Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/L'ultimo anno ad Altarana/V
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | L'ultimo anno ad Altarana - IV | L'ultimo anno ad Altarana - VI | ► |
UNO SCOLARO STRAORDINARIO.
Partito il Labaccio, il nostro maestro rimase con quel disgusto accresciuto della propria condizione, che lascia nei galantuomini non fortunati l’esempio della prosperità d’un collega senza scrupoli; e da quel disgusto gli rinacque più vivo il proposito di tentar la fortuna a Torino per levarsi per sempre dalla vita del villaggio. Ma per far questo, gli bisognava studiare sul serio, e non parendogli più di poter ritrovare ad Altarana la tranquillità d’animo necessaria agli studi dopo i fatti che avevano irreparabilmente scemato la sua autorità presso gli alunni e le famiglie, prese la risoluzione di cercarsi un altro posto. E d’altra parte, che cosa lo riteneva più ad Altarana, dopo che della maestra Galli aveva perduta anche l’amicizia, con la certezza di non poterla più riguadagnare, e la sua vicinanza gli era diventata una suggezione, e la sua vista una pena? Da lontano, se non altro, l’avrebbe a poco a poco dimenticata. Un solo affetto lo legava ancora al villaggio: la famiglia Samis; e da questa, sì, gli sarebbe riuscito doloroso di separarsi.
Una mattina, poco prima d’andar a far scuola ai suoi rimandati, dopo una settimana ch’ei non era più comparso in casa Samis, si vide entrar in camera l’avvocato; il quale esclamò: — Maestro, eccole qui il regalo che io faccio alla scienza! — e nel dir questo, fece entrare un ragazzo sui quattordici anni, che se gli piantò davanti, e lo guardò arditamente, aspettando d’essere riconosciuto. Il mutamento che aveva fatto in un anno di cresciuta, e il vestito mezzo signorile non glie lo lasciaron riconoscere alla prima occhiata; ma un atto scherzoso dell’avvocato gli rischiarò la memoria: era il GenèriFonte/commento: normalizzo quel tale monello della scuola mista delle Case Rosse, che aveva avuto una passione per la maestra Vetti. Il Ratti si ricordò nello stesso tempo del proposito che gli aveva espresso l’avvocato l’anno innanzi, di levar dai campi un ragazzo d’intelligenza aperta, e di metterlo agli studi, per seguire in lui a passo passo la trasformazione dell’animale in fante, e studiar, per dir così, sul vivo il problema dell’educazione intellettuale e civile del popolo. Era così infatti. L’avvocato, dopo averne tastati parecchi, aveva scelto quello, a cagione dei saggi veramente notevoli d’ingegno e di forza di volontà che aveva dati nel secondo anno della scuola mista; il padre, furbo impostore, aveva acconsentito mostrando di fare una grazia, per poter imporre certi patti; egli l’aveva condotto in città a farlo vestire dai fratelli Bocconi, e ora lo rimetteva al maestro, perchè lo preparasse in un mese agli esami d’ammissione a una quarta elementare di Torino; compiuta la quale, gli avrebbe fatto prendere il corso tecnico.
— Lo guardi bene da capo a piedi, — gli disse l’avvocato, — e mi dica se non ha il frontespizio e l’impostatura d’un conquistatore.
