Il sorbetto della regina/Parte seconda/IV
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CAPITOLO IV.
Due fortune che ne fanno una sola.
Scorse una settimana.
Cecila aveva traversato delle crisi abbastanza forti, ma da due giorni era sulla via della guarigione. Non s’era mai piegata nella sua alterezza verso Bruto, quantunque questi l’avesse curata con un’emozione piena di compassione. Ma egli aveva, d’altra parte, conquistato le simpatie del conte, che gli aveva procurato due clienti fra la gente di corte e a cui la regina pagava le ricette e le visite; gli aveva fatto intravedere un brillante avvenire e gli aveva perfino parlato un po’ dei suoi affari.
Si era degnato di mostrargli il busto schizzato della dama velata, — favore che non aveva accordato a nessuno, diceva egli. La dama velata, che voleva che il suo busto fosse finito il più presto possibile, a quanto pare, moltiplicava le sue visite; veniva ora quasi quotidianamente.
Un giorno essa fece chiedere a Bruto un rimedio contro l’emicrania. Bruto rispose ridendo:
— Un marito. Boheraave ha detto: Fœmina quidquid est, propter uterum est.
— Scrivete la ricetta, dottore, rispose il conte ridendo alla sua volta ed indicatemi il farmacista che la fornisce.
Portò la risposta alla dama, che se ne compiacque come del frutto dell’albero della scienza.
Una settimana dopo, Cecilia si era alzata. Allora il conte invitò Bruto a pranzo con sè e la figlia, un pranzo di convalescenza, servito nell’appartamento di Cecilia, il primo che il conte facesse con lei dopo la sua malattia. Bruto non aveva nessuna ragione per rifiutare.
Si era nel novembre, dalle giornate corte e piovose. La tristezza stava nel cielo e nei cuori. A sei ore scendeva la notte. I tre convitati sedettero a tavola nel gabinetto di Cecilia.
Avviluppata in una veste da camera di casimir bianco, imbottita di seta color di rosa, la testa ricoperta da una cuffia di trina molto leggiadra, la vita stretta da un cordone di tela nero e oro, quella ragazza era vezzosissima. Il suo pallore risplendeva. I suoi capelli erano ricoperti da una rete, che stentava a tenerli tutti e lasciava sfuggire alcuni ricci ribelli che scendevano sul collo. Il languore dei suoi occhi era inebbriante.
Cecilia non mangiò quasi niente. Il conte mangiò e bevette per due. E Bruto, quantunque fosse in estasi dinanzi alle mani, alla posa, all’insieme della giovine convalescente, tenne testa perfettamente al conte.
Finito il pranzo, si andò a prendere il caffè nella stanza di Cecilia, intanto che si sparecchiava nel gabinetto. Poi, siccome essa era un po’ stanca, il conte ed il dottore vi ritornarono soli per fumare, prendere il thè e conversare. Il vino di sciampagna rendeva il conte molto loquace, a quanto asseriva egli stesso. Il fatto sta che Bruto si sentiva tutto intenerito, sorrideva al genere umano con aria di protezione; avrebbe sporto la mano ad una tigre per augurarle il buon giorno. L’universo non aveva che delle pose, una bocca, delle pupille, come quelle di Cecilia. Messer Bruto aveva lo sciampagna umanitario senza saperlo; poichè era, m’immagino, la prima volta che ne beveva. Il conte, pure, pareva tenero e pieno di buoni sentimenti.
— Siete voi ricco, dottore? chiese egli con voce accarezzante.
— Eh! eh! rispose Bruto con aria un po’ sbalordita, non ne so nulla, ma credo che quel gruzzolo di scudi, che mi ha lasciato don Noè mio zio, tocchi il fondo. Don Gabriele mi ha detto qualche cosa a questo proposito, la settimana scorsa.
— Prima di tutto, chi è questo don Gabriele? Non mi piacciono i nomi proprii sospesi in aria, senza genealogia nè qualifica.
