Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/L'ultimo anno ad Altarana/IV
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IL COLLEGA LABACCIO.
Così egli rimase con una doppia ferita nell’anima; confortato da un pensiero però: che il risentimento della sua amica non potesse nascere che da un senso di gelosia, e questo da un principio d’amore; e in questa fede stette a aspettare che, cadendo l’una, si scoprisse l’altro. Ma aspettò inutilmente. Dopo alcuni giorni, la maestra gli riprese a parlare, ma non più nel modo di prima; più di rado, con un senso come di ripugnanza che non le riuscisse di nascondere, e con un accento come d’amicizia delusa o diffidente, scansando quasi di mal garbo ogni discorso di natura intima e affettuosa. Ogni sforzo ch’egli fece per ricondurla all’intrinsichezza di prima fu inutile, e a capo a un certo tempo, scoraggiato, vi rinunziò. Conoscendo la sua fermezza incrollabile, si persuase d’esser caduto irreparabilmente dalla sua stima, e che nulla gli restava più da sperare. Tornò a trovarsi solo come un morto in quella casa, buttò i libri in un canto, gli riprese la tristezza nera che l’aveva cacciato alla bettola, e qui sarebbe ricascato forse, se non l’avesse tenuto su ancora la buona amicizia della signora Samis e di suo marito, ch’egli continuava a visitare, benchè men sovente che per l’addietro. Per sua fortuna, venne a distrarlo un piccolo avvenimento, che lo mise per alcuni giorni in una nuova corrente di pensieri.
S’era appena seduto a tavola, una mattina, per mangiar la sua magra colazione, quando la vecchia serva gli venne a presentare un biglietto di visita. Egli scattò leggendo: — Giovanni Labaccio, maestro primario, decorato della menzione onorevole dalla Società di Mutuo Soccorso degli insegnanti italiani, membro della Società dei benemeriti di Palermo. Eran cinque anni che non lo vedeva! Mentre si slanciava per andarlo a prendere sul pianerottolo, quegli comparve sull’uscio.
Il giovane gli gettò le braccia al collo e lo baciò: quegli rese il bacio senza scomporsi, e gli domandò placidamente, come se si fossero visti il giorno innanzi: — Come stai, Ratti?
— Ah! come sei sempre lo stesso! — esclamò il Ratti, ridendo e guardandolo, mentre lo tirava per una mano in mezzo alla camera. Quell’apparizione dell’antico collega gli cacciava dal capo ogni malinconia e lo ringiovaniva d’un lustro.
Il collega, in fatti, non era gran che mutato: era più grasso e più pari pari nei suoi movimenti, ma sempre con quella faccia sbarbata, con quell’aria di buon priore di convento: vestito pulitissimo, col collo stretto in un solino insaldato e diritto, che lo faceva stare col capo alto.
Come il Ratti aveva immaginato al primo vederlo, egli era venuto nella valle per la morte di suo zio, sindaco d’Azzorno, e di qui, dopo aggiustati i suoi affari, aveva fatto una scappata per riveder l’amico. Il Ratti gli fece le sue condoglianze; ma quegli l’interruppe con un atto di rassegnazione così tranquilla, che il giovane stimò superfluo di continuare. E subito, malgrado il rifiuto di lui, ordinò alla donna di scendere in fretta a comprar qualche cosa perchè voleva a ogni costo ch’egli facesse colazione in casa sua.
— Caro Ratti, — gli disse l’amico, alzando le braccia pari e lente, come due aste mosse da un meccanismo, e posandogli un momento sulle spalle le due mani distese, — godo di vederti in buona salute.
Poi s’aggiustò il nodo della cravatta, e data un’occhiata all’impagliatura d’una seggiola, tirandosi su con tutte due le mani prima i calzoni e poi le falde del soprabito, sedette.
La prima mezz’ora di conversazione fu come un concerto tra un campanello elettrico e una campana che dia i rintocchi delle ore: il Labaccio rispondeva ad una su dieci domande che gli faceva l’altro, e questi con un fiume di parole a tutte le sue. Quando il Ratti ebbe raccontate per sommi capi le sue vicende, quegli scrollò il capo due o tre volte, in atto di riflessione. Il Ratti gli disse che aveva avuto notizie di lui da Carlo Lérica, l’ex granatiere.
