Il sorbetto della regina/Parte seconda/II

Parte seconda - II. Il guappo

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CAPITOLO II.


Il guappo.


Il nome e la cosa sono stati importati a Napoli dagli Spagnuoli, al tempo del loro lungo dominio. Il guappo è qualcosa meno dello spadaccino, qualcosa più del rodomonte; non ha il coraggio a tutte prove del primo; fa molto più del secondo e vantasi quanto lui. C’è il guappo del popolo, il guappo borghese, il guappo nobile. Il primo è innocente, il secondo volgare, il terzo rappresenta una parte. Fa parata.

Il marchese di Diano era un guappo, ma soltanto da un anno a questa parte. Aveva fino allora vissuto con suo padre, se non da santo, almeno da gentiluomo onorato, con una inclinazione pronunciata per lo sport e pel turf. Un duello uccise la sua carriera.

Aveva allora ventisei anni.

A venti era uscito dal collegio dei nobili, tenuto dai gesuiti, rimpinzato di latino che non capiva, di greco che non sapeva più leggere, d’italiano che era del dialetto napoletano, di una filosofia che, essendo quella del padre Stor[p. 150 modifica]kenau, non era nulla di nulla, e di tanta teologia quanta bastava per poter bestemmiare con brio ed eleganza. Il maestro di scherma aveva compita l’educazione e sviluppato i suoi corollari. L’uovo era fecondato, un colpo di sole lo fece schiudere.

Il marchese aveva l’abitudine di rientrare alle tre del mattino, di coricarsi alle quattro e di alzarsi alle quattro dopo mezzogiorno. La sua giornata propriamente detta incominciava alle due del dopo pranzo, quando il suo tigre gli portava da asciolvere a letto.

Una sera il marchese rientrò un po’ brillo: il tigre, che dormiva nell’anticamera, non gli aprì la porta abbastanza presto. Il marchese lo fe’ ruzzolar dalla scala come una palla; ed, arrivato giù, quel cattivo birbo ebbe la malizia di trovarsi con una gamba rotta ed un braccio slogato. Il marchese, che gli aveva chiuso l’uscio dietro, non s’era brigato di sapere ciò che potesse divenire un groom che rotola sopra un piano inclinato. Il domani, non ricordandosi più di nulla, maravigliava che il ragazzo non arrivasse a due ore col suo vassoio e colla sua colazione. Ora, avendo fame, si alzò per amministrargli una correzione che potesse sviluppare in lui l’organo dell’esattezza, sì necessaria per quel felice mortale che si dà alla carriera del servitore. Grog, — egli lo chiamava così — non era lì. Il marchese pensò che quel bellimbusto si fosse addormentato in una delle sue pantofole ed aperse le cortine sbadigliando.

La finestra dava sul giardino, affatto solitario, dietro il quale passava una strada deserta. Aprì [p. 151 modifica]la finestra; la giornata era magnifica, le farfalle svolazzavano sopra i fiori, dorati dal sole, sotto un cielo limpidissimo: e.... ad un tratto udì il rumore di una carrozza.

— In questa Tebaide?

— Sì, signor marchese.

— E chi può essere la creatura perduta in queste latitudini?

— Il signor marchese può guardare.

E il signor marchese guardò.

La vettura si fermò dietro al muro del giardino, proprio in faccia a lui. Egli non poteva vedere perchè il muro era troppo alto, ma poteva udire.

— Che fortuna, marchese! Ecco che cosa vuol dire levarsi di buon’ora!

Ed il signor marchese da quel giorno si alzò ad un’ora e mezzo; e fece bene. — Perchè? perchè.... lo vedrete.

Stette attento e vide aprirsi una porticina nascosta fra l’edera; una donna profondamente velata passò per quell’apertura, chiuse la porta, attraversò l’angolo del giardino, che era protetto dai raggi del sole da un fitto pergolato, ascese la scala a chiocciola, che metteva in immediata comunicazione il giardino e l’appartamento del conte Ruitz de Llamanda, e penetrò nell’appartamento di questo degno gentiluomo.

