano un arbitro entrambi.
500Questo acclamavano e quello le genti, divise in due parti;
e al popolo gli araldi silenzio imponevano; e i vegli
su levigate pietre sedeano in un sacro recinto,
gli scettri degli araldi canori stringendo nel pugno.
Sorgean, poggiati a questi, dicevano l’un dopo l’altro
505la lor sentenza. E due talenti giacevano in mezzo,
d’oro, per darli a chi pronunciasse il giudizio migliore.
     Stavano all’altra città d’intorno, due schiere nemiche
tutte fulgenti nell’armi. Pendevan le brame fra due:
o saccheggiare, oppure dividere tutte in due parti
510quante ricchezze in sé chiudeva la rocca opulenta.
Ma quelli, ancor non vinti, avevano teso un agguato.
Stavano a guardia sopra le mura le spose dilette,
e i pargoletti figli, con loro anche stavano i vecchi.
Ivano gli altri; e Marte con Pàllade Atena era guida:
515erano entrambi d’oro foggiati, con auree vesti,
erano belli e grandi, recinti dell’armi, e ben chiaro
pareva ch’eran Dei: piú piccole intorno le genti.
Giunti ch’essi erano al luogo che adatto pareva all’agguato,
presso ad un fiume, dove solevano tutti gli armenti
520abbeverarsi, qui si appiattarono, chiusi nel bronzo;
e poste avevan due vedette, a spiare da lungi,
quando vedessero giunger le greggi ed i lenti giovenchi.
Giunsero presto; e due pastori venivan con essi,
sonando la sampogna; né avevan la mente ad insidie.
525Come li videro, quelli balzarono súbito; e presto
predarono gli armenti dei buoi, delle pecore bianche,
predarono le mandre, ne posero a morte i pastori.
Ma, come udîr quel frastuono d’intorno ai giovenchi, i nemici

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che stavano a consiglio seduti, balzâr senza indugio
530sopra i cavalli piú rapidi, accorsero, giunsero presto.
Presso le rive qui del fiume, appiccaron la zuffa,
e l’uno contro l’altro vibravan le bronzee zagaglie.
C’era Contesa, c’era Tumulto, e la Parca funesta,
che un uom teneva, or ora ferito, ed incolume un altro,
535e un altro, ai pie’ ghermito, tirava, già morto, pel campo,
e tutta rossa di sangue sugli omeri aveva la veste.
E s’incontravano come se avessero vita, i guerrieri,
che dalle mani l’uno dell’altro strappavano i morti.
     Poscia, una molle maggese vi finse, una fertile terra,
540ampia, tre volte arata. Volgevano i bovi aggiogati
molti aratori in essa, movendo da un capo ad un altro.
E quante volte, tornando, giungevan del campo al confine,
tante di contro ad essi facevasi un uomo, e una coppa
di vin dolce porgeva: sicché, ritornavano ai solchi,
545desiderosi di giungere al termine ancor del maggese.
E nereggiava dietro la terra, ed arata sembrava,
sebbene fosse d’oro: prodigio a vedere stupendo.
     Quindi, un podere vi finse regale. Tagliavan le spighe
due mietitori, in pugno stringendo le falci affilate.
550Ed i mannelli, qui, fitti fitti cadean lungo il solco,
ed altri i legatori stringevan coi vétrici. E appunto
i legatori eran tre, che stavan lí presso; e ragazzi
stavano dietro, e i mannelli recavano via tra le braccia,
senza interrompersi mai. Fra loro, impugnando lo scettro,
555stava in silenzio il re, sopra un solco, e gioiva nel cuore.
Sotto una quercia, araldi, lí presso, ammannivano il pranzo.
Un gran bove immolato avevano; e intanto le donne
sopra le carni molta spargevano bianca farina.

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     Quindi, una vigna tutta di grappoli carica finse.
560La bella vigna, d’oro, ma i grappoli v’erano neri;
ed era d’ogni parte sorretta da pali d’argento,
ed un fossato intorno di cíano, di stagno un recinto
anche vi finse. Solo correva un sentier per la vigna:
i portatori, quando mieteano, passavan per quello;
565e verginette, e con esse fanciulli di spirito gaio,
entro cestelli ad intreccio portavano i grappoli dolci.
Ed un fanciullo, stando fra lor, con la cétera arguta
soavemente sonava, cantando il bell’inno di Lino,
con delicata voce: movendosi gli altri in misura,
570con canti e liete grida seguíano, coi guizzi dei piedi.
     Ed un armento finse di buoi dalle corna lunate.
I bovi, alcuni d’oro foggiati, ed alcuni di stagno,
fuor dalla stalla, al pascolo uscivano in furia, mugghiando,
lungo un sonante fiume, vicino alle mobili canne.
575Quattro pastori d’oro schierati eran presso i giovenchi,
e nove cani, dietro, movevano i piedi veloci.
E due leoni orrendi, piombando sui primi giovenchi,
avean ghermito un toro mugghiante. Con alti muggiti
quello era tratto; e dietro giungevano i cani e i pastori.
580Ma, del gran toro avendo le fiere squarciate le membra,
l’entragne e il negro sangue lambivano; e invano i pastori.
spingevan contro loro, aizzavano i cani veloci:
ché non osavano quelli coi morsi affrontare i leoni,
ma li schivavano; e solo levavan da presso i latrati.
     585E un pascolo anche finse l’artefice sommo ambidestro,
entro una bella vallèa, con gran copia di pecore bianche,
e stalle; e riparati da tetti, recinti e capanne.
     Ed una danza finse l’artefice sommo ambidestro,

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simile a quella che un dí, nell’ampie contrade di Creta,
590Dèdalo un giorno apprestò per la bella ricciuta Arïanna.
Quivi fanciulli danzavano, e vergini molto bramate,
che l’uno all’altra il polso stringevano, presso la palma:
quelle, di vesti cinte sottili, di tuniche questi
bene intessute, nuove, che ancora stillavano d’olio:
595aveano cinta quelle di belle corone la fronte,
d’oro pendeano spade a questi dai baltei d’argento.
E questi, ora giravano svelti sui rapidi piedi,
agilemente, come fra mano l’agevole ruota
prova il vasaio, stando seduto, se rapida scorre,
600or gli uni verso gli altri correvano, in fila disposti;
e molta turba stava d’intorno all’amabile danza,
ché ne traeva diletto. Fra loro, un cantore divino
stava suonando la cetra. Prendendo le mosse dal canto,
due giocolieri nel mezzo volgevansi come palèi.
     605Poi, l’Ambidestro, all’orlo estremo del solido scudo,
attorno attorno, finse la possa d’Ocèano grande.
     E poi ch’ebbe costrutto lo scudo grande e robusto,
l’usbergo costruí, piú lucente del raggio del fuoco,
l’elmetto costruí ben saldo, aderente alle tempie,
610istorïato, bello, l’ornò con un aureo cimiero.
Infine, costruí gli schinieri, d’agevole stagno.
Poi ch’ebbe tutte l’armi costrutte l’insigne Ambidestro,
le prese, ed alla madre d’Achille dinanzi le pose.
Ed ella si lanciò dalle cime nevose d’Olimpo,
615come sparviere, l’armi recando fulgenti d’Efesto.