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Pur non provava pace: qualcosa di inafferrabile e d’infinito, appunto come una fragranza, la estasiava senza inebbriarla completamente. Nella felicità sentiva il desiderio struggente di altra felicità più grande e più intensa ancora; ma come il suo gaudio si scioglieva in lagrime, così temeva che, raggiunta l’estrema felicità di aver Paolo vicino, l’incanto forse andrebbe distrutto.
Un giorno Paolo mandò la sua fotografia con queste parole:
«Tu dunque, Elena mia dolce, vuoi la mia figura, dicendo che la coprirai di fiori. Sì, spandi rose, fanciulla.
«Io non sono ancora il vecchio Anacreonte; ma ho l’anima ancor giovane e amorosa come il cantore di Ceo, e sento la grazia com’esso: sentirò dunque la dolcezza dei tuoi fiori, ma vieppiù la grazia lontana delle mani pure e adorate che li spargeranno....»
Ella mise la fotografia nel salotto, insieme ad altre, in un portaritratti di velluto bianco ricamato, appeso alla parete con due nastri celesti: e l’adornò di rose e di gelsomini. Ogni volta che passava si fermava sorridendo, e allontanandosi si rivolgeva per sorridere ancora, quasi Paolo la vedesse. Spesso tornava indietro socchiudendo gli occhi, colta da una vaga suggestione ottica, perchè nella penombra della parete, fra le rose e i gelsomini, la fotografia assu-