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conte mi ha chiesto se le notizie che venivano a cercare m’interessavano molto, ed, avendogli io risposto di sì, mi ha indicato una sedia vicino al canapè, m’ha fatto sedere e da quel momento non ha più parlato che a me. E devo soggiungere che quella specie di ripugnanza, che mi era sembrato di scorgere in lui quando parlava a Fuina, spariva quando s’indirizzava al suo umile servitore. Non era più il superiore: l’uomo della polizia che parla ad un agente inferiore: era il gentiluomo che rende un servigio ad un povero diavolo.

— Il vostro conte, se non è un conte, non resterà al suo posto, caro don Gabriele, con questi principii.

Una parentesi. Doveva toccare al governo italiano la trista gloria di metter in riposo, prima del tempo, questo conte Gaddi, che non era un conte, come diceva Bruto. Ma tiriamo innanzi e che Dio perdoni al governo italiano questa sciocchezza, che non è la sola!

— Il conte ha preso, dunque, un gran fascio di vecchie cartaccie, continuò il burattinaio e cominciando a sfogliare ai luoghi, dove per segno aveva piegato il foglio, mi chiese:

— Sapete voi chi era cotesta Giuseppina Tortora?

— No, signore, ho risposto, sono incaricato da una terza persona d’informarmene.

— Sta bene, allora procediamo per ordine, ha soggiunto il conte. Nel 1813 il convento delle monache di Santa Maria di Costantinopoli era stato abolito dal re Murat. In questo convento si trovava una monaca di non so quale città