— Carlo Lérica, — rispose il Labaccio, — deve aver avuto ultimamente dei dispiaceri, a Badolino. Mi pare di averne letto qualche cosa nella Letteratura educativa, che è un ottimo giornale. Ma non mi ricordo bene i particolari. Ma tu fai dei complimenti, — soggiunse, dando un’occhiata sorridente alla tavola, su cui la donna metteva l’antipasto obbligato della verdura e del burro; — e questo non sta bene fra di noi.
Il Ratti s’esilarò al rivedere sul viso del collega l’antica smorfia del refettorio, ch’era un allungamento sensuale delle labbra, accompagnato da una rapida contrazione da muso di coniglio, ch’egli soleva fare alla vista del pasto. E gli disse allegramente: — A tavola, caro Labaccio! Parleremo di Carlo Lérica e di tutti gli antichi amici. Ma prima tu devi finir di raccontare i casi tuoi.
Sedettero. Il Labaccio aveva poco da raccontargli. Il Lérica doveva avergli detto che dalla prima nomina in poi egli era sempre rimasto a Stalora, sul Po, dove si trovava bene. Aveva già rinnovato la stipulazione per il secondo sessennio. Meglio non avrebbe potuto capitare. Avrebbe voluto che al suo amico Ratti fosse toccata la stessa fortuna.
Il Ratti gli tagliò la parola per congratularsi della sua menzione onorevole.
Egli fece un atto di modestia. — M’ha proposto il regio provveditore di Torino, — disse, preparandosi il condimento per i peperoni. — I premi erano ventitrè, aggiudicati ai maestri rurali benemeriti di ventitrè circondari del Regno. Io non ci speravo menomamente, tant’è vero che sono il più giovane dei premiati, che son quasi tutti vecchi, e non saprei proprio a che cosa attribuire... salvo il caso che abbiano tenuto conto.... Assisteva alla distribuzione sua altezza il duca d’Aosta, sua eccellenza il ministro... il presidente della Consulta... una folla di personaggi. Sua eccellenza il ministro aggiunse alla menzione una cartella del debito pubblico della rendita di lire cinque.
— Insomma — gli disse il Ratti — tu sei un uomo contento.
— Non sono contento, — quegli rispose; — mi contento. C’è una differenza. Ma perchè — gli domandò dopo un momento — non fai cuocere questi peperoni gialli? — E gli disse in che maniera si cuocevano. Si mettevano ad arrostire sulla brace, posati sulle molle, fin che fossero neri affatto, e avessero dato fuori tutta l’acqua, poi si sbucciavano, si tagliavano a strisce sottili nella direzione della lunghezza, e così, conditi con olio, pepe e sale, erano eccellenti: pareva di mangiar delle fette di vitello, del più tenero.
— Ma! Tu ti contenti — gli disse il Ratti, ripigliando il discorso interrotto — perchè sei capitato bene. Ma se ti fossi imbattuto in certi tipi di sindaci, di parroci, di soprintendenti.... Ah mio caro, lasciami pur dire che, salvo le eccezioni, abbiamo scelto una gran povera carriera.
— Sì, certo, — rispose l’amico pacatamente — una povera carriera. Ma lasciami dire anche.... Io non parlo per te; questo si sottintende. Voglio dire che molto dipende anche dal sapersi regolare. I maestri dicono, dicono. Hanno ragione. Ma siamo giusti: tu l’avrai visto: ce n’è di quelli che si mettono dalla parte del torto. Si presentano nei comuni con delle arie.... Al minimo urto, alzan tanta polvere, come se avessero offeso in loro sua eccellenza il ministro dell’istruzione pubblica, la scienza, che so io? la civiltà in persona. Eh! ci vuole un po’ più di umiltà a questo mondo, in specie per fare i maestri; se no.... non si campa.
— Ah! come si vede l’uomo che è capitato bene! — esclamò il Ratti. — Al minimo urto! Ma quando ti urtano tutti, e per dei mesi di seguito, e ti calunniano, e ti disturbano la scuola, e ti voglion mettere sotto i piedi?
