Il tesoro del presidente del Paraguay/26. L'estancia abbandonata

26. L'estancia abbandonata

../25. Il gaucho Ramon ../27. Ancora i patagoni IncludiIntestazione 9 febbraio 2018 75% Da definire

25. Il gaucho Ramon 27. Ancora i patagoni


[p. 225 modifica]

XXVI.

L’estancia abbandonata.


L
e estancias delle pampas consistono ordinariamente in un grande recinto formato da tronchi d’alberi ben uniti, onde potere, in caso di attacco, opporre una valida resistenza agli assalti degli Indiani, e in una o due capanne di mattoni cotti al sole e qualche volta di semplici frasche, che servono di abitazione ai puesteros, o pastori.

Si trovano disseminate in non piccolo numero sul territorio dipendente dalla Repubblica Argentina, ma divise da moltissime leghe e qualche volta tanto lontane dai centri abitati, da non avere che rarissimi contatti con altri esseri viventi. Servono di ricovero alle numerose pecore, ai buoi e ai cavalli dei grandi proprietari, i quali talvolta possiedono parecchie migliaia di animali, affidati alla custodia di pochi pastori, che ordinariamente sono baschi, o tedeschi, o alsaziani, ai quali corrispondono una paga di sessanta lire mensili, oltre una certa provvista di matè, di zucchero, di rhum e di candele.

Le occupazioni di questi puesteros, chiamati anche corrales, si limitano al taglio della lana, che poi rinchiudono in sacchi per consegnarla al catapaz del padrone, all’allevamento degli animali e alla difesa di questi contro i ladroni delle pampas, o contro gli assalti dei coguari e dei giaguari. [p. 226 modifica]

L’estancia che stavano per occupare i fuggiaschi, non differiva molto dalle solite. Era però piccola, avendo un recinto limitato, e conteneva una sola capanna costruita con mattoni cotti al sole e in parte sfondata.

All’ingiro non si scorgevano che degli ammassi di sterco, alcuni carcami di pecore, un carro che pareva avesse sostenuto un furioso assalto, a giudicarlo dalle sue tavole squarciate e dalla sua coperta sventrata, e alcuni teschi di buoi, che parevano avessero servito di sedili ai puesteros.

Nessun’anima vivente nè all’esterno nè all’interno, eccettuati alcuni chimangos, certi uccelli amanti delle carogne, che stavan sonnecchiando indolentemente sulla cima della capanna.

Ramon, dopo essersi assicurato con una rapida occhiata che nessun indiano si trovava nascosto nel recinto, si avanzò fin presso la capanna, poi balzò a terra, invitando i compagni a fare altrettanto.

Tenendo sempre il trombone in mano, fece il giro della catapecchia con molta precauzione, poi entrò, tenendo l’arma tesa. Visto che l’interno era affatto vuoto, si rassicurò e, volgendosi verso i compagni, disse:

— Siamo in casa nostra.

— Non c’era bisogno di tante precauzioni, — disse Cardozo: — chi poteva occupare questa catapecchia?

— Dagli Indiani si può aspettare qualunque sorpresa, — rispose il gaucho. — Nella pampa la prudenza non è mai troppa.

— È vero, — affermò il mastro.

— Ma dove saranno fuggiti i proprietari di questo recinto? — chiese Cardozo.

— Non ne so più di voi, — rispose Ramon.

— Che abbiano avuto con loro delle pecore?

— Forse delle migliaia.

— E dove saranno ora?

— Probabilmente disperse per la prateria.

— Qualche altro proprietario le farà sue allora.

— V’ingannate, Cardozo, — disse il gaucho. — Gli [p. 227 modifica]animali delle estancias, siano cavalli, buoi o pecore, portano tutti una marca, che non è sconosciuta ai grandi allevatori. I primi la portano impressa sulla pelle, e si fa con un ferro rovente, e le pecore sulle orecchie, onde non guastare la loro lana, che, come voi già saprete, è molto pregiata sui mercati argentini. Queste marche vengono poscia depositate presso le autorità argentine e sono una garanzia pei proprietari, che più nulla hanno da temere.

— È vero, — disse Diego. — Nessun proprietario ardirebbe porre le mani su di un animale che porta una marca appartenente ad un altro.

— I proprietari di questa estancia hanno adunque la speranza di ricuperare un giorno i loro armenti.

— Sì, Cardozo, se non cadono però fra le mani degli Indiani, — disse Ramon.

