Il re della montagna/7. Una situazione terribile

7. Una situazione terribile

../6. La visita dei guardiani ../8. La fuga IncludiIntestazione 10 marzo 2018 75% Da definire

6. La visita dei guardiani 8. La fuga


[p. 68 modifica]

Cap. VII.

Una situazione terribile.

Nadir, celato dietro alla tenda dell’alcova, coll’arme impugnata per tenersi pronto a vendere caramente la vita e a difendere quella della giovane persiana, non aveva perduto una sola parola di quel colloquio.

Appena udì la porta chiudersi dietro al terribile vecchio, s’avanzò verso la giovinetta pallido per l’emozione, coi lineamenti sconvolti dal dolore che gli straziava il cuore, e la fronte imperlata di un freddo sudore. Pareva che un uragano tremendo avesse devastato in quei pochi minuti quella maschia bellezza, poichè Nadir pareva che fosse invecchiato di molto in pochi istanti.

Egli si arrestò guardando Fathima come trasognato, chiedendosi senza dubbio se era in preda ad un incubo o dinanzi ad un fatto reale.

— Perduta!... — mormorò finalmente, facendo uno sforzo supremo e scuotendosi. — Perduta!...

La giovanetta, udendo, si era alzata esclamando fra un singhiozzo e l’altro:

— Oh mio Nadir!... Oh mio Nadir!...

— Fathima — mormorò il giovanotto con un sospiro. — Io sono maledetto! Il vecchio Mirza aveva ragione!...

— Nadir, salvami!...

— Se lo potessi, Fathima! — rispose egli con una specie di rabbia. [p. 69 modifica]

— Nadir, portami teco, io t’amerò per tutta la vita.

— Amarmi!... — riprese egli con voce triste. — Forse che è possibile che una donna ami il Re della Montagna?... Strano destino!... Se non avessi mai lasciato le selvagge balze de’ miei rifugi! Almeno lassù avrei sempre ignorato che nel mondo vi sono tante donne infelici, schiave di uomini corrotti e dispregevoli.

Il giovanotto, in preda ad una cupa disperazione, che, invece di calmarsi alle parole affettuose di Fathima, pareva che sempre più ingigantisse, si coprì il volto colle mani, tergendo con dispetto due lagrime, le prime forse che versasse dacchè erasi dato alla vita libera dei monti.

— Nadir, non piangere, chè io t’amo! — esclamò Fathima.

— Tu sei perduta pel povero Nadir, o Fathima.

— No!...

— No?... Ma se tu rifiuti di ubbidire a quel vecchio, egli ti spezzerà, e la rovina piomberà terribile sulla tua casa, poichè mi hanno detto che il re è l’uomo più potente della Persia.

— Ma io posso fuggire!

— Fuggire!...

— Sì, e con te!...

— Fathima!...

— Mi ami?...

— Sì, t’amo!... — esclamò Nadir. — E tu me lo chiedi? T’amo d’un amore che non ha confini, t’amo come i fiori amano il sole, come le aquile le alte vette e gli spazi luminosi, come il leone ama la preda, come il mare le tempeste!...

— Ah! Quale felicità, mio valoroso Nadir.

Nadir le si avvicinò:

— Mia, mia!... — esclamò egli stringendosi sul cuore la testa di Fathima. — Tu sarai proprio mia!...

— Sì, tua, viva e morta.

— E fuggirai con me?

— Fuggirò con te, Nadir.

— Sulla mia montagna?

— Dove tu vorrai e dove potremo trovare un mollah che ci unisca per sempre.

— Ma dunque tu non solo mi ami, ma fidi nella mia lealtà.

— Sì, perchè tu sei prode. [p. 70 modifica]

— Ed abbandonerai questa casa...

— Senza rimpianti.

— Ma quel vecchio?...

— Non mi ha mai amata, Nadir.

— Ma non è tuo padre dunque costui?

— Mio padre, — diss’ella con un sospiro, — è morto da lunghi anni.

— Ma tua madre?

— Morta anche quella: sono sola sulla terra, come lo sei tu.

— È il destino che ci unisce, Fathima: entrambi siamo soli al mondo.

— È vero, Nadir.

— Ma chi è quel vecchio?

— Lo ignoro.

— Un tuo parente forse?

— Forse, e può essere anche uno straniero, poichè non mi ha mai amata.

— Ma sei cresciuta sempre in questa casa?

