Il sorbetto della regina/Parte prima/VI

Parte prima - VI. I cani di Don Gabriele

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CAPITOLO VI.


I cani di don Gabriele.


Don Gabriele condusse Bruto in un caffè, via Speranzella. Entrò pel primo e sedette ad un tavolino, poi picchiò col suo grosso bastone, gridando in pari tempo:

— Bottega! bottega!

— Ai vostri ordini, Eccellenza, rispose dal fondo della bottega un garzone in maniche di camicia, senza calze ed in pantofole.

— Imbecille! gridò don Gabriele, offeso probabilmente da quel titolo di Eccellenza. Un bicchier d’acqua senza zucchero, del fuoco e il Poliorama.

— Subito, Eccellenza, continuò l’imperturbabile cameriere.

— Bestia! questo per me.

— Benissimo. Una bestia per vostra Eccellenza e poi?

Don Gabriele sorrise e soggiunse:

— La bestia è per te come mancia; per questo signore un tocchetto.

— Un tocchetto pel signore. [p. 53 modifica]

— Un tocchetto... di quale gusto lo preferite voi, don Bruto?

— Di tutti i gusti.

— Che orgia! Hai inteso? Al gusto del rhum, dell’anisetto, del curacao, del rosolio... insomma a quanto hai di meglio.

— Un tocco a tutti i sensi pel signore, gridò il cameriere.

— No: solamente all’anisetto.

— Un tocco all’anisetto, gridò di nuovo il giovine.

E un minuto dopo li serviva, molto soddisfatto del suo spirito; perchè vi sono nel dialetto napoletano dei qui pro quo ingegnosi tra il tocco, che significa apoplessia, il tocchetto, bicchierino, ed il senso che vuol dire gusto; qui pro quo intraducibili in buon italiano.

Bruto non aveva domandato che un grano di caffè con l’anisetto. Per prodigalità, fu servito nell’istesso tempo di una mezza dozzina di mosche. Partito il garzone, don Gabriele accese un sigaro e ne offerse uno a Bruto.

— Grazie, disse questi. Raccontatemi ciò che avete scoperto.

— Poco. Ma siamo sulla traccia... forse....

— Se siamo sulla traccia, sfido il diavolo d’impedirci di andare avanti.

— Hum! fece don Gabriele; quando Fuina si ferma, sfido il diavolo, io, ed il padre del diavolo ad andar più avanti.

— Prima di tutto, codesto Fuina, caro don Gabriele, chi è?

— Sta tranquillo, ragazzo, sta tranquillo; non è nè il presidente del consiglio, nè un santo del paradiso... oh! no. [p. 54 modifica]

— Chi è dunque?

— È un ispettore di polizia, mio amico, che incontro tutti i giorni al caffè del Molo, ove sorveglia me prima, poi tutti gli altri che vi capitano. Parla con tutti e di tutto, anche del Giappone, delle scoperte nella luna di Herschell, della guerra delle Indie, della Rivoluzione del Belgio. I capitani di bastimento di tutte le parti del mondo, che vengono a quel caffè, non sanno la metà di quello che sa Fuina. Parla tutte le lingue. Credo che sia stato pirata.

— Non lo credo, disse Bruto. Un corsaro ruba ed assassina, ma non fa la spia.

— Ogni genere ha le sue varietà, ragazzo. In ogni caso, siccome io lo conosco da dieci anni, gli ho raccontato l’affare del sergente e della Giuseppina e gli ho pagato un sorbetto.

— Un pirata che prende un sorbetto! Alto là: l’avrei riconosciuto e rispettato se avesse preso un punch al vetriolo.

— Fuina prende tutto, quando non gli costa nulla, un caffè e panna, o un bicchierino di acido nitrico. Fatto è che, dopo avermi ascoltato con attenzione, riflettè un momento, tirò fuori di saccoccia un portafoglio molto sporco e prese alcune note. Poi mi disse: Verrai a trovarmi qui domani — questa mattina — e vedremo se c’è qualche cosa da fare.