— Ma, caro Ratti, io non parlo di questi casi. Io parlo in generale. In generale, dico, anche dove ci sono dei caratteri difficili, delle autorità che paiono mal disposte, dico che con un po’ di accortezza, coi buoni modi.... si possono scansare molti, ma molti dispiaceri. Io ti posso citare il caso mio, per esempio, col parroco, che mi pareva mal prevenuto. Ebbene, è bastato un atto; ma nemmeno un atto: un’idea. Nell’occasione della visita dell’arcivescovo è nata a me l’idea di suggerire al parroco che facesse venire dal capoluogo del circondario una botte annaffiatrice da mandare innanzi alla processione perchè monsignore non fosse molestato dalla polvere.... È stata una trovata. Monsignore fece al parroco i suoi complimenti, e l’uomo mi si è mutato come per incanto. Poh! Ci vuol così poco per amicarsi i preti.
— Secondo che preti!
— Io dico del caso mio. A Stalora, del resto, quanto a preti, non ci possiamo lamentare. Ce n’è molti maestri nei dintorni. Son buoni maestri. Questo proviene da che nel circondario ci furono due vescovi di seguito ch’eran fior di sacerdoti e di uomini istrutti, molto stimati e ben voluti, e influenti nei comuni; e son loro che tiraron su molti maestri preti, facendo dei lasciti a favore della messa-istruzione. Il prete, caro Ratti, quando è maestro stabile in un comune, è un buon maestro. Sono i vagabondi che valgon poco, perchè, se girano, vuol dire che hanno avuto dei contrasti col vescovo altrove. Noi non ce n’abbiamo.
— Dunque per te tutto va bene! Ma vorrei sapere come te la cavi in materia d’istruzione religiosa. Per me è lo scoglio.
Il Labaccio si fece serio. — Io rispetto la religione — rispose. — Tu sai.... ho sempre avuto i miei principii. Per me, il maestro dev’essere prima di tutto il padre spirituale dei suoi alunni. Senza religione, che cosa vuoi? a me pare che non si possa coltivare l’intelligenza dei ragazzi.... — e soggiunse lentamente, guardando il Ratti, per vedere s’egli sospettava che la sua frase fosse rubata: — come non si può far fruttare la terra senza il sole. Io te lo dico francamente: faccio dir le orazioni alla classe mattina e sera.
— Il parroco sarà contento, — disse il Ratti.
— Il parroco è mio buon amico. D’altra parte, io gli ho degli obblighi. È lui che m’ha avviato a studiare un po’ di latino, tanto che dò qualche lezione. Giusto ora sto spiegando l’Epitome a certi giovani contadini che voglion prendere la carriera ecclesiastica. E sai.... son sempre metodico, come alla scuola. Ho fissato tre quarti d’ora di studio al giorno, non un minuto di meno, tutti i giorni dell’anno.
Il giovane rise di quella frazione d’ora. — Insomma — disse — tu trovi tempo a tutto. — E si congratulò con lui, dicendogli d’aver saputo dal Lérica com’egli fosse diventato un uomo indispensabile nel suo comune.
— M’adopero come posso, — rispose il Labaccio, senza badare allo scherzo. E tra un boccone e l’altro raccontò le sue gesta. Aveva promosso l’istituzione d’un “circolo„ di esercenti e di artefici, con gioco di bocce e giornali. Era riuscito a far ricostituire la banda musicale del paese, che aveva vinto il secondo premio di prima categoria al concorso di Bra. Oltre a questo aveva insegnato il disegno per tre anni, e gli alunni gli avevan fatto coniare una medaglia, col suo nome inciso da una parte. In quei giorni, appunto, lavorava a preparare una serie di conferenze d’agronomia, studiando nei manuali e sul Bollettino agrario, perchè c’era ancor molto da insegnare ai campagnuoli, soprattutto nella preparazione dei vini e nella conservazione delle frutta e dei semi. Ma quello che gli aveva ottenuto più favore era stata un’iscrizione calligrafica fatta da lui per la morte di Vittorio Emanuele, per commissione d’un conte del paese, che l’aveva affissa in un quadro alla facciata della sua palazzina, in mezzo a un trofeo di bandiere velate a lutto e di vecchi fucili della guardia nazionale.