— Don Gabriele? non è un uomo di cui si possano dare i connotati in succinto, come per un passaporto. Se parlassi fino a domani, ancora non vi direi ciò ch’egli è. In cinque minuti egli è Carlomagno, Pulcinella, Colombina, la Regina, Berta, il guappo ed il frate, il brigante e la provvidenza. È turco, ma eccolo poi crociato, poi eremita, inglese, francese, svizzero e, sopratutto, napoletano burlone! Aspettate un poco, ed è diavolo e poi subito Tobia, il suo angelo ed il suo rispettivo cane. Il cane, sopratutto; abbaia come una muta intiera; riassume tutte le astuzie della polizia! Oh sì! dopo ciò, provatevi a definire don Gabriele. Domani può essere imperatore dei Romani, l’asino di Balaam, il muggito del vento, lanterna di polizia, spia, tutto, insomma e qualcosa altro ancora.
— È un uomo pericoloso, questa vostra conoscenza, dottore. Bisogna che ne giudichi un po’ da me stesso. Me lo condurrete.
— Se vorrà venire, rispose Bruto.
— Siete ammogliato, dottore?
— Sono sulla via di esserlo.
— Come sulla via?
— Sì, in via di ammogliarmi. Ho subìto i primi disinganni. La ragazza, che io voleva sposare, è stata rapita e mi ha piantato lì con un peso sul cuore. Ora sto in aspettativa, ma interrogo il mio cranio, secondo il sistema di Gall, per conoscere se ho le protuberanze d’un marito.
— E cosa vi risponde il cranio, don Bruto?
— Niente di buono. Non ho che la pazienza, ma mi sforzo a famigliarizzare coll’educazione le servitù ribelli che mi mancano.
— Se avete la pazienza, non cercate nessun’altra virtù coniugale. Con quella sola sarete il modello dei mariti.
— Credete? Pure io penso che un marito il quale non ha fermezza di carattere....
— Disgraziato! volete dunque portare il germe della ribellione nel vostro matrimonio? Pazienza, discrezione, obbedienza, miopia, bonomia, ecco...
— Cospetto! non ho nessuna di queste qualità, eccettuato....
— Avete l’essenziale, dottore. Ma quali qualità cercate in vostra moglie, eh?
— Sto per i capelli rossi.
— To’! come quelli di Cecilia.
— Scusate, non volevo fare un’allusione. Ma è forse un’idea spontanea, destata dalla contemplazione delle treccie della signora vostra figlia.
— Andiamo avanti, va bene. I capelli rossi sono per voi capelli dorati. E poi?
— E poi mi piace una bella pelle candida, con degli occhi neri, un bocchino dalle labbra rosee e dai dentini bianchi.
— Come Cecilia, dunque, oppose di nuovo il conte.
— È vero, la signorina ha tutto ciò, perchè è bella. E mi piacciono le ragazze dalla persona flessibile, che portano arditamente il capo sulle spalle, che danno a volta dei sorrisi, a volta delle scudisciate, che abbracciano e mordono, secondo....
— Fulmini e sangue, ma voi parlate di Cecilia, dottore?
— Mille scuse, signore, non faccio nessuna allusione diretta, non l’oserei; ma sono contento di sapere che le mie inclinazioni sono divise da una persona così elegante e d’un grado sì elevato.
— Ma c’è meglio di tutto ciò, don Bruto! Cecilia ha una dote. La regina Urraca, che l’ha veduta bambina e che le vuol bene, le farà dei bei regali il giorno delle sue nozze. La ragazza porterà inoltre con sè una bella clientela al dottore fortunato che la sposerà; forse un posto di medico o di chirurgo in qualche ospitale, il favore a corte e la mia protezione.
— Tutto ciò è molto bello, disse Bruto. Ma sposa forse un medico vostra figlia?
— C’è qualche cosa di simile sul tappeto, se quel medico ha buon naso e lo spirito abbastanza spregiudicato per passar oltre a certi inconvenienti e accettar gli altri doveri della sua posizione.
— Tutto questo sta nella dote della signora Cecilia, signor conte?
