Il sigillo d'amore/La sedia
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LA SEDIA.
Un giorno del settembre scorso passavo, verso sera, in una strada popolare di Roma. La strada, come del resto tutte le altre della città, era allora completamente rotta per il rinnovamento del selciato; e nel primo velo del crepuscolo aveva l’impressione di uno di quei sogni quando si cammina lungo gli abissi o fra le gole dei monti, e arrivati a un certo punto non si può andare più avanti nè tornare indietro: solo un provvido risveglio ci salva dalla morte per spavento.
Arrivata a un certo punto, come in quei sogni strani, fra uno scavo lungo e profondo e una striscia di marciapiede ingombra di cumuli di pietre livide che mi ricordavano i natii nuraghes, un ostacolo fermò davvero il mio insolitamente cauto procedere: era una bella sedia nuova, bassotta, solida, coi bastoni delle gambe e dello schienale bianchi e forti come colonne, e il fondo, pure bianchiccio, alto rafforzato da liste di legno: insomma un tipo di sedia per cucina perfezionato e ingrandito. Nonostante il suo probabile peso, la sedia poteva rimuoversi per passare; il fatto è che era seguita e accompagnata da una interminabile fila di ottime consorelle, tutte appoggiate al muro di un vecchio casamento. Pareva si godessero il fresco e lo spettacolo, così sospese sull'abisso degli scavi, e nello stesso tempo si offrissero, fra benevoli e beffarde, allo smarrito e stordito passeggero.
Indispettita e stanca, pensavo di approfittare davvero dell’invito e aspettare che la provvidenza, nella quale ho profonda fiducia anche nei casi più disperati della vita, mi dimostrasse la sua bontà, quando alla porta del piccolo negozio che aveva messo fuori così imperterrito la sua merce monumentale, si affaccia la padrona e mi squadra dall'alto coi suoi occhi bovini, aumentando la mia impressione di smarrimento. È una vecchia, una di quelle terribili vecchie come se ne vedono solo nei quartieri popolari delle grandi città, alta, grassa, barbuta e con la pancia a cupola. Rossiccia ancora di capelli, vestita dello stesso colore, dava l’idea che i suoi antenati fossero un tigre e una leonessa, di quelli ammaestrati per divorarsi con appetito i cristiani nei circhi dell'antica Roma.
Quando ebbe indovinato con chi aveva da fare, mi salutò con un cenno del capo, come si usa coi dipendenti.
— Vuole?
— Vorrei passare, — dico io umilmente.
— Passi, passi pure, — concede lei, senza smuovere una sedia: e poichè mi vede incerta e candida, riprende con voce mutata: — Non le occorrono sedie per cucina? Sono magnifiche, guardi, (ne solleva una e la sbatte per terra). Durano eterne: e poi sono comode, provi a sedersi, provi.
Dà l’esempio lei, e a dire il vero ci si adagia così bene, col suo superbo sedere, che convince la nuova cliente ad imitarla. Provo dunque; e mai sedia al mondo, neppure quella vellutata e girevole del mio dentista, mi è parsa più comoda e fantastica: quel paesaggio di pietre smosse, di scavi, di case gialle sospese come sopra una frana, contemplato così di fronte, prende un aspetto diverso, nuovo, piacevole e riposante. Mi pare di essere come in viaggio, quando d’improvviso il treno si ferma per un guasto alla macchina, e il paesaggio dapprima fuggente, che stordiva lo sguardo, si cristallizza come dipinto sul cielo in un misterioso sfondo di silenzio.
La gratitudine per questa gradevole impressione e anche la fantastica idea che la sedia, messa sulla mia terrazza al posto della banale poltrona di vimini, riesca a farmi vedere diverso il solito stucchevole orizzonte, mi convince a intavolare le trattative per un probabile acquisto.
— Quanto viene?
— Quante ne vuole? Una dozzina? — domanda la donna tutta premurosa e amabile.
Sentito che me ne occorre solo una, cambia accento e torna a squadrarmi con disdegno.
— Una le viene sulle quaranta lire.
— Spavento! Ma se ho pagato quaranta lire una poltrona di vimini?
Non lo avessi mai detto. La donna balza in piedi come una bomba pronta a scoppiare. Mi sento il dovere di alzarmi anch’io, frenando la mia paura.
— Ma quando l’ha comprata? Mezzo secolo fa? O nel paese della cuccagna? Ma lei mi porti qui cento sedie di vimini ed io gliele pago subito, a pronti contanti, cento lire l’una.