— Quando voi siete venuto qui, avete trovato degli animali? — chiese il mastro al gaucho.

— Un centinaio di buoi, che erano ritornati senza dubbio da pascoli lontani.

— Forse gli stessi che lanciaste contro di noi?

— Sì, mastro, — rispose Ramon sorridendo. — Mi avevano seguìto, e io ne ho approfittato per tentare di sbaragliare l’avanguardia dei Tehuels, onde facilitarvi la fuga.

— Ma come avevate saputo che noi eravamo nelle mani di quei pagani? — chiese Cardozo.

— Sì, sì, narrate, — disse il mastro, accomodandosi sul cranio di un bue.

— Vi ricorderete senza dubbio di quella terribile notte in cui ci si diede la caccia.

— Non l’ho scordata, — rispose Diego. — Carramba! Che brutta notte!

— Io era fuggito verso l’est, inseguito da una dozzina di Patagoni, che mi lanciavano dietro delle bolas per storpiarmi il cavallo e per fracassarmi il capo. Non so quante miglia percorsi, abbattendo di quando in quando qualche inseguitore a colpi di trombone, quando mi trovai d’improvviso dinanzi al Rio Negro. [p. 228 modifica]

«Lo attraversai e mi rifugiai sulla riva opposta, dove mi nascosi in mezzo a dei fitti cespugli. Credevo di essermi assai allontanato dal luogo dove avevo lasciato voi, quando invece mi accorsi di trovarmi a poche centinaia di passi dall’accampamento dei Tehuels.

«Ignorando cosa fosse avvenuto dei miei compagni, stetti nascosto, e all’indomani, ai primi albori, scorsi i Patagoni attraversare il fiume assieme con voi.

— Ah! Voi eravate a pochi passi da noi? — chiese il mastro.

— Sì, e vi distinsi perfettamente, legato in groppa ad un cavallo. Cardozo era portato da due uomini di statura gigantesca.

— È vero, — disse il mastro.

— Non potendo venire in vostro soccorso, riattraversai il fiume onde cercare Pedro e concertarmi con lui per la vostra liberazione. Ma, ohimè! Il mio povero fratello era caduto sotto i colpi dei nemici e trovai il suo cadavere semidivorato dai giaguari della pampa.

— Infelice! — esclamarono Diego e Cardozo profondamente commossi.

— Seppellii il povero Pedro, — continuò il gaucho — e mi misi in traccia di aiuti, risoluto a strapparvi dalla prigionia. Sapendo che qui un tempo esisteva una estancia, mi diressi a questa volta: ma i puesteros, spaventati forse dall’insurrezione dei pampas, erano fuggiti.

«Trovati i buoi, discesi verso il sud, e vi incontrai coll’avanguardia. Voi sapete dei miei tentativi, che non riuscirono che in parte; ma vi giuro che non vi avrei abbandonato, avessi anche dovuto affrontare da solo quelle canaglie.

— Siete un bravo compagno, Ramon, — disse il mastro, stringendogli vigorosamente le mani. — Noi tutti vi ringraziamo di quanto avete fatto per la nostra liberazione.

— Bah! Non parliamone più, — disse il gaucho. — Ora pensiamo a procurarci dei cavalli, e poi cercheremo di guadagnare la frontiera del Chilì, che non dev’essere lontana più di sei o sette giorni di marcia.

— Cosa dobbiamo fare intanto? [p. 229 modifica]

— Voi e Cardozo batterete i dintorni onde procurarci della selvaggina, il vostro compagno rimarrà a guardia dell’estancia, e io andrò in traccia dei cavalli.

— Sperate di trovarne?

— Ne troverò: siate certo. Se occorre, mi spingerò assai lontano, verso il lago Urre, sulle cui rive vivono delle numerose bande di cavalli selvaggi.

— All’opera dunque, — disse il mastro.

— Sì, affrettiamoci: prima di venir sorpresi dai Patagoni, dobbiamo essere pronti.

Infatti la prudenza più elementare insegnava di affrettare i preparativi per la partenza. I Patagoni, che a quell’ora dovevano essersi svegliati, non potevano tardare a mostrarsi sicuri di riavere il loro stregone e i due figli della luna.

Il gaucho, che pareva instancabile, rimontò in sella e spinse il suo cavallo verso l’est; Cardozo e il mastro, gettatesi in ispalla le carabine, si avventurarono nella prateria, mentre il signor Calderon si appollaiava sulla cima della capanna onde sorvegliare i dintorni.