E nel corso della sua parlata, citando le autorità, diceva rispettosamente “il mio sindaco cavalier Lotti, il delegato dottore cavalier Bellini, il soprintendente ingegnere e cavaliere Calossi„ non dimenticando nè un titolo nè una croce. Ah! egli era ben quello che aveva promesso di diventare fin dalla scuola! Il Ratti lo guardava con quel sentimento di compiacenza con cui si riconoscono le nostre previsioni avverate. Parlava sempre con lo stesso tuono di voce, sempre con gli occhi sulla tavola, occupato, parlando, a salare, a pepare, ad affettare il pane in quel dato modo, a buttar via le briciole, a rimetter al posto gli oggetti, a raggiustarsi il tovagliolo che teneva al collo, sempre flemmaticamente; e quando alzava il capo a una domanda dell’amico, lo guardava, come già soleva alla Scuola, non negli occhi, ma nel nodo della cravatta.
— Beato te! — esclamò il Ratti. — E il paese?
— Il paese, — rispose il Labaccio, — è un buon paese. Ho avuto la fortuna di trovar delle famiglie che mi coadiuvarono nel mio ufficio.... E anche a questo proposito avrei da ripetere l’osservazione che ho già fatta. C’è dei maestri che non sanno regolarsi; che, per esempio, approfittano delle discordie per mettersi dalla parte dell’uno o dell’altro. Un errore, amico mio, un de-plo-revole errore. Io, invece, cerco di pacificarli, e posso vantarmi d’esserci riuscito. Dicono: il maestro, nei comuni, è missionario di civiltà. Io direi: anche di pace; anzi, principalmente di pace. Il maestro deve portare la pace. Bisogna sapersi regolare. C’è dei maestri, per esempio, che accettano un pranzo da quelli d’un partito, e lo rifiutano da quelli dell’altro, per timore d’offendere i primi. Ebbene, è un atto di debolezza, per non dire di viltà d’animo. Io dico che il maestro deve tenersi al disopra dei partiti, e non far preferenze a nessuno. Per questo io accetto da tutti. Il primo dovere del maestro è di rendersi gradito alle famiglie. Il maestro che urta le famiglie non potrà mai far nulla di buono. Quindi, nessun sgarbo, è la mia massima; nessuna picca con nessuno, per nessun motivo. Se ci ho in iscuola, poniamo il caso, il figlio del sindaco e quello del soprintendente, certo, non li metto mica i primi per riguardo ai parenti; ma nemmeno seguo l’uso matto di certi maestri, che subito sognano pressioni e corruzioni, e per far mostra di carattere indipendente, li caccian nel banco dell’asino.... D’altra parte, le autorità sono anche uomini: non si può pretendere che non preferiscano i propri figliuoli ai figliuoli degli altri. Scioccherie.
A questo punto il Ratti s’indispettì. — Ah! caro mio — gli disse, — tu hai un bel dire! Tu sei la fenice dei maestri e sei cascato nella fenice dei comuni. Ma per me, e per la maggior parte, le difficoltà ci sono e dure, e d’ogni specie, e la vita è trista e miserabile. S’ha un bell’essere di buona pasta e fare il proprio dovere.... Io vedo che si commettono di continuo ingiustizie e prepotenze, che il maestro non è protetto, che da tutte le parti si levan lamenti, e che ci son migliaia di maestri che non mangiano abbastanza, e che molti crepan di fame. Non mi negherai mica queste verità!
— Non nego, — rispose dolcemente il Labaccio, — ma credi, Ratti, si esagera.
— Si esagera?... In che condizione si trovano gli altri maestri, nei comuni vicini al tuo? Ne avrai conosciuti, m’immagino.