— Gran Dio! sclamò il marchese. Quel brutto pulcinella, imbacuccato in capelli da spiga da grano turco, si regalerebbe ancora buone fortune!

— Scusi, signor marchese, ella s’inganna, e [p. 152 modifica]calunnia un onesto cittadino della grande patria alemanna. Il conte Ruitz è artista. Non fa ancora delle statue, ma fa dei busti. È vero che lavora poco, pochissimo, quasi mai, o giammai se le aggrada; ma guardi un po’ nel suo studio.... Eh! che ne dice? Convenga che quel busto del maggiore è vigorosamente modellato e quello della contessa russa è un capolavoro.

Infatti il conte lavorava di conserva quei due busti; e riceveva, come è d’uso, di tanto in tanto i due proprietari di quelle sembianze, l’uno per la porta di casa e l’altra per quella del giardino e del balcone. Era un bizzarria. Ma il conte ne aveva a bizzeffe delle bizzarrie.

Il marchese, infrattanto, che non restava a casa se non per dormire, non conosceva alcuno di questi particolari ed il suo vecchio padre, inchiodato dalla gotta su un seggiolone, ne sapeva ancor meno di lui.

Ma, a ventisei anni, un allievo dei gesuiti è curioso come qualunque altro delle donne velate. Il marchese si alzò il domani alle due meno un quarto. Suonano le due, le tre.... la dama velata non si vede.

— Che diavolo!... Andiamo fuori. Che mi sia alzato troppo tardi?

Al domani il marchese si alzò a un’ora. Attese fino alle tre. Tanto di dama che del gran turco!

— Era un uccello di passaggio. Non ci pensiamo più. No. Ancora una volta.

Ed il terzo giorno, il marchese si alzò a un’ora e mezzo, ed, in camicia e senza veste da camera, si pose alla finestra. [p. 153 modifica]

Un rumore di carrozza! eccola; si ferma alla porta del giardino. La donna velata entra; traversa il pergolato, ascende la scala a chiocciola; è nell’appartamento del conte.

— Eh! se andassi a far visita a questo animale di mio vicino? È il meno che si possa fare per un conte che custodisce i canarini della regina, los canarios de la reyna! Diavolo! gli è ch’e’ sono degni di stima, i canarini di quel birbo lì.

Mezz’ora dopo il marchese di Diano si faceva annunziare dal conte Ruitz de Llamanda, ma.... la signora non c’è.... Dove diamine la è passata?

— Benissimo, disse il marchese, tenteremo un altro mezzo.

Il domani la donna velata non venne. Il giorno dopo, siccome essa poteva venire, il marchese si levò a mezzodì, prese una carrozza, si appostò al lato opposto della via per dove la carrozza doveva passare, abbassò le tendinelle ed attese. Alle due un grazioso coupè color castagno oscuro apparve dall’altra parte e si fermò alla porticina del giardino. Il cocchiere, imbacuccato in una livrea nera orlata di giallo, non si mosse dalla serpa. La dama aprì lo sportello da sè, discese, lo richiuse, toccò in una certa maniera particolare un bottone della porta, che si aprì, ed eccola scomparsa. Il cocchiere voltò la testa del cavallo ed attese.

Attese fino alle quattro ed il marchese altresì. Poi la porta del giardino si aperse. Il conte, tenendo il suo berretto greco alla mano, schiuse lo sportello, la dama entrò nel coupè, il conte [p. 154 modifica]richiuse e via. Il marchese ordinò al suo cocchiere di seguire....

La corsa non fu lunga. All’estremità del vicolo, la vettura volse a dritta e disparve in un cortile o meglio dietro una porta, che le si chiuse dietro sull’atto.

— Cos’è quella porta, cocchiere?

— Eccellenza, non ne so nulla. Non conosco il quartiere.

— Sei un imbecille. Prendi e va a farti impiccare.

— Grazie, eccellenza.