— No: rivedo ancora, attraverso i ricordi della mia infanzia, un grande mare dalle onde azzurre, cinto da alte catene di monti dirupati e sterili; vedo ancora delle tende nere, dei cammelli, degli uomini coi grandi turbanti ed i mantelli bianchi. Chi erano? Come si chiamava quel mare? Quale era il nome di quella regione? Io lo ignoro ancora, Nadir.

«Rammento confusamente che un giorno uno stormo di brillanti cavalieri irruppe nel campo e li vedo ancora disperdere le tende sotto l’impeto dei loro indomiti destrieri e sciabolare senza pietà, colle scintillanti scimitarre, quegli uomini coi grandi turbanti, e mi pare di udire ancora il rombare della moschetteria, le urla disperate dei feriti, delle donne, dei fanciulli. Che cosa è accaduto dopo? Mi pare che un velo pesante si stenda sempre fra me e quei lontani ricordi, che non sono capace di sollevare.

«Mi trovai qui, in questo palazzo, servita da una legione di donne e di schiavi, ma non amata. Talvolta l’uomo dalla barba bianca mi veniva a vedere, ma mi parlava con una voce che mi faceva paura, e nel lasciarmi mi diceva sempre: «Se non ci fossi stato io, saresti morta come tutti gli altri». Quale mistero avvolge la mia esistenza? Chi era mio padre? Chi mia madre, che non vidi mai? Io non lo so, Nadir. [p. 71 modifica]

— Ma l’ami quel vecchio?

Un fugace lampo, che tradiva un profondo disprezzo, balenò negli occhi della giovane persiana.

— No — diss’ella. — Io non so il perché, ma tutte le volte che lo vedo, mi sento correre un brivido nelle vene e provo una inesplicabile repulsione. Vi è una voce interna che mi susurra sempre: «Guardati, Fathima; quell’uomo sa di sangue!...» E qui si sussurra che abbia assassinata la mia famiglia!...

— Qual mistero!... — mormorò Nadir. — È forse più tremendo del mio! Strano destino!... Non importa, Fathima; se hai perduto il padre, te ne darò un altro che ti adorerà, e questo sarà il buon Mirza. Ah!...

— Zitto!...

Si era udito un passo che si avvicinava lentamente. Fathima impallidì; il prode giovanotto invece s’affrettò a snudare il kandjar. Passarono tre secondi lunghi come tre minuti pei due giovani, poi al di fuori si udì la voce del capo dei guardiani a gridare:

— Apri, signora!...

— Ancora lui! — esclamò Fathima aggrottando le sopracciglia. — Là, presto, nell’alcova, Nadir!

Il giovanotto, quantunque si sentisse indosso una voglia furiosa di uccidere quell’uomo, che pareva sospettasse qualche cosa e cercasse tutti i mezzi per iscoprirla, ubbidì, e si nascose dietro ad un divano, situato nel fondo dell’alcova.

Fathima, quando fu certa che si era celato, aprì la porta, ed il capo dei guardiani entrò, inchinandosi fino a terra.

— Che vuoi? — chiese ella fissando su di lui uno sguardo terribile.

— È il padrone che mi manda — rispose umilmente il servo, tornando a inchinarsi.

— Che si vuole da me?

— Perdona, signora.

— Parla, vile schiavo.

— Il padrone mi ha ordinato di vegliare nelle tue stanze.

Fathima impallidì ed arrossì successivamente, e, presa da un accesso di rabbia, raccolse lo scudiscio che giaceva ancora a terra.

— Bada, signora! — disse Aliabad, tirandosi indietro. — È il padrone che così vuole.

[p. 65 modifica]— Zitto!...
        Si era udito un passo che si avvicinava lentamente. (Pag. 71.)

[p. 72 modifica]

— Va a dire a lui che nelle mie stanze non ho bisogno di spie.

— È il re che così vuole.

— Il re!...

— Il tuo futuro signore.

Fathima sentì mancarsi le forze al nome di quel potente uomo, a cui nessuno in Persia osava ribellarsi, nè discutere un ordine. Ella si lasciò cadere su di un divano col capo stretto fra le mani e gli occhi fissi sull’alcova, nel cui fondo si vedevano vibrare le seriche tende.

Per un istante ella ebbe l’idea di far assassinare quella spia da Nadir, ma la paura di compromettere il giovane, la trattenne. Credette miglior consiglio far buon viso alla cattiva sorte, almeno pel momento, sperando che Aliabad la lasciasse sola almeno per qualche istante, o che finisse collo stancarsi di fare il carceriere.