— Indispensabilmente.
— Suppongo che quel medico ha accettato!
— Non so, perchè non glie l’ho ancora domandato. È cosa del resto che esige riflessione. È un giovane di ventiquattr’anni, povero, senza appoggi, di una educazione incompleta, provinciale....
— Precisamente, come me.
— Sì, precisamente, colle stesse sucettibilità, gli stessi pudori, forse, lo stesso riserbo e che conosce quello che voi conoscete sulle condizioni in cui si trova la mia povera figlia.... Cosa credete che risponderà il vostro collega, dottore, quando gli farò comprendere che potrei accordargli la mano di Cecilia?
— Noi so veramente. Credo che vorrà conoscere tutto quello che si esige da lui per prezzo di un tal favore. Poichè io penso che non è per nulla che si offrono tutti questi vantaggi a questo uomo imperfetto, a meno che, fra i difetti della sua educazione, non abbia anche quello di sedurre le ragazze a sua insaputa.
— No, egli non ha nulla a rimproverarsi in questo disastro della mia famiglia. Dovrebbe, invece, concorrere egli a ripararlo.
— E ci consente? chiese vivamente il dottore.
— Ancora non ne so nulla. Ma voi al suo posto cosa fareste?
— Domanderei un giorno o due per riflettere. Non si prendono di tali determinazioni dopo pranzo, quando il sangue bolle e che il lato animalesco è padrone di casa.
— È giusto, disse il conte. Ma il mio dottore non è in questa vostra posizione. Egli ha pranzato a casa sua, con un piatto di lenti, ed ha bevuto soltanto dell’acqua. È il vostro pranzo ordinario, credo, dottore?
— All’incirca.... quando Tartaruga non ci fa dei cavoli, che le piacciono, quando il colonnello non ordina del sauerkrauth, che adora, ed ha insegnato a Tartaruga a farlo come a Dresda, — e quando don Gabriele non prepara egli stesso i maccheroni.
— Ma, continuò il conte, lasciamo da parte questi due giorni di riflessione. Occorre pure ch’egli conosca tutto quello che si esige da lui.
— È chiaro.
— Si esige il silenzio ed un matrimonio secreto. Nella posizione di Cecilia, un matrimonio ecclesiastico, celebrato da un prete amico, in una cappella, al cader della notte, è sufficiente pel momento. Più tardi vi si aggiungerà il matrimonio civile in gran cerimonia.
— Difatti, nella posizione attuale della signorina, non bisognerebbe esporla ad emozioni troppo vive.
— E per questo, pure, occorrerebbe che il marito continuasse a vivere a casa sua, per qualche tempo.
— Questa non l’accetterei forse, se io fossi al posto del fidanzato che state fabbricando per la signorina.
— Sì, sì, avreste ragione, forse, se ciò fosse senza compenso. Ma io sono un uomo giusto. Non imporrei mai dei sacrifizii indiscreti, senza offrirne l’equivalente.
— Come l’equivalente! L’equivalente di una bella donna, che si sa che è vostra moglie e che bisogna adorare da lontano.... Ma allora....
— Dottore, voi siete ingenuo. Ignorate certi usi del gran mondo. Voi non comprendereste, forse, che vi possa essere un matrimonio in scrittura doppia.
— Voi parlate turco per me. Non conosco che gli usi della mia provincia, dove il marito prende la moglie in casa sua, perchè vi faccia tutto e fa lui stesso, l’imbecille, i suoi bimbi.