— Ci sei stato, dunque?

— Ne vengo difilato.

— E ti ha detto?

— Nulla. Gli ho pagato una tazza di caffè con un bicchierino di rhum e l’ho seguito da lontano. [p. 55 modifica]

— Per rispetto?

— Per suo ordine. Fuina cammina sempre solo. Conosce tutti, ma non s’accompagna mai con nessuno.

— Per orgoglio o per pudore?

— Domandaglielo tu stesso alla prima occasione. Siamo stati alla prefettura di polizia, lui avanti, io indietro; siamo saliti alto alto, fino all’ultimo piano e ci siamo fermati dinanzi ad una porta sulla quale si legge: Archivi generali.

— Comincio a capire, disse Bruto.

— Era chiaro come il sole, ma convieni che nè tu nè io non ci avevamo pensato. Fuina ha aperto ed è entrato. — Aspetto qui? gli chiesi. — No, vieni con me, ha risposto. Voglio provarti che quando Fuina promette, mantiene. L’usciere lo conosceva; abbiamo traversato un cupo corridoio, pieno di filze vecchie e polverose e siamo entrati in un gabinetto che stava in fondo di esso.

— Eccomi, signor conte, ha detto Fuina, levando rispettosamente il cappello ad un ometto mingherlino, pallido, con una vocina sottile e le maniere di una dama, pieno di urbanità e di cortesia.

— Ho ciò che vi occorre, ha risposto il conte alzandosi e andando verso un canapè, su cui si è assiso ed ha fatto sedere Fuina. Io restai in piedi.

— Così va! esclamò Bruto, un povero diavolo, che ha l’abito bucato, non deve aver l’impertinenza di esser stanco. Ritto sulle zampe, cane!

— Ebbene! t’inganni, disse don Gabriele; il [p. 56 modifica]conte mi ha chiesto se le notizie che venivano a cercare m’interessavano molto, ed, avendogli io risposto di sì, mi ha indicato una sedia vicino al canapè, m’ha fatto sedere e da quel momento non ha più parlato che a me. E devo soggiungere che quella specie di ripugnanza, che mi era sembrato di scorgere in lui quando parlava a Fuina, spariva quando s’indirizzava al suo umile servitore. Non era più il superiore: l’uomo della polizia che parla ad un agente inferiore: era il gentiluomo che rende un servigio ad un povero diavolo.

— Il vostro conte, se non è un conte, non resterà al suo posto, caro don Gabriele, con questi principii.

Una parentesi. Doveva toccare al governo italiano la trista gloria di metter in riposo, prima del tempo, questo conte Gaddi, che non era un conte, come diceva Bruto. Ma tiriamo innanzi e che Dio perdoni al governo italiano questa sciocchezza, che non è la sola!

— Il conte ha preso, dunque, un gran fascio di vecchie cartaccie, continuò il burattinaio e cominciando a sfogliare ai luoghi, dove per segno aveva piegato il foglio, mi chiese:

— Sapete voi chi era cotesta Giuseppina Tortora?

— No, signore, ho risposto, sono incaricato da una terza persona d’informarmene.

— Sta bene, allora procediamo per ordine, ha soggiunto il conte. Nel 1813 il convento delle monache di Santa Maria di Costantinopoli era stato abolito dal re Murat. In questo convento si trovava una monaca di non so quale città [p. 57 modifica]dell’alta Italia, molto vecchia, che aveva presso di sè una giovinetta di una sedicina di anni che la serviva. Questa ragazza era entrata nel convento all’età di tre o quattro anni. Ella si ricordava appena di aver viaggiato diversi giorni in carrozza con un’altra donna e non seppe mai dare altre informazioni di sè. La polizia sospettò che fosse parente di quella vecchia religiosa.