Aveva però calcolato male sulle proprie speranze, perchè Aliabad pareva deciso a piantare stabile domicilio in quella stanza. Infatti poco dopo entravano due schiavi recando una tavola riccamente imbandita e una di quelle grandi pipe chiamate nargul.

A quella vista Fathima tornò a impallidire e un nuovo accesso di collera le avvampò negli occhi e sulle gote. Ormai non vi era più dubbio: il principe, sospettoso, temendo forse che ella, in un impeto di disperazione, preferisse la morte all’entrare nel palazzo del re, le aveva posto ai fianchi quel guardiano, coll’espresso ordine di non lasciarla sola un istante.

Ella pensò a Nadir, che forse soffriva la fame e la sete, che non poteva nè consolarlo nè vederlo, e alla fuga che stava per diventare impossibile senza disfarsi di quella spia, di quel carceriere strisciante e umile sì, ma incorruttibile, sicuro come una porta di ferro, fidato come un uomo che trema per la propria vita alla prima imprudenza.

Due volte ella si diresse verso l’alcova per cercare di vedere Nadir, il quale, sempre celato dietro al divano, non osava fare un movimento per non tradirla, e due volte fu costretta a retrocedere, vedendosi seguita dagli occhi acuti di Aliabad.

Ad un tratto un pensiero, balenatole improvvisamente, le fece tornare la calma che stava per perdere, provocando forse una irreparabile catastrofe.

— Vile schiavo! — mormorò. — Dormirai per sempre!...

Aliabad si era assiso dinanzi alla tavola, sulla quale erano stati [p. 75 modifica]deposti un’abbondante porzione di kebab, vivanda formata di pezzetti quadrati di montone arrostiti assieme a pezzetti di grasso e abbondantemente aspersi di sale e di pepe, dei piatti pieni di riso cotto in acqua, uno svariato assortimento di frutta: grosse melegrane senza grani, assai dolci ed assai stimate dai buongustai, cotogni grossissimi e odorosissimi, albicocche secche e di quelle eccellenti susine conosciute sotto il nome di oulou bokhara: infine gran numero di dolci e specialmente di gelati.

— Signora, — disse egli, — se credi, la tavola ti aspetta.

— Schiavo, da quando la tua padrona pranza con te?

— È l’ordine del padrone, signora.

— Di cosa teme egli?

— Lo ignoro.

— È adunque molto irritato contro di me, che mi isola nelle mie stanze?

— Assai, signora.

— E crede di impormi la sua volontà?

— Egli è il padrone.

— La vedremo!

— Bada, signora: dietro il padrone sta lo sciàh!

— Non lo temo.

— Ti dirò anch’io «la vedremo».

— La morte non mi fa paura.

Il guardiano la guardò fisso fisso ed un rapido lampo attraversò le sue pupille.

— Udiamo, signora — diss’egli con voce carezzevole. — Ami forse qualcuno?

Fathima lo fulminò con uno sguardo acuto come la punta di uno spillo.

— Tu cerchi di scoprire qualche segreto, che non esiste nel mio cuore — disse. — È una spia che mio padre mi mette a fianco?

— No, signora: un fedele servitore e nulla più.

— Basta così, lo vedremo in seguito — disse Fathima con un sorriso ironico. — Pranziamo, signor spione.

Si sedette di fronte ad Aliabad, che pareva si fosse corazzato contro i più sanguinosi insulti, e si mise ad assaggiare le diverse vivande, mostrandosi in apparenza tranquilla. I suoi occhi però, quando il servo volgeva altrove il capo, si fissavano sull’alcova e un legger sospiro le sollevava il petto. [p. 76 modifica]

Aliabad pareva che fosse solamente occupato a mangiare: divorava con ingordigia i delicati cibi, le deliziose frutta e beveva grande quantità d’acqua zuccherata, essendo il vino proibito sotto pena di morte, secondo i precetti di Maometto: ma pur fingendo di non guardare la giovine persiana, non la perdeva di vista un solo istante. Quell’uomo, sospettoso come lo sono in generale tutti i disgraziati servi orientali, presentiva qualche cosa e stava in guardia, non fidandosi dell’apparente calma della giovanetta.

Quei continui sguardi che si volgevano verso l’alcova, l’agitazione nervosa della giovane, quei sospiri repressi, nulla gli era sfuggito. I suoi sospetti si accrebbero quando si udì nell’alcova un legger rumore che pareva prodotto dalla caduta di qualche vasetto o dallo strofinìo di un vestito di seta.