— Ne ho conosciuti. Ebbene.... si trovano in una condizione.... generalmente prospera. Uno che conosco, che s’è ammalato, i contadini gli han portato ogni sorta d’erbe medicinali, del grasso di cavallo.... Credi, non c’è tutto il male che dicono. Ma questa non è la quistione. Io dico che c’è dei torti di qua e dei torti di là. Anche i maestri, Dio mio, non fanno che lamentarsi, sempre con quel benedetto stipendio, sempre a pianger miseria. Finisce che si rendono uggiosi. Son loro, sto per dire, che a furia di gridare che muoion di fame, rendono la professione disprezzabile. Hanno spinto le cose al punto, cospetto, che al vedere un maestro la gente si volta in là, come se fosse lo spettro del conte Ugolino. Scrivono sui giornali, minacciano.... Pare che per loro non ci sia carità nè giustizia al mondo.... Ma credi: io tengo dietro alle liti.... copio in un quaderno le sentenze dei tribunali e i pareri del Consiglio di Stato, e vedo che danno delle brave lezioni. Ma cosa fai?
Così dicendo levò l’insalatiera di mano al Ratti, per condire in vece sua, dicendogli ch’egli non sapeva. E gli espose la sua teoria sulla dosatura dei vari ingredienti, mostrandogli come si doveva rivoltar l’insalata per non far schizzare il condimento; ma fece egli stesso un balzo indietro con la seggiola per scansare una foglia saltata fuori.
— Anche qui ti riconosco! — gli gridò ridendo il Ratti. — Hai sempre più paura d’una macchia che d’una fucilata!
— Mio caro, — rispose quegli placidamente, — se non tengon conto dei vestiti i maestri.... Sai quanti anni ha questo soprabito?... Cinque anni, e non è rivoltato. E se non ci fosse quella pazzia della ginnastica obbligatoria, tirerebbe ancora avanti un bel pezzo.
— Andiamo — gli disse il Ratti; — son miserie. Scommetto che ti sei già messo da parte un capitale.
Il Labaccio scrollò una spalla. In che maniera poteva aver messo da parte? Ma sperava di poter cominciare l’anno venturo, perchè gli dovevano aumentar lo stipendio. E fece l’elogio del sindaco cavalier Lotti. Il sindaco gli aveva accresciuto il materiale scolastico; gli faceva dare per la scuola serale, oltre l’assegno del governo, ottanta lire; gli faceva perfin sperare un piccolo pezzo di terreno, da farne un campo modello, per la scuola pratica d’agronomia.
— Eh taci dunque, Creso! — gli disse il Ratti, punto da un po’ d’invidia. — Tu vedi tutti grassi perchè hai trovato tu la cuccagna. Goditela, sta bene. Ma abbi almeno compassione di chi stenta il pane, e non decantar la professione, che è la peggio di tutte. Basta dire che in tutte le altre, tutti cercano e sperano d’innalzarsi, che è quel che dà forza a tirare avanti; nella nostra soltanto non si cerca altro che di non cadere, che è il più che si possa sperare. La professione è definita con questo.
— Migliorerà, — rispose il Labaccio, bevendo.
— Migliorerà per te, — disse il Ratti, — di questo ne son sicuro. — E ricordandosi dello scherzo del Lérica: — Intanto — soggiunse — tu sposerai una ragazza con cinquantamila lire.
Il Labaccio lo guardò, stupefatto, e rispose un po’ imbarazzato: — Non è una ragazza.
— Ah! ci ho dato, dunque! — esclamò il giovine, rallegrato di quella scoperta inattesa. — Ragazza o no, prendi moglie, e con tanto di sacchetto; volevo ben dire!
Il Labaccio rimase un po’ stizzito d’esser caduto così nella trappola; ma oramai poteva dir tutto. Sì, era in trattative da un pezzo; il matrimonio s’era dovuto rimandare.... Egli non osava dire che per sposarsi aveva aspettato la morte dello zio. Era una signora vedova.... una delle fondatrici dell’asilo, dove egli faceva da segretario gratuito, da oltre un anno. E si diffuse in elogi dell’educazione distinta, del carattere aureo della fidanzata, la quale conosceva il francese, e un poco l’inglese; aveva, insomma, un’istruzione seria, e uno spirito.... attraente.
— E avrà qualche cos’altro d’attraente, — disse il giovane.