Il cocchiere partì. Il marchese restò nella strada col naso in aria,

— Dove diavolo sono? si domandò.

Neppur un gatto da cui prender lingua.... Ma aspettate: passa un monaco, che non sa nulla; un mendicante, che ne sa altrettanto. Passa una vecchia, che è sorda; un prete, che non risponde. Sei ore! Chi diavolo può ormai passare a quest’ora? Ah! zitto, ecco il lampionaro; se costui non sa nulla, mi strangolo!

Il lampionaro! il lampionaro che fa il servizio di questa strada da vent’anni, non saperne nulla! — Marchese, per chi lo prendete mai? interrogatelo.

— Questa porta, eccellenza? Ma la è una delle porte del convento dei Miracoli.

Ma era così semplice, dunque? O uovo di Cristoforo Colombo!

— Sta bene, pensò il marchese; abbiamo il punto di partenza ed il punto d’arrivo.

Due giorni dopo, il marchese attendeva a quella porta, che il lampionaro aveva detto ap[p. 155 modifica]partenere al convento dei Miracoli. Alle due meno cinque minuti la porta s’apre, e la carrozza esce.

— Buon viaggio, so dove vai.

La vide, infatti, alla porta del giardino.

— Ora pensiamo alla dama, disse a sè stesso il marchese, domandandosi come mai le sante donne, che danno l’educazione cristiana alle figliuole dell’aristocrazia napoletana, possano andar a servire di modello, o a prender delle lezioni di scultura.

Passò per la piazza, ove si apre la porta principale della casa reale d’educazione per le fanciulle nobili, e vide l’equipaggio della regina madre Urraca, che andava spesso a visitare il convento.

— Povera divota regina! sclamò il marchese; se tu sapessi che tu proteggi di simili persone! Se tu sapessi che, mentre esamini codeste giovanette per assicurarti che esse seguono la via ortodossa, una delle pecorelle se la chiacchiera bello o meglio con un vecchio lupo! Ma sta tranquilla, sniderò codesto uccello, che non si contenta del suo nido.

Due giorni dopo il marchese per la via solitaria si trovò appunto sulla porta del giardino quando la carrozza si fermò. Da compito gentiluomo, vedendo una dama che si dava la pena di aprire ella stessa lo sportello della sua carrozza, s’affrettò a renderle questo piccolo servizio; da cavaliere napolitano le offrì il braccio per accompagnarla.

Ora, siccome la dama non accetta nè la mano nè il braccio e sembra malcontenta della pre[p. 156 modifica]senza di quell’importuno, il marchese s’impuntiglia al giuoco e si accolla dinanzi alla porta. Poi, siccome la donna gli fa un segno impetuoso di allontanarsi, il marchese diviene rosso di collera, calca le orme della dama nel giardino, le tiene dietro sotto il pergolato, ascende con lei la scala a spira, dà con lei la scalata al balcone del conte e si trova faccia a faccia con un Maggiore svizzero.

La dama fa un segno e sparisce dietro la portiera di velluto dello studio. Il Maggiore, rosso come un gambero cotto, sclama:

— Chi siete voi? Cosa volete?

— Vi dirò il mio nome altrove, se può farvi piacere; pel momento, voglio parlare a quella dama.

Il Maggiore misura uno schiaffo, che parato a tempo dal marchese, va a cadere sulla faccia del conte, mentre l’aggressore ne riceve uno a sua volta formidabile. All’indomani il marchese ed il Maggiore si battevano alla spada. Questo bell’uomo, ch’era venuto a sostenere il trono dei borboni a 250 franchi il mese, non doveva più, poveretto! udire il ranz des vaches1 delle sue montagne.

Non si uccideva allora un bell’uomo a Napoli, così sicuramente come vi si poteva uccidere un carbonaro, quand’anche fosse un repubblicano.... svizzero. Il marchese fu obbligato a nascondersi. Suo padre pregò il conte di Llamanda d’implorare dalla regina che ottenesse la grazia di suo figlio. L’eccellente regina Urraca fu com[p. 157 modifica]mossa dal dolore di quel vecchio, dalle preghiere del custode de’ suoi canarini, dalla causa del duello; il re, che doveva avere qualche riguardo per sua madre, si rabbonì, piegò e finì col far grazia. Il marchese andò a ringraziare il re e la regina madre.

