Il sorbetto della regina/Parte seconda/III

Parte seconda - III. Il seguito del conte Ruitz de Llamanda

../II ../IV IncludiIntestazione 10 agosto 2009 75% romanzi

Parte seconda - II Parte seconda - IV


[p. 162 modifica]

CAPITOLO III.


Il seguito del conte Ruitz de Llamanda.


Facciamo un passo indietro.

Quando la donna velata aveva sorpreso Bruto nello studio del conte, si era ritirata, guardandolo a tre riprese. La prima parola, che aveva detto al conte, quando la cortina fu ricaduta, era stata:

— Ebbene?

— Nessuna notizia, signora, rispose il conte, inchinandosi umilmente, ma ne avremo. Ho messo sulle sue traccie un certo Fuina, il più astuto bravo della nostra polizia.

La donna sospirò ed aggiunse:

— Sopratutto che non si facciano scandali. Chi è quel giovane che era qui poco fa?

— Un medico, signora, un provinciale. Non c’è nulla da temere.

— Ha una faccia onesta. Lasciatemi; vado a riposarmi un poco.

Non so quale idea traversò lo spirito del conte. Il suo viso si rasserenò.

Il dottor Tibia fu ringraziato, ma il domani [p. 163 modifica]Bruto non venne, quantunque il conte l’avesse fatto chiamare dal suo servitore.

Gli scrisse allora che chiedeva di lui, non per sua figlia, ma per sè stesso e che il dispiacere gli aveva causato uno spargimento di bile.

Lo pregava di venire per avere un consulto con uno dei suoi colleghi.

Bruto non aveva nulla da opporre; la sua suscettibilità di professione non aveva nulla a dire. Arrivò all’ora fissata; ma il suo collega, non essendo ancor giunto, dovette aspettarlo. Bruto evitò ogni allusione verso la signora Cecilia e s’informò della salute del conte, che non pareva visibilmente alterata.

Suonano le due, passano ancora alcuni minuti, la finestra, che dà sulla scala a chiocciola, si apre, entra una donna velata, e sorpresa come la prima volta di quell’incontro e dopo aver avvolto Bruto nei suoi sguardi, traversa lo studio e sparisce dietro la cortina di velluto, accompagnata dal conte, col berretto alla mano.

— Il vostro bracco vi ha appreso qualche cosa?

— Sì, signora.

— Cosa, dunque? come siete lungo!

— Il marchese ha rapito una modista ed è sparito con essa.

— Sparito! Si può forse sparire da Napoli?

— Sparito, signora, svaporato, senza lasciar traccia alcuna.

— Benissimo; lasciamo tutto ciò. M’ero già rassegnata. Quest’uomo è morto, Ruitz.

Il conte s’inchinò fino a terra. [p. 164 modifica]

— Ma quel medico che cosa vuol dire? Siete forse ammalato?

— No, signora, è mia figlia.

— Ah! quel dottore ha una fisonomia interessante, farà carriera.

— Lo credo, signora, tanto più ch’egli è altrettanto dotto, quanto è discreto e delicato.

— Fate ben curare vostra figlia, Ruitz, pagherò io le visite del suo medico.

— Quanta bontà, signora, disse il conte salutando di nuovo fino a terra.

— Andate.

Il conte uscì. Prese Bruto per la mano e gli disse:

— Venite.

Arrivato all’appartamento di Cecilia, il conte chiamò Lisa.

— Annunzia alla tua padrona che il dottor Bruto ed io le chiediamo se può riceverci. Sono io che conduco il dottore. Intendi, Lisa?

— Perfettamente, signor conte.

Due minuti dopo, il conte ed il medico erano ricevuti: Cecilia era a letto. Aveva la febbre. Il conte aveva preceduto Bruto, che restò ritto ai piedi del letto, salutando molto freddamente e senza aprir bocca. Finalmente la ragazza parlò al dottore della sua malattia; avanzò il braccio per farsi tastare il polso e si lamentò. Bruto, serio, rispondendo per monosillabi, disse che l’infiammazione si sviluppava, che le pareva urgente di combatterla e scrisse una ricetta.

— Venite a vederla questa sera, disse il conte. [p. 165 modifica]

— Non mi pare necessario, osservò Bruto.

— Lo voglio, rispose il conte. Ve ne prego, dottore.

— Lo desidero anch’io, mormorò Cecilia sotto lo sguardo di suo padre.

— Questa sera la febbre avrà ceduto, disse Bruto, il medico della signorina provvederà domani.