Voleva dire la dote; ma l’amico, credendo che alludesse alla gioventù e alla bellezza, di cui egli non aveva detto parola, perchè l’una non c’era più e l’altra non c’era mai stata, si fece un po’ rosso. Finse però d’interpretare quelle parole nel senso che avevan davvero, e rispose: — Sì, certo, ha una piccola fortuna.... Faccio un buon matrimonio. — E per vendicarsi della supposta puntura soggiunse: — E forse essa non si sarebbe decisa se fossi stato uno di quei maestri che piangon sempre miseria, come gli accattoni.
Il Ratti capì, e risentito della satira, e anche irritato di riconoscere a una prova di più che tutto, anche il matrimonio, era calcolo in quella testa complicata di apparente bonuomo, gli disse con voce acre: — Ah! capisco ora che tu farai carriera! Hai tutto quello che ci vuole per questo. Io ti vedo già consigliere del comune; poi prenderai una laurea di professore; poi diventerai consigliere provinciale, deputato.... Allora, alla Camera, tu non ci rinnegherai come ci hanno rinnegati tanti altri. Ti ricorderai dei tanti antichi colleghi che non hanno saputo spillar quattrini dalla patente, e son rimasti nella mota, a fare umilmente il proprio dovere. Proporrai almeno che sia portato il minimum a mille lire. Hai buon cuore: dirai, trinciando i tuoi fagiani: — Via, vediamo di far dare un pezzo di manzo a quel branco d’affamati, da cui mi son fatto fuori.... con l’ingegno.
Detto questo, temette d’averlo offeso. Ma quegli rispose con tutta pacatezza, mescendo il caffè: — Un minimum legale di mille lire, appunto, m’è sempre parso che fosse la somma che si potesse ragionevolmente domandare.... per ora, con l’alloggio gratuito, e regolando meglio la legge sulle pensioni, in modo, per esempio, che fosse tenuto conto anche degli intervalli di tempo in cui l’insegnante si cerca un posto, quando ha perduto senza sua colpa quello che aveva. — Tacque un momento per assaggiare il caffè. Poi disse: — Perchè non ci mescoli dei ceci? — E diede al Ratti un buon consiglio: di fare il caffè con metà ceci. Si facevano abbrustolire i ceci tale e quale come i chicchi, si macinavano e si metteva nella caffettiera tutto insieme. Il caffè non riusciva men buono; non solo, ma acquistava un sapor particolare, molto gradevole; e costava circa a due centesimi di meno la tazza. Ma bisognava usare dei ceci freschi.
Questa strana uscita rabbonì il giovane, che quasi si pentì d’aver cercato di punger l’amico. E voltò il discorso allo scherzo, ripigliando a parlare delle proprie avventure, fin che il Labaccio, guardato l’orologio, disse che doveva partire. Si fece dare la spazzola, si spazzolò accuratamente; poi ringraziò il Ratti della buona accoglienza. Quando furon nella strada, gli domandò a che giornale scolastico fosse abbonato, e, inteso quale, gli propose di abbonarsi a un altro: La letteratura educativa, dicendogli che era a miglior mercato, e che dava una maggior ampiezza alla parte didattica; e poichè il Ratti rifiutava, insistette, confessandogliene ingenuamente il perchè. Il giornale dava un abbonamento gratis a chi glie ne procurava sette. Egli ne aveva già sei. Perchè non gli avrebbe fatto questo piacere?
Davanti all’albergo lo aspettava un calesse. Egli vi salì, badando bene a non insudiciarsi i calzoni. — Quando ci rivedremo? — gli domandò con la sua cordialità naturale Emilio Ratti, che in quel momento non vedeva più in lui che l’antico compagno di scuola.
Il Labaccio gli rispose che sperava di rivederlo a uno dei prossimi congressi pedagogici, a Milano o a Torino.
— Ci spero poco, — rispose il Ratti. — In ogni modo, mi farà sempre piacere di rivederti. Buona fortuna e ricordati di me. — E strinse vivamente la mano grassa e inerte dell’amico.
Il quale, mentre il calesse partiva, gli disse pacatissimamente: — Ti manderò a tempo debito la partecipazione di matrimonio.