E fissate le ore delle lezioni e mandato fuori il ragazzo, disse il resto. Egli aveva scrutato bene il soggetto e chieste minute informazioni prima di sceglierlo. Era il tipo che cercava; un ragazzo a cui pareva che mancasse affatto la fibra affettiva. La passioncella per la maestra non era stata che una fiammata precoce dei sensi, che s’era spenta a un tratto, per dar luogo a un ardore vivissimo, non credibile a chi non n’avesse visto le prove, per la scuola, accompagnato, cagionato forse da un abborrimento invincibile per la sua condizione sociale e per il lavoro della campagna. Suo padre gli aveva inutilmente accarezzato la groppa, pel corso di vari mesi, e con una regolarità da esecutore di giustizia, per distaccarlo da Minerva e riattaccarlo a Cerere: egli aveva resistito con una tenacia d’acciaio, e dichiarato cento volte, a testa alta, che si sarebbe lasciato ammazzare piuttosto di fare il contadino. Era figliuolo unico: pareva che tutta la sua prosapia, stanca di sudar da secoli sull’aratro, avendo assaggiato l’alfabeto per bocca sua, s’impuntasse in lui, e si rivoltasse per mezzo suo contro la condanna ereditaria, con la forza di dieci generazioni irritate. — È un predestinato, — concluse l’avvocato Samis; — fisicamente, intellettualmente, moralmente fabbricato per combattere e per salire; tutto cervello e forza; un’anima fatta a cuneo tagliente, che entrerà dappertutto dove farà pressione. Lei non pensi ad affezionarselo come io non penso ad aver la sua gratitudine. Io prevedo che a venticinque anni scriverà un opuscolo contro le mie teorie di diritto. Lo tratti come un uomo e si diverta a studiarlo: le assicuro che il soggetto lo merita. È il piccolo contadino dell’avvenire.
Il Ratti incominciò subito le sue ripetizioni; dedicandole sopra tutto alla lingua e all’aritmetica. Il ragazzo era intelligente, in fatti, ed alacre al lavoro, come promettevano i suoi piccoli occhi azzurri e vivi; e il maestro non tardò ad accorgersi che, anche per rispetto all’indole, il giudizio dell’avvocato, era giusto. Essendo egli stato in quei giorni a Torino per la prima volta, il Ratti, per prima prova, gli diede a fare su quel soggetto un componimento; e in questo trovò chiarezza, ordine, e certe osservazioni singolari; ma non una frase ammirativa, non una di quelle tante esclamazioni ingenue che usano i ragazzi quando descrivono uno spettacolo che li abbia dilettati e commossi. Così in ogni altro componimento o discorso a voce o lettura ch’egli facesse o ascoltasse, in cui si toccassero i soliti tasti della patria, della religione, dell’amor della famiglia, egli mostrava di capir bene le cose, e ripeteva e riassumeva con lucidezza; ma senza che mai il suo sguardo e la sua voce nè alcun muscolo del suo viso tradisse la ben che menoma commozione del cuore. All’indicazione d’un errore, rimaneva sopra pensiero; a una lode, dissimulava la compiacenza; si faceva ripeter spesso una spiegazione per meglio comprendere; non dava mai segni di distrazione o d’impazienza che la lezione finisse. Eppure il maestro sentiva fremer la vita in quel corpo asciutto e forte, che a traverso ai panni nuovi mandava ancora odor di contadino, e quelle mani bruciate dal sole, con le dita appiattite alla punta, facevano, quand’egli cercava una risposta, un movimento quasi involontario e febbrile, che indicava una viva agitazione dell’animo, e uno sforzo intenso di tutti i nervi. Aveva ancora gesti, atteggiamenti, inflessioni di voce d’un ragazzo cresciuto fra l’aia e la stalla; ma pareva al maestro che ne perdesse uno ogni giorno. Riguardo a lui soltanto era sempre eguale: rispettoso, senza espressione alcuna di benevolenza. Gli diceva buon giorno entrando e buon giorno uscendo, lo interrogava alla svelta in un dubbio, e nient’altro. Curioso di scandagliarlo più addentro, egli provò, scherzando, a dargli un tocco intorno alla sua antica passione per la maestrina, e s’aspettava di vederlo arrossire come quel tal giorno in iscuola. Ma il ragazzo non arrossì; non fece che scrollare una spalla, con un sorriso, in atto di dire ch’eran sciocchezze, a cui non pensava più. Gli domandò un giorno se non temesse di stancarsi, col tempo, della carriera degli studi, che presentavano tante difficoltà e richiedevano tante fatiche; ed egli scrollò il capo in atto di negazione. — Non ti rincresce di lasciare i tuoi parenti? — gli domandò. Ed egli rispose: — Sono contenti, — come se la cosa riguardasse loro soli. — Eppure — gli disse il maestro, per provarlo — un giorno ti pentirai d’aver cambiato strada, e tornerai a fare il contadino. — E il ragazzo rispose con accento aspro e secco: — Mai! mai! — sorridendo di compatimento per l’assurdità della supposizione. E nel dar queste risposte alzava il capo e fissava gli occhi dilatati sull’orizzonte lontanissimo della pianura, come ad un campo di battaglia, di cui sentisse in confuso le cannonate, e lo rallegrasse l’immagine.