“Era Giuseppina, la quale si fece poi chiamare Tortora, non saprei dirvi perchè. La vecchia monaca si chiamava suor Serafina nel convento, e Giulietta Aldossi al secolo. Soppresso il convento, suor Serafina e Giuseppina presero in affitto una stanza a San Giuseppe dei Nudi e vissero insieme della pensioncella della monaca, di un po’ di denaro che aveva messo da parte e del prodotto dei ricami che Giuseppina eseguiva per alcune dame restate in segreto fedeli ai Borboni.

Qui Fuina si è permesso d’interrompere il conte ed ha esclamato:

— I fedeli restano sempre nell’ombra; i ribelli soli hanno il coraggio di confessare ciò che sono e si fanno impiccare.

Il conte lo ha fissato fra i due occhi e, senza rispondergli, ha continuato:

— Le due donne vissero così, onestamente, per alcuni mesi. Ma rimpetto a loro abitava un giovane ufficiale di cavalleria, che aveva perduto un braccio e di cui è inutile aggiunger altro.

— Scusi, signor conte, ho detto io; non sarebbe egli il sergente Pietro Colini, soprannominato Sacco-e-Fuoco? [p. 58 modifica]

Il conte ha guardato alla mia volta, di poi ha ripreso:

— Egli appunto. Pietro Colini era sergente nell’esercito napoletano nel 1799. Ma era colonnello e barone nell’esercito francese.

“I medici francesi l’avevano inviato ad Ischia perchè guarisse dalle ferite. Il colonnello vide Giuseppina, se ne innamorò e restò a Napoli. Ma, siccome in quegli anni i militari non avevano tempo da perdere, il colonnello Colini rapì Giuseppina e la condusse in una camera del vico del Sole, per nasconderla. Poco tempo dopo Giuseppina si trovò incinta. In quegli stessi giorni Napoleone sbarcava a Cannes e la guerra ricominciava.

Una mattina, Giuseppina ricevè una lettera del colonnello, in cui le annunziava la sua partenza per l’esercito, ove Napoleone chiamava tutti i suoi prodi. Il barone le lasciò tutto quello che possedeva: le promise di ritornare generale o di non ritornare affatto: poichè pareva stanco del grado e della paga di colonnello, dacchè aveva un’amante ed una figlia.

— E tenne parola? ho domandato al conte.

— Non interamente. Ritornò diciotto mesi dopo, con una gamba di meno, ma sempre colonnello. Napoleone, dopo Waterloo, non aveva forse avuto tempo di nominarlo generale e conte. Il colonnello Colini aveva avuto delle relazioni con Murat, era amico del principe Eugenio. I Borboni di Francia lo misero fuori dell’esercito francese. Arrivato a Napoli, il governo del re Ferdinando non volle riconoscergli che il grado di sergente, che si era guadagnato nell’esercito [p. 59 modifica]del re, sotto il generale Mack. Il colonnello se ne lagnò.

“Il ministro della guerra lo raccomandò al principe di Canosa, che lo fece gettare in una prigione per misura di polizia. La Corte dei conti non regolò mai la pensione. Il colonnello non la domandò più, non parlò più a nessuno del suo affare e promise di rassegnarsi al suo grado di sergente. Uscì di prigione dopo due anni e fu internato in provincia.

— Colonnello e barone! esclamò Bruto. Ah! il sornione! non me ne ha mai detto nulla.

— Sì, gli è veramente duro a cuocere, disse don Gabriele. Ma ritorniamo al conte. Quando il colonnello ritornò, ha egli continuato, non mancò di informarsi della sua amante e della sua bimba. Ma non potè ritrovare nè l’una, nè l’altra.

— Non è colpa sua se non le ha trovate, giacchè da diciott’anni le cerca, ho fatto osservare io al conte.