— Il medico della signorina siete voi, signore. Ne ho abbastanza di quegli asini, che la uccidevano. Non voglio che il mondo dica che io sono stato loro complice. Le circostanze della malattia sono tali che giustificherebbero forse l’accusa. Dovete comprendermi tutti e due.

— Ve ne prego, dottore, disse Cecilia come se avesse una scossa elettrica dalle parole di suo padre. Vi chieggo scusa. La febbre è una mezza pazzia.

Bruto salutò e parti.

Ritornò alla sera.

Il conte l’accompagnò, assistette alla visita e constatò che sua figlia andava un po’ meglio. Il dottore partito, fece segno a Lisa di uscire, e restò solo colla ragazza.

Questo signor Ruitz era un uomo fatto di diversi pezzi, un carattere diviso a compartimenti. Custode di canarini a corte; barone nelle anticamere della regina, in mezzo al servidorame; conte in città; artista nel suo appartamento, stava sempre palafreniere dinanzi a sua figlia. Lo si vedeva umile al castello, freddamente creanzato nelle relazioni di società, amabile nel suo studio; ma sua figlia era sicura di trovarlo sempre faceto o brutale. [p. 166 modifica]

Ella non ne comprendeva la ragione; ma il conte ne aveva forse una segreta.

Egli credeva, infatti, che Cecilia non fosse sua figlia e aveva avuto il coraggio di farne rimprovero a sua moglie. Ma l’ex-cozinera de la reyna, l’ex-cunadora y fanadora dei principi reali, l’ex-amidonadora de lo cuerpo de la reyna si era limitata a rispondere:

— Osservate la sua testa.

Cecilia, come abbiamo detto, aveva i capelli rossi come mastro Ruitz.

Egli è vero che mastro Ruitz non era il solo, che avesse il capo adornato di quel colore fra il circolo che stava intorno alla regina Carolina; ma non era una buona ragione per sospettare di una donna che dava tale spiegazione al momento di morire. Mastro Ruitz, però, tenne i suoi sospetti e non potè mai guarirne completamente.

L’ex-groom era brutto. Aggiungeva ai suoi capelli rossi degli occhi verdastri; una pelle della bianchezza della calce, sparsa di macchie grigie e butterata ad intervalli; dei denti gialli, spaziati come i merli di una torre; il naso corto che si ribellava contro labbra grosse e azzurrastre.

La statura era piccola. Il corpo meschino alle estremità, grosso nel mezzo; — lasciamo gli altri particolari che ne completano il quadro.

Lisa era partita; il conte passeggiò nella stanza, le mani incrociate dietro il dorso, distratto, canterellando. Una lampada, sotto un globo d’alabastro, rischiarava dolcemente la stanza e addolciva tutti i contorni. Il viso di Cecilia appena [p. 167 modifica]sarebbe risaltato dai guanciali se i suoi occhi, dove restava ancora un po’ di ondeggiamento, dopo la tempesta della febbre, non ne avessero accusata la presenza.

Essa spiava tutti i movimenti di suo padre, aspettando l’esplosione finale.

— Sarebbe forse vile o atroce, pensava, o semplicemente motteggiatore e saltimbanco? Che cosa escirà da quel fango che ribolle là entro? un pulcinella o un briccone?

Non tardò molto a saperlo.

— Così, dunque, signorina, esclamò Ruitz alla fine, fermandosi dinanzi alla lampada, ti sei lasciata accalappiare, eh? Credevi, dunque, che a quel giuoco non ci fosse che a guadagnare un marchese autentico per marito, o al più, al più di quelle farfalle che si chiamano baci? Sciocca. Io so tutto!

Cecilia non rispose e chiuse gli occhi. Suo padre le faceva orrore.

— Se tu fossi una vera contessa, o semplicemente una rivendugliola di fagioli cotti e di nocciole arrostite al forno, non sarebbe nulla. Si può compromettere benissimo una posizione decisa. Ma compromettere una posizione equivoca, intaccare una riputazione incerta, aggiungere un fallo ad una cosa oscura, mettere la vergogna sull’infamia! ah! ciò è cosa stupida. Cosa diverrai oggi con questa macchia sulla tua bellezza?

— Vi ringrazio di velare il vostro pensiero, padre mio. Non si deve mai aver troppo ragione, disse Cecilia con voce tronca.

Soffocava. [p. 168 modifica]

— Se non si trattasse che di te, continuò il conte passeggiando su e giù, passi ancora; avresti aggiunto una scimmia ai tuoi pappagalli. Ma tu fai la caccia sul mio terreno.... Alto là!