E faceva atto di contare i biglietti, buttandoli verso di me con rabbia e disprezzo. Sentivo che una sola parola poteva perdermi: una sola parola di discussione ed io andavo a finire nel fosso con tutte le sedie sopra. Ho però anch’io la mia dignità, e come sempre in simili casi penso di battere in silenziosa ritirata.
La donna mi richiama: sento che è disposta a seguirmi: ho davvero paura. Mi fermo, senza voltarmi, come la tartaruga quando si sente inseguita. Se il cacciatore ha da pigliarmi mi pigli, purchè non mi ammazzi.
Così la vecchiona mi raggiunse, scavalcando le sue sedie, e me la sentii alle spalle col suo ventre di gomma.
— Senta, signora, — le dico gentilmente, tanto per salvare la dignità, — le dò trentacinque lire. Va bene?
Ella ne chiese trentasette: ed io sborsai, tirando fuori anche una carta da visita con l’indirizzo, onde la sedia mi venisse mandata a casa.
Ma la donna mi fa sapere che non ha chi mandare, e devo quindi far ritirare io l’acquisto.
*
Qui cominciò davvero l’avventura.
Come uno spirito sotterraneo balzò fuori dagli scavi e si arrampicò su un cumulo di ciottoli un ragazzetto nero arruffato e seminudo.
Di lassù stette ad ascoltare la nostra vicenda, e capito subito di che si trattava, senza essere interpellato si offrì di portarmi lui subito la sedia a casa. Io gli avrei insegnato la strada che egli diceva di non conoscere.
La donna però doveva conoscere bene lui perchè mi consigliò di far prima i patti.
— Facciamo a tassametro, — disse lui, sempre dall’alto, — primo scatto una lira, dieci centesimi ogni cento passi di poi.
— Allora la sedia la pago una seconda volta a te, — osservo io. Interviene la donna e si fissa il compenso in lire due: di queste il ragazzo ne vuole subito una, per il primo scatto, vale a dire per il salto dal cumulo delle pietre a terra.
— E non lo perda d’occhio, — mi consiglia la donna: al che egli brandisce la sedia per vendicare il suo onore offeso, poi mi passa davanti, sull’orlo dell’abisso, e dice con accento marziale:
— Andiamo.
*
Andiamo. Sul principio egli cammina rapido ed io stento a seguirlo in quel labirinto di rovine. Ma più giù la strada si fa meno difficile e il ragazzo incontra un primo amico, col quale si scambiano un mucchio di insolenze e di scherzi, a proposito della sedia. Io li raggiungo e convinco il ragazzo a proseguire con me; anzi tento una benevola conversazione con lui.
— Come ti chiami? Vai a scuola? Cosa fa tuo padre?
È come parlare con la sedia, ch'egli adesso s’è caricato sulla testa; e con la testa irrequieta sotto quella specie di tettoia, egli si volge di tanto in tanto a guardare indietro, arrabbiato e provocante, e fischia acutamente appuntando le labbra perchè il suono ne esca più lungo e sottile.
È un fischio di richiamo, di quelli che usano gli uomini della malavita per comunicarsi qualche cosa di sinistro, ma che ha pure una nota di allegra ironia per chi lo ascolta senza intenderlo.
Io non mi sorprendo quindi nel vedere che l’amico del ragazzo ci raggiunge con un rinforzo di altri monelli: tutti rassomiglianti fra loro come membri di una stessa famiglia zingaresca. In un attimo la squadra volante si dispone intorno a me al ragazzo e alla sedia, e questa è presa di mira dai loro frizzi e anche dal tiro di qualche sassolino.
— Eccola lì la torre girante. Ammazzala, come è alta.
Il ragazzo è pronto: con i bastoni della spalliera ben stretti fra le mani si piega e corre verso l’uno o verso l’altro dei persecutori e li investe, come un toro infuriato, coi piedi della sedia.
— Mo’ vi faccio vedere le stelle, dalla torre girante.
Anche i passanti ne sono travolti; cominciano a protestare e cambiano marciapiede; finchè uno della compagnia, un zoppetto intrepido e più feroce degli altri, non si afferra alla sedia, dietro le spalle del ragazzo, e lo costringe a fermarsi.
— E fammi sedere, — grida forte. — Apposta mia madre mi ha fatto zoppo, per zompare su questa cattedra.
Allora il ragazzo cambia tattica: lascia andar giù la sedia, l’afferra con una mano per la spalliera e comincia a rotearla vertiginosamente intorno.