— Non ne dubito punto, ha egli risposto. Due mesi dopo la partenza del colonnello, Giuseppina aveva messo al mondo una bambina. I pochi scudi, lasciatile dal suo amante, sparirono prontamente. Ritornò presso la vecchia suor Serafina a San Giuseppe dei Nudi. Una settimana o due dopo, la monaca morì. Giuseppina restò sola, senza danaro, senza conoscenza del mondo, con una bambina. Non conosco interamente il dramma domestico di quella donna. La polizia non è curiosa degli spasimi dell’anima e delle sue lotte, ciò riguarda Iddio. Poco dopo, un giorno, ella portò sua figlia ai trova[p. 60 modifica]telli all’Annunziata, con una lettera in cui assicurava che verrebbe a riprenderla appena la fortuna si mostrasse più clemente e Dio più misericordioso.

“Poi avvenne ciò che avviene di solito a tutte le donne giovani e belle, che hanno commesso il primo fallo, che sono sole, poco abituate al lavoro ed in preda alle tentazioni, ai bisogni, alle esigenze della gioventù e della bellezza. Cominciò col darsi, finì col vendersi.

— Me ne ricordo, ha detto Fuina.

— Tutta questa dolorosa ed impura storia è qui, ha continuato il conte, in questo fascio di carte, raccontata da Giuseppina e da altri e compilata da un giudice istruttore, in occasione dell’assassinio di un ufficiale svizzero, ucciso da uno studente che non volle lasciarsela prendere, nel luogo infame ove si trovava.

— Ciò appunto, ha soggiunto Fuina. Lo studente trasse uno stocco dal suo bastone. L’ufficiale sguinò la spada: il duello ebbe luogo sotto la lampada della Madonna dei Sette Dolori, appesa nell’anticamera di quella onesta casa. L’ufficiale fu ucciso.

— Perfettamente, ha proseguito il conte, fu arrestata perchè era dessa che aveva eccitato lo studente contro l’ufficiale cui detestava. Poco tempo dopo uscì di prigione, corse di strada in strada, di casa in casa, e venne a naufragare all’ospitale di Santa Maria della Fede.

“È là che fu raccolta dal padre Cutillo. Ma di lì a poco, giovane ancora, riposata dalla vita orribile, condotta fino allora, noiata delle regole severe che il padre Cutillo imponeva [p. 61 modifica]all’istituzione delle Pentite, refrattaria alla correzione, disprezzando il lavoro, Giuseppina sparve un bel mattino dal ritiro del prete filantropo, rubando alcuni oggetti d’argento e non se ne ebbe più notizia. Il rapporto del padre Cutillo sulla sua fuga è l’ultimo foglio dell’istruzione che riguarda questa donna. Aggiungo che alcui mesi avanti era andata a ritirare sua figlia dall’Ospizio dei poveri, ove era stata inviata uscendo dai Trovatelli.

— A che età? chiese Fuina.

— A dodici anni.

— E la polizia non l’ha più rinvenuta su i suoi passi? ha esclamato Fuina. Io ero assente a quell’epoca.

— Nol credo, ha risposto il conte: non c’è più traccia di lei negli archivi. La si è cercata pertanto e la si cerca ancora a causa del furto.

— Allora, o è morta, o ha cambiato nome, o è andata in provincia, ha osservato Fuina.

— È possibile, ha risposto il conte d’un tono calmo e freddo levandosi.

Ciò significava che le informazioni, che aveva a darci, erano esaurite e che non avevamo più che a lasciarlo libero. L’ho ringraziato e non ho avuto nulla a pagare, altro che due carlini all’usciere, il quale ha esatto la mancia con quella buona grazia che un brigante mette a chiedere la borsa o la vita. Ed eccomi qua. Fuina ha salutato il conte con grande deferenza, ed è andato dal prefetto a fare il suo rapporto su ciò che veniva di sapere.

Bruto restò lungamente silenzioso, poi disse:

— Ma questo non basta. Una creatura non [p. 62 modifica]isvapora come una goccia d’acqua al sole. Morta, pentita, o trasfigurata, ha detto Fuina. Ecco tre strade che dobbiamo percorrere per arrivare all’incognito. Chi muore lascia una traccia.