— Non vi comprendo punto, padre mio.

— Mi comprenderai. Sai tu chi paga tutto questo lusso che ti circonda?

— Ma la vostra carica alla corte, i canarini della regina, io credo, rispose Cecilia.

— Precisamente i canarini. Come m’hai tu sedotto il mio marchese, eh? Perchè quest’opera non può venire che da lui, se non m’inganno.

Cecilia tacque; ma dei singhiozzi amorosi tradivano il suo silenzio.

— Quante volte mi è venuta la voglia di ucciderlo quella canaglia, esclamò Ruitz. Ne valeva la pena! L’avrei conservato imbalsamato. Dovrò ricominciar da capo ora.

— Mai più, disse Cecila sollevandosi a mezzo sui guanciali.

— Mai più che cosa? rispose il conte, facendo una contorsione che avrebbe voluto essere un sorriso. Credi forse che io vada a preparartelo di nuovo, per presentartelo tutto pentito? È sparito il tuo marchese.

— Dio mio! perchè, dunque, non mi lasciaste morire? disse Cecilia disperata.

— Perchè? perchè ho bisogno di te, perdio! Credi tu che ti avrei aiutata a divenire grande e grossa perchè tu ti prenda il divertimento di frangere i miei arnesi? Credi, forse, che, dopo aver fatta questa bella scappata, non abbia più [p. 169 modifica]che d’andartene? Grazie tante. Alla gogna con me, malfattrice. Il dottore ha detto che tu devi morire o che il tuo stato deve avere lo svolgimento ordinario. Ho riflettuto da tre giorni a questa parte. Tu non puoi morire ancora.

— Siete, dunque, felice della mia vergogna?

— La vergogna non macchia nella nostra famiglia, madchen Ruitz! essa alimenta, capisci?

— Padre mio!

— Chiamami: compare e dirai meglio.

— Voi avete qualche cosa di sinistro a dirmi, signore, esclamò Cecilia con voce più ferma; voi non osate farmi una rivelazione; dite alla bella prima il vostro pensiero e chiaramente. Vedrò cosa mi resta da fare.

— In altre circostanze ti avrei fatta partire per Parigi, onde guarirti in qualche stabilimento speciale, e ti avrei fatta ritornare ragazza come prima, dicendo ai curiosi che la tua nonna, la vecchia marchesa di Arbacos Llamanda... — sai di chi parlo! — ti aveva voluto nel suo castello in Ispagna! Ora, invece, ho bisogno di te. Se tu mi fossi inutile, ti avrei abbandonata alle cure del dottor Tibia: eri in buone mani. Ma ora io ti associo ai miei affari.

— Quali affari?

— Ciò non ti concerne punto. Tu non sei che il "compagno" nella società. Il nome principale della ditta è affar mio. Ma il tuo precoce prodotto non entra nei miei conti. Bisogna che io lo sconti sotto altro nome. Non mi comprendi?

— Non oso comprendervi.

— Grazie della modestia! Ti lascio, dunque [p. 170 modifica]il tempo di abituarti a questa audacia e di osar comprendere. Per aiutarti, mi spiego più chiaro. Fra pochi mesi, tutti i fannulloni e le pettegole di Napoli osserveranno che la tua taglia non è più della flessibilità normale. Fra alcuni mesi ci sarà un bamboccio di più in famiglia. Se quella sporca e stupida cosa, che si chiama la polizia, non avesse gli occhi aperti, potremmo farne un bucato a tempo e luogo ed il diavolo è un buon sensale. Ma questo modo di salvar la virtù compromessa ci condurrebbe davanti ad una corte criminale. Bisogna, dunque, trovare un padre. La è tradizione di famiglia: trovare un padre! Ciò è affar mio. Ti risparmio la fatica di cercarlo.

Cecilia ricadde sui suoi guanciali e nascose il suo viso piangendo. Ruitz continuò a passeggiare convulsivamente, poi soggiunse:

— Se non si trattasse unicamente che dell’onore, siamo abbastanza in fondo, gioia mia, per ridere di questo scherzo. Ma abbiamo degli altri gatti da pelare. Pel momento lasciati guarire da quel puntiglioso provincialotto, che rassomiglia ad un bove che arrossisce delle proprie corna! quando sarai guarita non ti chiederò cosa dovremo fare. Gli avvenimenti maturano da sè come le nespole.

Mastro Ruitz non attese la risposta ed uscì.