Da quel giorno abbandonò la casa paterna, prese in affitto un piccolo appartamento del palazzo Sirignano, a Fontana Medina, e divenne guappo. Chi avrebbe osato litigare con lui, che aveva ucciso un sì grosso selvaggiume e che aveva provato di aver tanto favore a corte, colla grazia ottenuta?

Nella cucina del suo appartamento tutti i sorci della casa andavano a dare delle feste da ballo. Grog, che dopo la piccola disgrazia toccata nella sua discesa accelerata, aveva avuto l’ambizione di avanzare di grado, riceveva le sue relazioni nella sala da pranzo. I ragni si erano impadroniti della sala di ricevimento.... Le altre due stanze soltanto restavano per uso del marchese.

Nel piccolo gabinetto e nella stanza da letto regnava e governava, quindi, il massimo disordine.

Gli stivali erano sul canapè, gli abiti per terra o sulle sedie. Sopra un armadio stava un utensile, che per solito si tiene nascosto in un piccolo mobile vicino al letto. Il marchese lo nascondeva, a dire il vero, sotto un volume di Paul de Kock, preso a prestito dal vicino gabinetto di lettura.

Le pipe, i sigari erano misti, sul tavolo, alle lettere, a’ bigliettini profumati, di differenti colori. Qua e là differenti pistole, dei biglietti di [p. 158 modifica]visita, delle scarpine da ballo, i pazienti conti del sarto e del calzolaio, delle cravatte, delle spille e degli anelli, dell’acqua antiemorragica del Binelli, delle filaccie, dei taffetà, dello sparadrappo, dei fiori appassiti, delle fotografie di donne, degli speroni e degli scudisci, delle pomate, dell’acqua di odore, delle pastiglie, della polvere dentifricia, delle spazzole ed un berretto turco.

Davanti il letto una pelle di lupo ed una veste da camera meglio appariscente che ricca; le cortine del letto bruciate in diversi siti dal sigaro; le coperte tutte strapazzate. I muri zebrati di sciabole, stocchi, pistole, fucili, fioretti, d’uno scudo romano, — che il signor Quaranta assicurava essere la non bene relicta famula, di Orazio, quando fuggì dal campo di battaglia di Farsaglia, — d’una mazza d’arme del medio evo, — che il marchese giurava aver appartenuto a Riccardo Cuor di Leone dacchè aveva letto in un romanzo le prodezze di quel re inglese, — d’una corazza di maglia, d’un elmo da pompiere, — battezzato dal marchese come elmo del Tancredi del Tasso, — d’una corazza ed altri oggetti d’armatura del medio evo, d’un uniforme verde di guardia urbana.

Sulla teletta finalmente si vedeva una piastra di rame che veniva da un berrettone da granatiere, morto, — pretendeva il marchese, — a Ulma; un guanto che aveva appartenuto alla Colbrand, un mazzolino di fiori appassiti della Pasta, una pantofola della Taglioni, e il “se il padre m’abbandona„ dell’Otello, scritto dalla mano di Rossini. [p. 159 modifica]

Non parlo dei pettini, dei solini, del calamaio e delle penne, d’un sonetto principiato e lasciato lì dopo la prima quartina....

In mezzo a questa farragine di cose, il marchese stava ritto come la colonna di Trajano. Moralmente parlando, bene inteso, poichè fisicamente, senza essere di piccola statura, il marchese non era molto grande.... Non era nè grasso nè magro, ma ben proporzionato, solido e muscoloso.