La giornata prometteva di essere buona pei due cacciatori. Per l’aria volteggiavano immensi stormi di avvoltoi neri, di vindita, di pernici da campo, e attraverso le erbe si vedevano fuggire in non piccolo numero struzzi, volpi azara e viscacha, piccoli roditori, che si affrettavano a rifugiarsi nelle loro tane. In lontananza correvano disordinatamente anche parecchi guanachi, i quali però parevano di non aver voglia di lasciarsi avvicinare.

Cardozo e il mastro, dopo aver dato uno sguardo verso il sud, onde assicurarsi che per allora nessun pericolo minacciava l’estancia, e un altro verso l’est, dove galoppava il gaucho in traccia dei cavalli, che non si scorgevano in alcuna direzione, si diressero verso alcune macchie, in mezzo alle quali giganteggiava un ombù dal superbo fogliame.

— C’imboscheremo colà, — disse il mastro — e faremo fuoco sulla selvaggina che verrà a tiro delle nostre carabine. [p. 230 modifica]

— Bell’idea, marinajo, — rispose Cardozo, — poichè, se devo dirti la verità, ho i piedi gonfi e le membra fracassate da quella corsa furiosa.

— Ne avremo ancora per poco, mio povero ragazzo. Se tutto va bene, fra otto giorni potremo riposarci in un comodo albergo.

— Lo spero, mastro. Ehin! Cosa vedo là?

— To’! — esclamò il mastro, fermandosi. — Si direbbe un bue che sta schiacciando un sonnellino.

— O una carogna?

— È ciò che sapremo presto, Cardozo.

A due o trecento passi da loro, coricata fra le erbe, si vedeva una massa biancastra che somigliava ad un grosso bue. Quantunque all’intorno svolazzassero in gran numero dei grossi falchi, detti dagli indigeni carrancho, non si muoveva.

— Temo che sia una carogna, — disse il mastro dopo aver fatto alcuni passi. — Quegli uccelli non ardirebbero abbassarsi tanto su un essere ancora vivo.

Il mastro non si era ingannato. Il bue, che era di forme colossali, pareva morto da parecchio tempo: nondimeno Cardozo, che si era avvicinato per meglio osservarlo, notò con molta sorpresa che non tramandava alcun odore.

— Che sia morto da soli pochi giorni? — chiese egli. — In tal caso possiamo levare alcune bistecche.

— Prova a toccarlo, — rispose il mastro.

Il ragazzo ubbidì; ma, appena vi si appoggiò sopra, la massa cedette con un grande scricchiolìo di ossa infrante, mentre dal disotto fuggivano degli strani animaletti, che pareva si fossero trovati un ricovero là dentro.

— Cosa sono? — chiese Cardozo, facendo un salto indietro.

Il mastro, invece di rispondere, afferrò la carabina per la canna e si mise a picchiare furiosamente gli animaletti; ma questi si ripiegarono in forma di palla, presentando a quei colpi una specie di corazza ossea, che pareva fosse più dura del ferro. [p. 231 modifica]

— Non ne verrò mai a capo, — disse il mastro, arrestandosi. — Ci vorrebbe un martello del peso di un quintale per sfondare queste dannate scaglie.

— Ma che animali sono? — chiese Cardozo.

— Armadilli, o, meglio, fiere corazzate, — rispose il mastro. — Osservali bene, figliuol mio: ne vale la pena.

Cardozo si curvò e guardò quegli strani animali, dei quali aveva udito più volte vagamente parlare. Erano piccoli quanto una volpe giovane, armati di lunghi artigli, che dovevano essere duri quanto l’acciaio, e avevano il corpo difeso da lunghe piastre ossee, traversali nella direzione dei fianchi, grosse e assai resistenti a giudicarle a colpo d’occhio. Anche la testa appariva difesa da una specie di visiera di grosse scaglie, che dovevano essere a prova di palla.

Ripiegati strettamente, colla coda sotto il ventre, non si muovevano e presentavano ai nemici una specie di palla, completamente difesa dalle scaglie.

— Che bizzarri animaletti! — esclamò Cardozo. — Cosa facevano nel ventre del bue?

— Mangiavano la sua carne, — rispose il mastro. — Gli armadilli amano nutrirsi di carni corrotte, e quando trovano la carogna di un bue o di un cavallo vi si cacciano dentro, non lasciando intatte che le ossa e la pelle.

