Il treno volante/XVI
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XVI
Verso il Tanganika
Il leone a buon diritto è stato chiamato il re degli animali e anche il re delle foreste, ed infatti è la fiera più coraggiosa e maestosa che vi sia sulla terra.
Esso non è il più grande fra gli animali; è invece tra i più forti e anche tra i più pericolosi, perchè con un solo colpo della sua coda può uccidere un cacciatore.
Il leone che stava per affrontare il fuoco dei due europei e dei due arabi, era uno dei più grossi della specie, misurando quasi tre metri di lunghezza e uno e mezzo di altezza. La sua giubba nerastra era folta e gli dava un aspetto imponente.
Quasi si fosse accorto della presenza dei suoi avversari, si era subito volto verso il baobab, sferzandosi i fianchi con la coda e squassando la folta giubba.
— Che ci abbia veduti? — chiese Ottone.
— Forse ci avrà sentiti al fiuto — rispose lo sceicco, la cui voce tremava.
— Posso tirare?
— No, aspettate che si avvicini maggiormente; per ora è ancora troppo lontano.
Il leone, piantato fieramente in mezzo alla radura, continuava a guardare il baobab, dando qualche segno d’impazienza.
Forse stava per avanzarsi, quando la sua attenzione fu attirata da un lieve stormire di rami. La povera giraffa, spaventata, stava per aprirsi il passaggio fra i cespugli e affidarsi alla rapidità delle proprie gambe.
Se riusciva ad evitare lo slancio del leone poteva ritenersi salva, possedendo dei garretti solidi che sfidano quelli dei migliori cavalli.
Il leone, avvertendo il fremere dei rami, si era voltato rapidamente, poi aveva preso quella posizione che è familiare ai felini, quando si preparano a slanciarsi.
La giraffa lo aveva scorto, essendo più alta dei cespugli che la nascondevano. Sentendosi perduta, con un salto straordinario varcò le piante e si slanciò a tutta velocità verso il bosco, passando a cinquanta metri dal baobab.
Il leone spiccò due salti, poi col terzo piombò addosso alla fuggiasca, cadendole sulla groppa.
In quello stesso momento quattro colpi di fucile rintronarono nella foresta. La giraffa, colpita da qualche palla, cadde, rovesciando al suolo il leone, poi si rialzò fuggendo velocemente in mezzo agli alberi.
Anche il leone si era alzato, ruggendo spaventosamente. Doveva essere stato colpito da più palle avendo una gamba fracassata e la criniera lorda di sangue.
Invece di fuggire si era voltato verso il bosco mostrando i denti e ruggendo.
— Un’altra scarica! — gridò Ottone, puntando il fucile.
Il leone, vedendosi minacciato, saltò innanzi.
Nel medesimo istante un altro ruggito si udì dalla parte dello stagno.
— Ecco il secondo leone! — esclamò lo sceicco, con voce tremante.
— Gli daremo il benvenuto come si merita — rispose Ottone.
Mirò il primo leone già ferito e fece fuoco alla distanza di quindici passi.
La fiera cadde nuovamente; poi, raccogliendo le ultime forze, si slanciò verso il baobab. Un secondo colpo di fucile, sparatole contro da El-Kabir, la fulminò a mezza via; e il bellissimo animale s’abbattè al suolo immoto.
Era appena caduto, quando i cacciatori videro giungere il secondo leone. Faceva salti immensi e ruggiva potentemente.
Vedendo il compagno morto, si scagliò contro il baobab e con un salto meraviglioso si aggrappò all’estremità d’un ramo, a soli quattro passi dallo sceicco.
Questi, pazzo di terrore, si lasciò cadere al suolo. I due europei e l’arabo invece avevano puntate le armi, facendo fuoco contemporaneamente.
Il leone cadde per non più risollevarsi. Aveva ricevuto tre palle sul petto.
— Evviva! — gridò Ottone, lasciandosi cadere al suolo.
— Vittoria! — urlò Matteo.
Lo sceicco si era rialzato e saltava intorno ai leoni come impazzito.
— Ah, questi bianchi, questi bianchi! — ripeteva. — Chi potrà eguagliarli?
— Siete contento? — chiese Ottone.
