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110-139 CANTO XVIII 147

110come or d’ira m’empié Agamennone sire di genti.
Ma or, ciò ch’è passato scordiamo, per quanto ci crucci,
freno poniamo al cuore, se questo è pur d’uopo, nel petto.
Ed ora andrò: ché coglier voglio io chi l’amico m’uccise,
Ettore; e il fato mio saprò sopportar, quando Giove
115voglia che sia compiuto, lo vogliano gli altri Celesti.
Ercole, neppur egli sfuggiva al destino di morte,
sebben diletto egli era su tutti al figliuolo di Crono;
ché a lui la Parca, e d’Era lo sdegno, distrusse la vita.
Ed io pure, cosí, se tale m’aspetta una sorte,
120morir dovrò, giacere. Ma nobile fama ora bramo,
bramo che delle donne Troiane e Dardànidi, alcuna
debba asciugare con ambe le mani le lagrime fitte
sopra le tenere guance, levando alte grida di lutto.
S’accorgeranno allora, quanto io dalla pugna fui lungi.
125Non trattenermi, perciò: non voler ch’io non muova alla pugna».
     E Teti a lui rispose, la Dea dall’argenteo piede:
«Sí, tutto questo è vero, figliuolo. Non è cosa trista
che dai compagni lungi tu tenga l’estrema rovina.
Però, l’armi tue belle si trovano presso ai Troiani,
130l’armi di bronzo abbaglianti: di Priamo il fulgido figlio
sugli omeri le regge, superbo ne va. Ma per poco
pompa dovrà menarne, ché a lui già vicina è la morte.
Ma tu non ti dovrai crucciar nel travaglio di Marte,
prima che gli occhi tuoi veduta non m’abbian tornare.
135All’alba io tornerò dimani, col sole che sorge:
armi ti recherò dalle mani d’Efesto foggiate».
     E, cosí detto, il viso distolse la Diva dal figlio,
alle sorelle marine si volse con queste parole:
«Entro l’immenso grembo del mare immergetevi adesso,