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miche, un animale non meno curioso degli armadilli si agitava, mandando dei sordi grugniti.

Era grosso quanto un lupo aguara, ma più lungo, coperto di peli di color bruno, con una larga striscia di peli neri orlati di bianco che gli serpeggiava sul dorso. La sua testa, assai allungata, si assottigliava stranamente alla estremità e pareva che fosse sprovvista di bocca, e le zampe, corte assai, si vedevano armate di lunghi artigli.

Una coda lunga un buon metro, che teneva alzata e ricurva sul corpo, munita di peli lunghissimi e fitti, completava quello strano animale.

— Cos’è? — chiese Cardozo.

— Un orso formichiere, — rispose il mastro.

— E cosa fa?

— Pranza.

— Ma se non ha bocca...

— T’inganni, ragazzo mio. Non vedi uscire dall’estremità del muso, da una specie di buco che vorrebbe essere una bocca, una lingua lunga assai, terminante in una specie di strale e che l’animale accorcia a piacimento? È spalmata di una materia assai vischiosa, alla quale si attaccano a centinaia le formiche, che il ghiottone mangia con molto appetito.

— È buono a mangiarsi?

— La sua carne somiglia a quella del maiale.

— Allora fa per noi, marinaio, — rispose Cardozo, puntando il fucile.

— Risparmia la carica, — disse il mastro. — Siffatti animali, quantunque siano provvisti di lunghi artigli, non sono pericolosi che pei formicai. Lascia fare a me.

Il mastro afferrò la carabina per la canna, balzò addosso al formichiere, che non aveva pensato nemmeno a mettersi in guardia, e con una calciata applicatagli sul cranio lo rovesciò a terra fulminato.

— La cena e il pranzo per domani sono assicurati, — disse il mastro, raccogliendo la preda. — Ora pensiamo alle provviste per il viaggio.