— E me lo domandate! Voi ci avete liberati da un grande pericolo, forse non minore dell’altro. Ora le nostre bestie potranno venire a pascolare liberamente sul margine della foresta.
— Torniamo — disse Ottone. — Ora che la nostra caccia è finita, non ci rimane che partire.
— Partite? — chiese lo sceicco con dolore.
— Non possiamo trattenerci più a lungo — disse Ottone. — Abbiamo già perduto troppo tempo.
— Io avrei voluto far svolgere una festa in vostro onore.
— Ce la darai al nostro ritorno.
— Ripasserete di qua?
— Te lo promettiamo.
Gettarono i due leoni uno a fianco dell’altro, essendo troppo pesanti per poterli portare, quindi lasciarono la foresta dirigendosi verso la città.
Vi giunsero verso l’una del mattino. Tutti gli abitanti dormivano; solamente alcuni guerrieri aspettavano il loro ritorno presso il tembè, come viene chiamata la capanna dello sceicco.
I due europei ed El-Kabir accettarono una cena offerta dall’arabo, e alcune armi del paese, due superbi denti d’elefante e alcune zucche piene di birra; poi ai primi albori salirono sul pallone, accompagnati da numerosi dignitari e da parecchi guerrieri.
Heggia aveva già accesi i motori e messe in moto le eliche.
Gli aeronauti fecero liberare l’àncora, salutarono lo sceicco ed i suoi dignitari con una scarica di fucili, poi s’innalzarono lentamente, passando sopra la città ancora addormentata.
— In viaggio per Tanganika — disse Ottone, allegramente.
— E apriamo bene gli occhi — disse El-Kabir.
— Perchè dite questo? Quali pericoli ci possono minacciare se Altarik è lontano?
— Non è l’arabo per ora che può insidiarci.
— E chi dunque?
— Credete proprio che i guerrieri di Nurambo si siano allontanati? Io ho i miei dubbi. Guardate verso l’ovest; non vedete nulla?
Ottone e Matteo guardarono nella direzione indicata tra il verde cupo delle foreste che si estendevano ad occidente di Mongo e scorsero indistintamente una grande quantità di punti luminosi e così piccoli da poterli scambiare per sciami di lucciole.
— Che cosa saranno? — domandò Ottone con inquietudine.
— Un accampamento, ne sono certo — rispose l’arabo.
— Di guerrieri negri?
— Sì, gli uomini di Nurambo vorranno sapere con quale bestia hanno da fare.
— Ci terremo alti, ecco tutto.
— Dietro quel primo campo ne troveremo degli altri — disse El-Kabir. — Le terre che ora attraverseremo sono soggette a quel famoso monarca.
— Sicchè noi troveremo dappertutto popolazioni ostili — disse Matteo. — Da quando eravamo sul fiume Wami, vi ricordate, da quando gli arabi e i negri attaccarono il Germania con un fuoco di fila, è un succedersi di attacchi da parte di questi selvaggi.
— La notizia della nostra comparsa o meglio della nostra macchina volante, a quest’ora si sarà sparsa dappertutto. Voi non potete immaginare con quale incredibile rapidità qui si propaghi una notizia.
— To’! Udite?
Fra il silenzio della notte s’udiva, in diverse direzioni, il rullare di quei grossi tamburi di legno, scavati nel tronco d’un albero, che sono usati dalle popolazioni dell’Africa centrale.
— Che ci abbiano scorti? — chiese Ottone.
— Sì, e ci segnalano dappertutto. Questi tamburi li udremo suonare un bel pezzo.
— E noi ci guarderemo dallo scendere.
— La nostra provvista di acqua è scarsa — disse il greco. — Se il vento si mantiene debole saremo forzati a rinnovarla.
— Abbiamo la birra.
— Non basterà fino al nostro arrivo al lago.
— Cercheremo di scendere in qualche luogo deserto.
— Sì, se ne troveremo — concluse l’arabo.
Mentre il Germania, spinto da un vento debolissimo, continuava ad avanzarsi verso occidente, tenendosi ad un’altezza di centocinquanta metri, sotto i boschi si udivano incessantemente rullare i tamburi.