Rialzò vivamente il capo, lasciando cadere una superba melagrana che stava per addentare.

— Che cos’hai? — gli chiese Fathima, la quale, udito quel rumore, era subito impallidita.

— Hai udito nulla, signora?

— No.

— Mi è sembrato che fosse caduto qualche oggetto nell’alcova.

— Ti sei ingannato.

Aliabad la guardò in viso.

— Ma tu sei pallida — disse.

— È la collera.

— Che vi sia qualcuno nell’alcova?

— E chi mai?

— Hai dormito in questa stanza la scorsa notte?

— Nel mio letto. Ma perchè questa domanda? — chiese Fathima, facendo uno sforzo supremo per non tradire l’angoscia interna.

— Sai che abbiamo visto un ribelle nel giardino?

— Lo so, Aliabad.

— Mi era passato pel capo il sospetto, che il ribelle si fosse nascosto nell’alcova.

— Sei pazzo.

— Hai ragione, signora; tu l’avresti veduto e non sarebbe più sfuggito.

Il servo, forse rassicurato, si rimise a mangiare la melagrana, ma di quando in quando i suoi occhi grigi si fissavano con ostinazione [p. 77 modifica]sulle tende di seta dell’alcova. Fathima non aveva più osato guardare da quella parte per tema di accrescere i sospetti di lui, ma la sua ansietà aumentava ed invano cercava un modo per uscire da quella disperata situazione, che poteva causare la morte del prode e leale Nadir. Ella si chiedeva con ispavento che cosa sarebbe accaduto se l’astuto guardiano si fosse accorto della presenza di quel giovanotto, e come questi avrebbe potuto salvarsi, se la prigionia continuava.

Aveva dapprima pensato d’allontanare quell’incorruttibile guardiano con un pretesto qualsiasi, ma si era ben presto convinta che egli non si sarebbe mosso, sospettoso come era. Aveva pure pensato di tentare d’ubriacarlo introducendo nella caraffa dell’acqua zuccherata un granello o due di oppio, ma egli non la perdeva d’occhio. Nondimeno bisognava trovare uno scioglimento: non voleva veder morire di fame e di sete il povero Nadir, che già da ventiquattro ore non aveva preso una goccia d’acqua.

Mentre pensava e ripensava arzigogolando progetti sopra progetti, Aliabad, che pareva si trovasse molto bene in quella stanza, e che pareva risoluto a non muoversi, aveva caricato il suo nargul di quell’eccellente tabacco chiamato tumbak, assai forte perchè si raccolgono le foglie allorquando sono appassite, e si era messo a fumare con una beatitudine da far invidia ad un pascià.

— Aliabad, — disse ad un tratto Fathima, — dov’è il padrone?

— Nelle sue stanze.

— Va’ a chiamarlo, chè devo parlargli.

Aliabad prese un piccolo martello e fece atto di battere su di una lastra di rame e bronzo che era sospesa al muro.

— Che cosa fai? — chiese Fathima, coi denti stretti.

— Chiamo i servi perchè avvertano il padrone.

— Non lo chiamerai.

— Come ti piace, signora.

In quell’istante, dietro alla tenda dell’alcova, si udì come un sospiro ed uno scricchiolìo. Il servo balzò in piedi gettando uno sguardo sospettoso sulla giovane persiana e un altro sulla tenda.

— Ma vi è qualcuno là dentro — disse.

— Nessuno — rispose Fathima, mettendosi risolutamente dinanzi a lui.

— Ho udito un sospiro.

— Il tumbak ti è salito al cervello.

— No, signora: il mio cervello è sereno. [p. 78 modifica]

— Ebbene? — chiese Fathima incrociando le braccia e saettandolo cogli occhi.

— Andrò a vedere io chi si nasconde nella tua alcova.

— Tu non entrerai nel santuario mio.

— È l’ordine del padrone e dello sciàh!

— Miserabile!...

Aliabad, che era risoluto a tutto, forte del diritto accordatogli dal padrone, allontanò bruscamente la giovinetta gettandola da un lato e si slanciò verso l’alcova.

Stava per toccare le tende, quando queste si aprirono, e Nadir comparve col suo formidabile kandjar alzato, dicendo con voce minacciosa:

— Se tu pronunci una parola o se fai un gesto, ti spacco il cranio!... In ginocchio! In ginocchio, sciagurato!



[p. 73 modifica]— Se tu pronunci una parola, se fai un gesto, ti spacco il cranio!... (Pag. 78.)