— Siete poco inciviliti e dovete avere sulla coscienza tutte le disgrazie che vengono dal proletariato. Ma supponete ch’io dica a mio genero — comprendete che è un’ipotesi — vi interdico certi diritti durante un certo tempo, cioè fino a che vostra moglie non vi avrà completamente aggradito. Vi prego di non condurla a casa vostra e vi scongiuro di non vivere in casa mia, perchè ciò si potrebbe sapere e potrebbe cagionare delle gelosie che porterebbero la mia rovina. Vi prego di non propagare la notizia di questo matrimonio, perchè potrebbe far chiasso, e ferire certe persone che hanno degli interessi contrari, sopra voi o sopra lei, non monta. Vi associo alla mia posizione, in cui in definitiva lavorerete per voi stesso; poichè, quando sarò morto, erediterete dei miei utili. Voglio che il mio socio sia il marito di mia figlia, perchè allora i miei interessi, essendo i suoi, e quelli della famiglia, egli si lascierà guidare da me, sarà saggio e non avrà la fantasia di piantarmi lì da un momento all’altro, e di compromettere l’avvenire. Voglio che il mio socio sia il marito di mia figlia, e perchè, lavorando per me, lavorerà per sè e non avrò a temere nè la sua indolenza, nè i suoi capricci, nè imprudenze, nè tradimenti.... Eh? supponete che io dica tutto ciò — è una ipotesi — cosa credete che risponderebbe il mio futuro genero, cosa rispondereste voi stesso?
— Diavolo! ma tutto ciò è un tessuto di tenebre e di impossibilità! Abbandonare sua moglie, una donna così vezzosa, dopo aver chiusi gli occhi sopra i guasti irreparabili causati da un certo temporale d’estate; separarsi da quella bella moglie per associarsi a non so qual opera misteriosa.... Capite bene. È un po’ duro, niente chiaro, sa di vergogna, è cosa equivoca e sinistra e ciò richiede almeno delle spiegazioni.
— Sì, una sola sarà sufficiente.... Se io dicessi, per esempio..., per esempio.... L’esempio non mi si presenta chiaro. Ma prenderemo la storia del marchese d’Alenteyo y Espinosa y Prato-de-Mallo.... La conoscete la storia di quel marchese, complice della principessa degli Orsini, e favorito del cardinal ministro Porto-Carrero?
— Niente affatto.
— È curiosa ed istruttiva. Il re Filippo V non era molto fedele alla sua prima moglie, Luigia di Savoja. Aveva delle amanti, che però nascondeva, non volendo dispiacere alla regina. Il marchese riceveva in casa il re, sotto il nome di conte d’Arguille, e aveva cura di farvi trovare qualche persona abbastanza bella per poter distrarre S. M. Ma Filippo V, che si annoiava, annoiava anche gli altri, e le belle persone che dovevano distrarre S. M. mancavano spesso al ritrovo. Il credito, gl’interessi ed il favore del marchese erano ad ogni istante minacciati di essere compromessi. Che cosa pensò allora l’astuto ed onesto Basco? Fece sposare a suo figlio la più bella e la più graziosa donna della Spagna, che il re mostrava desiderio di conoscere. Dal momento che la Marchesa d’Alenteyo y Espinosa y Prato-de-Mallo entrò in quella casa, fu incaricata essa di ricevere il re. Ella accettò le funzioni, le trovò pesanti, è vero, poichè la bizzarria e la noia del re erano cose pesanti da sopportarsi, ma sapendo alla fin fine che lavorava per sè, per la sua casa, pei suoi figli, per la sua fortuna, essa si sottopose bravamente al carico e restò sulla breccia, da cui le altre s’erano ritirate.
“Il fortunato marchese, dopo il matrimonio, non ebbe più a preoccuparsi d’avere sempre nel suo album una sostituta nelle funzioni di spassatrice del re e di dover essere sempre preparato ai disastri d’uno sciopero. Sua nuora fu la sua associata.
— Ma che analogia c’è, signor conte, fra la nuora del marchese ed il dottore, a cui volete dare la mano di Cecilia?
— Nessuna. Ho citato questo aneddoto come un esempio di questi matrimoni a partita doppia, cui i padri accorti fanno talvolta contrarre ai loro figliuoli, e come la nuora od il genero divengono qualche volta i cooperatori del suocero, nella costruzione della fortuna domestica. Il nostro caso è affatto differente.
— È permesso chiedervi quale egli sia?