Di quando in quando si levavano verso il cielo ondate di urli e si scorgevano nel buio improvvisi fiammeggiamenti di torce e di falò.
Il Germania era stato segnalato e le numerose tribù dell’Ukonongo, aiutate dai guerrieri di Nurambo, si preparavano a dargli la caccia.
Il treno aereo non poteva sfuggire agli sguardi degli abitanti.
Essendo il cielo purissimo e brillando la lima in tutto il suo splendore, esso era chiaramente visibile.
Il Germania passava in quel momento sopra alcuni boschi formati da baobab immensi, i cui rami sfioravano talvolta l’estremità della piattaforma. Continuando il condensamento del gas, il treno aereo aveva continuato a scendere fino a trovarsi a soli cinquanta metri dal suolo.
Ottone stava per ordinare a Heggia di gettare alcuni cilindri vuoti per alleggerire il treno ed innalzarlo di qualche centinaio di metri, quando urla acute scoppiarono proprio sotto la piattaforma.
Quasi nello stesso momento il Germania si abbassò bruscamente, urtando contro i rami di un baobab enorme.
— Siamo assaliti! — gridò Heggia. — I negri si sono aggrappati alla nostra piattaforma.
— Aspetta — disse Ottone.
Scavalcò il parapetto e tenendosi attaccato ad una corda scaricò i sei colpi della sua rivoltella, mentre Matteo aiutato dall’arabo lasciava cadere una cassa pesantissima ripiena di gallette e di conterie che dovevano servire di regalo ai potenti negri.
Il Germania si rialzò subito, non però in proporzione al peso di cui era stato alleggerito.
In mezzo ai rami del baobab, si udivano urlare i negri; e frecce e lance venivano scagliate in aria, colpendo la superficie inferiore della piattaforma.
Matteo e anche l’arabo avevano scaricato le loro rivoltelle, mentre Heggia gettava giù una seconda cassa contenente utensili di cucina e vestiti.
Questa volta il Germania fece uno sbalzo altissimo. Ottone, che si era nuovamente calato fuori dal parapetto, aveva veduto una forma umana abbandonare la piattaforma e scomparire in mezzo ai rami del baobab.
— Cos’è avvenuto? — chiese Matteo, vedendo che il treno continuava ad innalzarsi con velocità straordinaria.
— Un negro s’era aggrappato alla piattaforma e poi si è lasciato cadere — rispose Ottone, rientrando. — Siamo ben alti.
— Cinquecento metri, e il Germania sale ancora.
— Sfido io, abbiamo gettato per centocinquanta chilogrammi di roba!
— E quanti negri accoppati!
— Un bel numero di certo. D’ora innanzi bisogna diffidare degli alberi.
— Quei bricconi di negri avevano sperato di catturarci.
— Fortunatamente avevamo altri oggetti da gettare — disse l’arabo.
— Che forse avremmo rimpianti — disse Ottone.
Il Germania, giunto a mille e cinquecento metri, accelerò la marcia; aveva trovata a quell’altezza una corrente d’aria molto più rapida e anche questa volta favorevole, soffiando dall’est all’ovest.
A quell’altezza si distingueva solamente una immensa distesa quasi nera, formata dai boschi e verso il nord la piccola striscia d’argento di un fiume, forse l’Ugalla che è un tributario del lago Tanganika.
Gli aeronauti, ormai certi di non venire più disturbati, si sdraiarono sui materassi, mentre Heggia, che aveva dormito quasi tutta la giornata, si metteva in sentinella dinanzi alla piattaforma.
Quando si svegliarono era quasi mezzanotte. Il Germania, in causa della dilatazione del gas, si era innalzato ancora, toccando i duemila metri.
Da quell’altezza gli aeronauti potevano abbracciare un immenso spazio. Si vedevano montagne, colline, boscaglie, praterie, fiumi e borgate in gran numero, disperse specialmente verso l’ovest. Il Tanganika però non si discerneva ancora, nonostante la sua ampiezza considerevolissima.
Dalla terra salivano rumori confusi, poichè i suoni si propagano a grande altezza quando l’aria è tranquilla. Sopra tutti quei rumori dominava ancora la musica incessante dei tamburini.
— Continuano a segnalarci — disse El-Kabir.