— Sì, ma chi cangia nome, ordinariamente non ne lascia alcuna. Ed è quella, appunto, la strada che sceglie chi vuol sottrarsi alla polizia.

— Ma allora che fare?

Don Gabriele si grattò il capo, mandò fuori una boccata di fumo, poi aggiunse lentamente:

— Ascolta, giovinotto. Se questa donna è morta, o se si è pentita, il tuo colonnello non ha più nulla a che farci. Torna lo stesso, è perduta per lui.

— Dunque? chiese Bruto con ansietà.

— Dunque, continuò don Gabriele, noi abbiamo da constatare una cosa sola: che la non è a Napoli.

— Ma se la polizia non ne sa nulla e rinuncia a cercarla, come arriveremo noi a scoprirla? Conosci forse tu un altro Cristoforo Colombo?

— Vedremo; tanto più che c’è quivi di mezzo una ragazzina.

— Ma in che maniera?

— In che maniera? ecco: io ragiono così. Una donna, che fugge dal ritiro delle Pentite, rubando delle bazzecole, lo fa per andare a corte, o per andare a civettare in una carrozza blasonata alla Riviera di Chiaja.

— Mi par chiaro questo.

— Una donna giovane e bella ancora, che [p. 63 modifica]scappa dalle Pentite, è segno che il pentimento l’annoiava, che la penitenza la seduceva poco; in una parola, che la grazia del padre Cutillo non era stata per lei la grazia efficace.

— Dunque?

— Dunque, poichè la polizia ha perduto le sue tracce ed essa ha interesse a sapere ove la si nasconde, a causa degli oggetti portati via senza permesso, vuol dire che Giuseppina vive modestamente in qualche angolo colla figlia.

— Ciò non è proprio la conseguenza assoluta di queste premesse, esclamò Bruto: ella potrebbe aver trovato qualche canonico che ne abbia fatto una monaca di casa.

— No, replicò don Gabriele: c’è la ragazza di dodici anni che guasta l’ipotesi. Se ne avesse sedici, potremmo fabbricare un’altra supposizione.

— Ne ha diciotto all’ora che siamo, mi pare.

— Sì, ma procediamo per ordine. Bisogna trovare la prima orma del selvaggiume, poi seguirla.

— Concludiamo dunque.

— Ebbene, c’è una polizia, caro mio, che è al di sopra di tutte le polizie del mondo.

— Quale?

— Quella del papa.

— Per bacco! gridò Bruto. Ti prendo a volo.

— Allora, è detta. Questa donna ha bisogno di religione, ci creda o no, per mascherarsi e per vivere. Queste esistenze finiscono sempre alle sagrestie. Le donne non vivono che di due cose: di virtù, malamente; di peccato, spesso [p. 64 modifica]bene, meglio sempre che di virtù. Or bene bisogna proprio che il curato, presso cui il tuo rispettabile zio serve le messe e suona le campane, scriva ai suoi dodici colleghi dei dodici quartieri di Napoli, affinchè interroghino i confessori delle loro parrocchie sopra la Giuseppina Tortora o sopra una donna che abbia traversato all’incirca le avventure di quella donna; che il curato di tuo zio scriva ai superiori del Convento.... o meglio, per far più presto, che si indirizzi all’arcivescovo e gli domandi, per grazia, di completare le informazioni della polizia e dormi poi tranquillo. Da qui a due o tre settimane avrai della tua Giuseppina o un estratto di morte, o un numero di passaporto, o un’indirizzo.

Bruto si alzò e, in uno slancio d’entusiasmo, abbracciò don Gabriele. Questi si lasciò abbracciare intrepidamente, poi soggiunse:

— Ho mantenuta la mia parola. Ora, alla tua volta, la tua idea per la commedia.

— Io vi propongo di meglio, caro don Gabriele, rispose Bruto; vi do l’idea della commedia per le vostre marionette e vi fo mio collaboratore per la confezione di un dramma da darsi ai Fiorentini.

— Sognate, giovinotto?

— Sì, un dramma ed una buona azione.