— No. Ma riflettete a tutte le chiacchiere, che lo sherry e lo sciampagna ci hanno ispirato, e poi ne riparleremo fra alcuni giorni. Ho d’uopo dei vostri consigli, dottore. Le persone, semplici ed onorate come voi, hanno spesso delle ispirazioni felici, delle soluzioni meravigliose che salvano.
— I miei consigli! riflettere io! disse Bruto parlando a sè medesimo.
— È tardi, dottore, buona notte. Spero che domani non avrete nessuna memoria di ciò che le evaporazioni del vino hanno fatto uscir dal nostro cervello. Ho paura che siamo un po’ brilli tutti e due.
Nessuno dei due lo era.
Bruto augurò la buona notte al conte e partì.
Non saprei dire di che Bruto sognò in quella notte. Ebbe dei sogni di matrimonio ove Lena, Lisa, Cecilia, tutte le ballerine e le cameriere che aveva incontrate nel cammino della sua vita, confusero i loro occhi, i loro visini e, chi lo sa? i loro baci. Sposò un harem intiero e, il miscredente, non se ne mostrò nè dispiacente nè pentito.
Al domani la influenza dei sogni e le provocazioni del vino non erano forse totalmente svanite perocchè egli continuò a ruminare la strana conversazione che aveva avuto col conte la sera precedente. Bruto assicurava a sè stesso ch’egli non era stato ebbro e che, tutt’al più, egli erasi disubbriacato alle prime parole di quella singolare cicalata.
Ma non sapeva precisamente cosa pensarne quando riandava nella sua mente le proposte, gli esempi, l’invito a riflettere, che gli erano stati fatti dal conte. Sposare Cecilia? lasciarla nella di lei casa? vivere in casa propria? un compenso? un matrimonio a scrittura doppia? una società? il marchese e la marchesa di Filippo V...!
— Bah! propositi di vino di sciampagna, esclamava egli, convinto; eravamo ubbriachi ambedue.
E Bruto si confermò in questa opinione quando di ritorno dalla visita alla sua giovane cliente, constatò ancora una volta la bellezza di Cecilia, il lusso che circondava il conte, il silenzio assoluto conservato da costui sopra le chiacchiere intemperanti della vigilia, l’assenza della dama velata, l’atmosfera fredda, degna, pudica di quella casa, il dolore profondo di don Ruitz per la sciagura di sua figlia.
Nondimanco, l’informe sogno del colloquio della sera precedente gli pesava sullo spirito non come un incubo, ma come un dubbio, come un problema a risolvere, come un caso di coscienza da sciogliere.
Bruto ci riflettè. Fu preoccupato tutto il giorno; ma si guardò bene dal chiedere la soluzione dell’equazione al colonnello, che l’avrebbe tagliata netta con una parola: un’infamia.
Gli è che il colonnello non spilluzzicava le questioni morali; le sciabolava come cosacchi o prussiani. La sera, Bruto propose la storia del marchese di Filippo V a don Gabriele, come un soggetto di dramma. Don Gabriele, da quell’artista che era, la prese a volo e non ne fu scandolezzato nemmeno per ombra.
— Ma se questa storia fosse del giorno di oggi? disse Bruto; se qualcuno si trovasse in una posizione simile, che cosa gli cosigliereste di fare?
— Io non mi preoccupo dello scioglimento nelle mie commedie che quando desso è maturo, rispose gravemente don Gabriele.
Una parola di schiarimento.
Questa storia avviene in Napoli, al tempo dei Borboni.
Essa sarebbe immorale dovunque. A Napoli, allora, era naturale. Un inglese, dinanzi alla proposta del conte Ruitz, avrebbe indietreggiato senza esitare; un tedesco avrebbe esitato e poi accettato; un francese avrebbe schiaffeggiato il conte, o accettato ipso facto; un napoletano non si rendeva conto della portata dell’azione, ma delle conseguenze. Il napoletano, in quel tempo, non aveva il senso morale per definire la natura delle azioni umane. Il 1859 ha principiato e il 1860 ha finito di modificare le idee nel mezzogiorno dell’Italia.