— Quanta ostinazione in quei negri! — disse Ottone. — Che ci credano uomini discesi dal cielo?
— O dei nemici che vanno in cerca del sole per spegnerlo? — corresse Matteo, ridendo.
— È probabile — rispose l’arabo.
— Li sfido a prenderci.
— Quando avremo attraversato il lago, non udremo più il tamburo. L’impero di Nurambo non si estende fino sull’altra riva.
— Che si siano uniti anche gli uomini di Karema? — chiese Matteo. — Tu mi hai detto che questo re tiene le rive meridionali del lago.
— Karema e Nurambo sono troppo nemici per unirsi.
Sedettero intorno alla cassa per far colazione. Heggia, durante il sonno dei viaggiatori, aveva uccisa una delle due capre e ne aveva messa mezza allo spiedo.
Dopo la colazione, Ottone rilevò sul sestante la latitudine e la longitudine; essendo proprio il mezzodì l’operazione gli riuscì facile.
— Non siamo che a settanta miglia dal lago — disse. — Se il vento dura, fra tre ore vi saremo.
— E noi siamo discesi di cinquecento metri in poche ore — disse in quel momento Matteo. — Non te ne sei accorto, Ottone?
— Di cinquecento metri! — sciamò il tedesco precipitandosi verso il barometro.
— E scendiamo ancora con notevole celerità — disse Matteo.
— Da che cosa può dipendere questa discesa? — si chiese Ottone, con inquietudine. — Non è naturale, avendo noi gettato quasi cinquanta chilogrammi di zavorra.
— Che i negri ci abbiano guastati i palloni? — disse El-Kabir. — Ho veduto molte lance e molte frecce salire in alto.
— Temo che voi abbiate ragione — disse Ottone. — Vediamo.
Alzò gli occhi, osservando attentamente l’involucro che avvolgeva tutto lo scheletro del treno aereo e vide, presso i palloni della parte anteriore, tre strappi che parevano prodotti da colpi di lancia. Il brav’uomo impallidì.
— Ci hanno guastato di certo alcuni palloni — disse. — Il gas sfugge; non ne avvertite l’odore?
— Sì, l’idrogeno sfugge — disse Matteo.
— La cosa è grave? — chiese El-Kabir.
— Non molto grave, tuttavia mi rincrescerebbe assai — rispose Ottone. — Anche se avessero rovinati quattro o cinque palloni, gli altri basterebbero a tenere il dirigibile. Il male è che bisognerebbe gonfiare gli aerostati di punta e di coda e questa operazione non si può fare che in terra.
— Tutto il paese è in allarme — disse Matteo.
— Lo so, e scendendo correremmo il pericolo di farci catturare dai negri. È necessario attraversare il lago o scendere su qualche isola. Ve ne sono nel Tanganika?
— Sì, e parecchie — rispose l’arabo.
— Tutte abitate?
— No, ve ne sono anche di deserte.
— Scenderemo su una di quelle — disse Ottone.
— Potremo mantenerci in aria fin là? — chiese Matteo.
— Abbiamo molte cose, quasi inutili, da gettare ancora — rispose Ottone. — Sacrificheremo tutto pur di mantenerci in aria.
— E ci rimarrà gas sufficiente per tornare e caricare il tesoro e anche il prigioniero?
— Abbiamo ancora due cilindri intatti e uno mezzo vuoto.
— Se quel cane di Sokol non avesse lasciato sfuggire l’idrogeno! — esclamò Matteo con ira.
— Quello che rimane basterà — disse Ottone. — Oh!
— Cosa avete? — chiese El-Kabir.
— Vedo una specie di nebbia delinearsi verso l’ovest.
— Ed io vedo una grossa borgata — disse Matteo.
— Signori — disse l’arabo, — quella nebbia è il lago.
— Il Tanganika? — chiesero Matteo e Ottone con gioia.
— Sì.
— E quella borgata?
— È Karema, ne sono certo, una delle più importanti del Tanganika.
— Heggia — disse Ottone, — stura una bottiglia di sciampagna e brindiamo al lago.
Mezz’ora dopo il Germania, spinto da un buon vento, si abbassava verso il lago, a sette miglia da Karema.