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— Per rispetto?

— Per suo ordine. Fuina cammina sempre solo. Conosce tutti, ma non s’accompagna mai con nessuno.

— Per orgoglio o per pudore?

— Domandaglielo tu stesso alla prima occasione. Siamo stati alla prefettura di polizia, lui avanti, io indietro; siamo saliti alto alto, fino all’ultimo piano e ci siamo fermati dinanzi ad una porta sulla quale si legge: Archivi generali.

— Comincio a capire, disse Bruto.

— Era chiaro come il sole, ma convieni che nè tu nè io non ci avevamo pensato. Fuina ha aperto ed è entrato. — Aspetto qui? gli chiesi. — No, vieni con me, ha risposto. Voglio provarti che quando Fuina promette, mantiene. L’usciere lo conosceva; abbiamo traversato un cupo corridoio, pieno di filze vecchie e polverose e siamo entrati in un gabinetto che stava in fondo di esso.

— Eccomi, signor conte, ha detto Fuina, levando rispettosamente il cappello ad un ometto mingherlino, pallido, con una vocina sottile e le maniere di una dama, pieno di urbanità e di cortesia.

— Ho ciò che vi occorre, ha risposto il conte alzandosi e andando verso un canapè, su cui si è assiso ed ha fatto sedere Fuina. Io restai in piedi.

— Così va! esclamò Bruto, un povero diavolo, che ha l’abito bucato, non deve aver l’impertinenza di esser stanco. Ritto sulle zampe, cane!

— Ebbene! t’inganni, disse don Gabriele; il