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Ottone, con inquietudine. — Non è naturale, avendo noi gettato quasi cinquanta chilogrammi di zavorra.

— Che i negri ci abbiano guastati i palloni? — disse El-Kabir. — Ho veduto molte lance e molte frecce salire in alto.

— Temo che voi abbiate ragione — disse Ottone. — Vediamo.

Alzò gli occhi, osservando attentamente l’involucro che avvolgeva tutto lo scheletro del treno aereo e vide, presso i palloni della parte anteriore, tre strappi che parevano prodotti da colpi di lancia. Il brav’uomo impallidì.

— Ci hanno guastato di certo alcuni palloni — disse. — Il gas sfugge; non ne avvertite l’odore?

— Sì, l’idrogeno sfugge — disse Matteo.

— La cosa è grave? — chiese El-Kabir.

— Non molto grave, tuttavia mi rincrescerebbe assai — rispose Ottone. — Anche se avessero rovinati quattro o cinque palloni, gli altri basterebbero a tenere il dirigibile. Il male è che bisognerebbe gonfiare gli aerostati di punta e di coda e questa operazione non si può fare che in terra.

— Tutto il paese è in allarme — disse Matteo.

— Lo so, e scendendo correremmo il pericolo di farci catturare dai negri. È necessario attraversare il lago o scendere su qualche isola. Ve ne sono nel Tanganika?

— Sì, e parecchie — rispose l’arabo.

— Tutte abitate?

— No, ve ne sono anche di deserte.

— Scenderemo su una di quelle — disse Ottone.

— Potremo mantenerci in aria fin là? — chiese Matteo.

— Abbiamo molte cose, quasi inutili, da gettare ancora — rispose Ottone. — Sacrificheremo tutto pur di mantenerci in aria.

— E ci rimarrà gas sufficiente per tornare e caricare il tesoro e anche il prigioniero?

— Abbiamo ancora due cilindri intatti e uno mezzo vuoto.

— Se quel cane di Sokol non avesse lasciato sfuggire l’idrogeno! — esclamò Matteo con ira.