— A chi tocca tocca.
Se non mi scosto a tempo tocca pure a me, mentre i nemici tentano un accerchiamento, si stringono, riescono ad afferrare chi il ragazzo chi la sedia e tutti assieme piombano a terra in un gruppo infernale.
Allora intervengo io.
— Sentite ragazzi, se non la smettete chiamo una guardia.
— Chiamane anche dieci, — grida lo zoppetto, e tutti, ancora attaccati alla sedia e gli uni sugli altri come scarabei, ridono d’intesa affratellati contro di me.
Finalmente, con comodo loro, si rialzano e riprendono la marcia: adesso però è un altro guaio, perchè ridivenuti amici, ogni tanto si fermano e discutono di affari loro.
Arrivati poi alla svolta della strada alcuni si sbandano, altri dicono di fermarsi lì ma solo per tre minuti, ad aspettare il ritorno dell’amico.
Allora questo, che prosegue solo con me, diventa svogliato, dice che è stanco, che la sedia pesa, e ad ogni passo domanda se c’è molto ancora.
Siamo in una strada solitaria, poco distante dalla mia, ed è quasi notte: anche qui scavi, ingombri, ostacoli.
— È questo il suo cancello? Lei mi ha detto che c’è un cancello sotto gli alberi. È questo? — domanda con insistenza il ragazzo, fermandosi in un punto scuro della strada, davanti a un cancello chiuso.
— È questo, sì, — si risponde da sè.
Non c’è verso di convincerlo a proseguire: rinunzia piuttosto al resto della mancia, pur di raggiungere gli amici prima che i tre minuti siano passati; e sparisce in un lampo.
*
Che dovevo fare? Feci come quel filosofo che avendo molti problemi da risolvere pensò bene di andarsene a dormire. Così io sedetti sulla mia sedia, accanto al cancello chiuso di là del quale, intorno a una villa, un giardino solitario già dormiva anch’esso nel silenzio dolce della sera. Io sembravo la portinaia seduta fuori a prendere il fresco. E la sedia mi pareva ancora più comoda di prima, e me le sentivo già affezionata per le comuni vicende.
Ma non potevo passare la notte in quel posto, per quanto la luna nuova sospesa sopra gli alberi mi invitasse a restare: d’altra parte non mi sentivo semplice e forte fino al punto di trasportare io la sedia: l’aggiustai quindi bene contro il muro, all’ombra sporgente di un salice, e ancora una volta mi affidai alla divina provvidenza.
*
Ed ecco fatti pochi passi vedo una coppia d’innamorati. La donna è appoggiata al muro e piange e dice male parole: l’uomo è un giovanissimo operaio che io riconosco perchè ha lavorato ultimamente in casa mia. Anche lui parla fitto fitto e inveisce contro la ragazza; a quanto capisco è una scena di gelosia; e una luminosa idea mi attraversa la mente: fare del bene a quei due e ricuperare la mia sedia.
— Buona sera, — dissi al giovine, che riconoscendomi salutò anche lui con rispetto. — Non potreste farmi un favore?
Racconto la mia vicenda, e prego l’operaio di prendere con suo comodo la sedia e portarmela a casa.
La donna s’era sollevata e rideva, con gli occhi ancora pieni di lagrime. Era una bellissima ragazza bruna, alta, con le labbra che parevano tinte; ed io intesi la giusta gelosia del piccolo operaio.
Per non disturbarli oltre tirai avanti: e passò bene del tempo prima che la sedia arrivasse sana e salva a casa. Per castigo delle tribolazioni che mi aveva procurato la feci mettere in cucina, dove del resto parve subito troneggiare nel vero senso della parola; poi volli dare una piccola mancia al giovine operaio; egli però se ne schermì, non solo, ma si profuse in ringraziamenti.
— Lei non sa, signora, che m’ha salvato forse la vita, certamente la libertà, perchè stavamo sul punto di accopparci, con la ragazza. Crede lei che la scena di gelosia la facessi io? La faceva lei, e ci aveva il coltello con la punta in fuori giù dentro il pugno. E io perdevo il lume degli occhi. Che vuole? Eravamo stanchi tutt’e due, perchè anche la ragazza lavora da sarta; e quando si è stanchi si litiga anche senza ragione. E così siamo andati a cercare la sedia, ci si è seduti un poco, in quel bel sitino all’ombra, dove non c’era nessuno, e abbiamo fatto pace.