Portava la barba intiera: una bella barba, nera come i suoi capelli ed i suoi occhi. Se non seguiva esattamente la moda, talvolta la precedeva. Del resto elegante ma semplice, vestendosi sempre in Inghilterra da Davis, da Waterloo Place, che non toccò mai un soldo delle sue fatture. Il suo panciotto aveva sempre qualche bottone allacciato per isghembo; portava sempre un bastone armato, dei guanti gialli, i capelli un po’ arruffati ed il cappello sull’orecchio destro. Il marchese non parlava mai l’italiano, ma il dialetto napoletano, di cui conosceva tutte le finezze un po’ leste e gli scherzi poco puliti. Gesticolava molto ed energicamente. Fumava, giuocava e dava del tu a tutti.

Circondato da una massa di sacripanti che gli si dicevano amici, la spacciava da padrone e in mezzo ad essi sputava sentenze e decreti. Era conoscitore di ragazze, di cavalli, di cani, di ballerine, di cantanti e d’artisti. Con una parola giudicava ciò che poteva esser materia di un’appendice teatrale. Proteggeva tutte le seconde donne dei teatri di musica. Conosceva tutti gli scapestrati della città, gli usurai, i mer[p. 160 modifica]canti di cavalli, i dissipatori, i truffatori, quantunque fosse relativamente onesto.

Al caffè chiamava il cameriere dando un colpo di bastone sul tavolo, o gli gettava in faccia ciò che gli aveva chiesto, col piatto e tutto, se non gli andava a genio. A teatro parlava sempre ad alta voce, arrivava tardi e se ne andava prima che finisse, camminando sui piedi dei vicini; guardando con aria ironica i giornalisti, con aria protettrice le donne e con aria di sprezzo il resto del genere umano.

Tale era il marchese di Diano.

Avendo, dunque, ottenuta la grazia di sfuggire ai lavori forzati, in causa del duello, il vecchio principe di Noto, come abbiamo già detto, si trascinò a corte e presentò suo figlio al re perchè lo ringraziasse. Ferdinando II lo rimproverò severamente.

Presentato poscia alla regina madre, il marchese ebbe l’onore di baciarle la mano, dopo ch’ella gli ebbe ricordato dolcemente che una donna velata dev’essere rispettata e che la collera, che fa mettere le mani nel sangue, non è aggradevole al Signore.

Il conte di Llamanda era là a dar da mangiare ai canarini. Tutto ciò era naturale. Il re aveva fatto grazia non potendo rifiutarla alla regina; la regina l’aveva chiesta commossa dalle lagrime del principe di Noto, vecchio servitore dei Borboni; il re si era mostrato severo, da guerriero qual era, la regina si era mostrata buona e dolce cattolica.

Ma ciò che vi ebbe di più curioso si fu che il conte di Ruitz, che avrebbe dovuto essere in [p. 161 modifica]una gran collera, restò amico del marchese, al punto che questi andò, da quel momento, spesso a visitarlo ed in un ballo in cui s’incontrarono, egli lo presentò a sua figlia.

E la donna velata? chiederà il lettore.

La donna velata continuò le sue sedute, pel busto, dal conte, come se un valoroso figlio della Svizzera non si fosse fatto uccidere per essa: anzi le continuò più regolarmente e più spesso di prima.

In quanto al marchese di Diano, da che era stato presentato a miss Cecilia, siccome era molto distratto, sbagliò spesso d’appartamento ed invece di andare a trovare il padre andò a chiacchierare colla figlia.

Le visite al padre divennero anzi sempre più rare di settimana in settimana; quelle alla figlia più frequenti; ma col tempo neglesse le une e le altre; e, da un mese, aveva cessato ogni relazione con tutti e due.

Bruto osservò più tardi che questo abbandono del marchese coincideva colla scomparsa della figlia del colonnello Colini.

La donna velata restò fedele. Quel diavolo di busto non finiva mai; credo anzi che non fu mai finito.

Tutto ciò ha un aspetto equivoco, direte voi. Andiamo, dunque, dal conte per cercar di averne il bandolo. Egli è, appunto, nella camera di sua figlia.


Note

  1. Aria nazionale svizzera.