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— Non ne verrò mai a capo, — disse il mastro, arrestandosi. — Ci vorrebbe un martello del peso di un quintale per sfondare queste dannate scaglie.
— Ma che animali sono? — chiese Cardozo.
— Armadilli, o, meglio, fiere corazzate, — rispose il mastro. — Osservali bene, figliuol mio: ne vale la pena.
Cardozo si curvò e guardò quegli strani animali, dei quali aveva udito più volte vagamente parlare. Erano piccoli quanto una volpe giovane, armati di lunghi artigli, che dovevano essere duri quanto l’acciaio, e avevano il corpo difeso da lunghe piastre ossee, traversali nella direzione dei fianchi, grosse e assai resistenti a giudicarle a colpo d’occhio. Anche la testa appariva difesa da una specie di visiera di grosse scaglie, che dovevano essere a prova di palla.
Ripiegati strettamente, colla coda sotto il ventre, non si muovevano e presentavano ai nemici una specie di palla, completamente difesa dalle scaglie.
— Che bizzarri animaletti! — esclamò Cardozo. — Cosa facevano nel ventre del bue?
— Mangiavano la sua carne, — rispose il mastro. — Gli armadilli amano nutrirsi di carni corrotte, e quando trovano la carogna di un bue o di un cavallo vi si cacciano dentro, non lasciando intatte che le ossa e la pelle.
— E non si possono ammazzare?
— La loro corazza sfida la scure e la sega.
— Sono buoni da mangiarsi?
— Passano per eccellenti.
— Ma come faremo a portarli via?
— Li legheremo, e quando li avremo messi su di un bel braciere, ti assicuro che si cucineranno a meraviglia, malgrado la loro corazza. A noi, care bestioline.
Il mastro sciolse una lunga corda che portava stretta ai fianchi, legò gli armadilli solidamente e li appese ad un ramo onde ritrovarli al ritorno.
— Ora continuiamo la caccia, — disse egli quand’ebbe terminata l’operazione. — L’arrosto per ora l’abbiamo; il resto verrà dopo.