Questo piccolo personaggio gli servì di distrazione gradevole per un mese, in fin del quale egli fu molto contento di poter dire all’avvocato che il suo protetto aveva fatto dei progressi ammirabili. Glielo disse nella villa, a tavola, in presenza dei commensali soliti, il giorno prima della sua partenza per Torino, e s’avvide di fargli molto piacere, tanto più perchè gli amici lo andavano canzonando da un pezzo per quella strana idea di voler fabbricare un grand’uomo di più con della farina da polenta, mentre ce n’era già un così gran numero di stucco nel mondo cittadino, che si vendevano a peso. E l’avvocato s’attaccò al giudizio del maestro per rimpolpettarli, e far l’ultima sua tirata della stagione. Sì, essi potevano ridere fin che i ragazzi come quello erano un’eccezione, in quanto era eccezionale che un ragazzo della campagna o dell’officina potesse prender la via degli studi. Ma se ne sarebbero accorti i loro figliuoli quando di riforma in riforma, di concessione in concessione, si fosse venuti a quello che era inevitabile, alla consacrazione del diritto di tutti, non all’alfabeto, ma alla cultura, che avrebbe aperto tutte le strade ai ragazzi di tutte le classi. Avrebbero veduto allora che cosa volesse dire per i così detti uomini d’ingegno delle antiche classi privilegiate la concorrenza di tutti i nuovi ingegni che si sarebbero rivelati in una dozzina di milioni d’uomini esclusi fino allora dal concorso! — Ora — disse — vi lamentate già d’essere in troppi, e di dovervi mangiare l’un l’altro; ma quando irromperanno negli studi e andranno all’assalto delle alture sociali i figliuoli delle generazioni ignoranti, con appetiti più formidabili dei vostri, perchè aguzzati da secoli di digiuno, con forze cerebrali vergini e fresche, con un vigore di volontà corrispondente al vigore fisico, più originali, più tenaci, più ricchi di memoria di voi, che cosa potranno contro costoro i vostri figliuoli, che da voi avranno ereditato la stanchezza intellettuale, la tendenza al suicidio per una bocciatura, il sigaro Virginia a dieci anni, le piccole ambizioni piene d’affanno e vuote di forza, e mille pieghe viziose e raffinatezze bizantine del pensiero, e tutte le miserabili malattie nervose nate dall’abuso della vita ad alta pressione? Vedrete, voi altri che credete oramai ereditari e confinati nella borghesia l’ingegno e l’attitudine alle scienze e alle lettere, come faranno piazza pulita quei contadinelli dalle spalle larghe e dai pugni duri che porteranno negli studi il soffio nuovo della campagna e dell’opificio! Sarà la calata dei barbari giovani e affamati di cultura nelle scuole infracidite della decadenza... e vi passeranno sul corpo. Intanto io mando un soldato di più all’avanguardia.
E per suggellare il suo discorso chiamò il ragazzo ch’era nel giardino.
La comparsa di quel villanello rinfagottato nei panni di cittadino, e presentato dopo quella perorazione come una minaccia per la borghesia e un rigeneratore futuro della scienza, provocò uno scoppio fragoroso d’ilarità, che finì d’indispettire l’avvocato.
— Ridete pure, — esclamò; — i vostri figliuoli non rideranno.
E porse un bicchiere di vino al ragazzo, che, dopo aver girato intorno uno sguardo chiaro e tranquillo, senza ombra di suggezione, lo vuotò d’un fiato, come un uomo; il che provocò un’altra risata.
— E così sarete inghiottiti! — gridò l’avvocato, trionfante. E s’alzaron da tavola, ridendo tutti.