— E non si possono ammazzare?

— La loro corazza sfida la scure e la sega.

— Sono buoni da mangiarsi?

— Passano per eccellenti.

— Ma come faremo a portarli via?

— Li legheremo, e quando li avremo messi su di un bel braciere, ti assicuro che si cucineranno a meraviglia, malgrado la loro corazza. A noi, care bestioline.

Il mastro sciolse una lunga corda che portava stretta ai fianchi, legò gli armadilli solidamente e li appese ad un ramo onde ritrovarli al ritorno.

— Ora continuiamo la caccia, — disse egli quand’ebbe terminata l’operazione. — L’arrosto per ora l’abbiamo; il resto verrà dopo. [p. 232 modifica]

Abbandonarono la carcassa e si diressero verso il boschetto, dove speravano di trovare qualche cosa di meglio degli armadilli. Stavano per entrarci quando Cardozo, che girava gli occhi in tutte le direzioni onde cercare di scoprire la selvaggina, fece osservare al mastro numerosi monticelli, sui quali si tenevano ritte delle grosse civette, che pareva spiassero i cacciatori.

— Cosa fanno là quei brutti uccelli? — chiese egli.

— Sono le sechuza dei gauchos, — rispose il mastro.

— E cosa fanno su quei monticelli?

— Ci spiano.

— Hanno il loro nido?

— Sì, entro quei monticelli. Se tu provassi ad avvicinarti, le femmine non tarderebbero a fuggire nella tana, mentre i maschi ti correrebbero addosso, colla speranza di spaventarti.

— E son essi che si scavano le tane?

— Qualche volta sì; ma per lo più occupano quelle delle viscacha, che sono grossi roditori di prateria. Guarda che brutte smorfie ci fanno.

— E quegli altri monticelli cosa sono?

— Dei formichieri.

— Nidi di formiche vuoi dire?

— Sì; ma... to’! Non vedi tu muoversi qualche cosa presso quei monticelli?

Il ragazzo si alzò sulle punte dei piedi e guardò attentamente nella direzione indicata.

— Infatti, — disse poi, — mi pare che qualche animale o grosso uccello si agiti laggiù.

— Andiamo a vedere, Cardozo. Forse ci sono delle costolette per la cena.

I due cacciatori si gettarono a terra per non far fuggire l’animale o il volatile segnalato e si misero a strisciare in direzione dei formichieri, che erano contornati da fitti gruppi di cactus e di grossi cardi. Giunti a pochi passi, si alzarono con precauzione, armando le carabine.

Dinanzi ad un monticello che appariva coperto di [p. 233 modifica]formiche, un animale non meno curioso degli armadilli si agitava, mandando dei sordi grugniti.

Era grosso quanto un lupo aguara, ma più lungo, coperto di peli di color bruno, con una larga striscia di peli neri orlati di bianco che gli serpeggiava sul dorso. La sua testa, assai allungata, si assottigliava stranamente alla estremità e pareva che fosse sprovvista di bocca, e le zampe, corte assai, si vedevano armate di lunghi artigli.

Una coda lunga un buon metro, che teneva alzata e ricurva sul corpo, munita di peli lunghissimi e fitti, completava quello strano animale.

— Cos’è? — chiese Cardozo.

— Un orso formichiere, — rispose il mastro.

— E cosa fa?

— Pranza.

— Ma se non ha bocca...

— T’inganni, ragazzo mio. Non vedi uscire dall’estremità del muso, da una specie di buco che vorrebbe essere una bocca, una lingua lunga assai, terminante in una specie di strale e che l’animale accorcia a piacimento? È spalmata di una materia assai vischiosa, alla quale si attaccano a centinaia le formiche, che il ghiottone mangia con molto appetito.

— È buono a mangiarsi?

— La sua carne somiglia a quella del maiale.

— Allora fa per noi, marinaio, — rispose Cardozo, puntando il fucile.

— Risparmia la carica, — disse il mastro. — Siffatti animali, quantunque siano provvisti di lunghi artigli, non sono pericolosi che pei formicai. Lascia fare a me.

Il mastro afferrò la carabina per la canna, balzò addosso al formichiere, che non aveva pensato nemmeno a mettersi in guardia, e con una calciata applicatagli sul cranio lo rovesciò a terra fulminato.

— La cena e il pranzo per domani sono assicurati, — disse il mastro, raccogliendo la preda. — Ora pensiamo alle provviste per il viaggio.