Il re della montagna/6. La visita dei guardiani

6. La visita dei guardiani

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5. Il primo palpito 7. Una situazione terribile


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Cap. VI.

La visita dei guardiani.

Ai primi albori, Nadir, che a poco a poco si era assopito sul divano, riaprì gli occhi. Per prima cosa vide la giovane persiana nel suo splendido costume del dì innanzi, che gli stava di fronte colle braccia incrociate sul seno, la bocca sorridente, il viso animato da un legger rossore e gli occhi fissi fissi su di lui.

— Tu!... tu!... — esclamò egli, balzando rapidamente in piedi.

— Ti ho udito parlare mentre dormivi — diss’ella sottovoce — e sono venuta a vedere, temendo che tu facessi un cattivo sogno.

— Io parlava?... E cosa dicevo?...

— Parlavi delle tue montagne, del tuo castello, di un vecchio che hai lasciato lassù, e pronunciavi un nome.

— Quale?...

Fathima arrossì e non rispose.

— Il tuo nome forse? — chiese egli con animazione. — Ah sì! Mi ricordo... mi ricordo... ho sognato dei miei monti, delle mie torri, del vecchio Mirza e poi te... sì, sì, ho pronunciato senza dubbio il tuo nome... Mi ero addormentato con una strana agitazione indosso ed ho sognato di te.

— E perchè quei timori? — chiese la giovane persiana. — Non eri sicuro qui?

— Non era la paura di non essere abbastanza sicuro che me l’aveva cagionata, ma il fatto di trovarmi qui, furtivamente, in casa di una donna. Vi fu un momento in cui, dimenticando tutto, invaso [p. 56 modifica]da non so quale timore, mi avvicinai alle tende risoluto di sollevarle per salutarti ed andarmene.

— Tu!... — esclamò ella. — Tu, Nadir.

— Sì, io, ero come pazzo.

Fathima si avvicinò a Nadir e gli porse la mano.

— Io sapeva che tu eri leale, — diss’ella, — e mi sarebbe spiaciuto assai di essermi ingannata.

— Perchè? — chiese egli con fuoco. — Forse che anche tu hai sognato di me? Forse che anche il tuo cuore batteva forte forte?

La giovanetta, invece di rispondere, si mise un dito sulle labbra mormorando:

— Taci, Nadir, taci ed ascolta.

Nel giardino si erano uditi dei passi affrettati.

— I nemici? — chiese il Re della Montagna, portando rapidamente la destra sull’impugnatura del fedele kandjar.

— Non far rumore, Nadir — diss’ella con voce supplichevole. — Non voglio che quegli uomini ti scoprano.

— E se mi scoprissero, mi imprigionassero, mi uccidessero?

— Non parlare così, Nadir, no, no. Queste parole mi fanno male.

— Perchè?...

La giovane chinò il capo sul petto, senza rispondere.

— Ah! — esclamò Nadir, soffocando a stento un grido di gioia. — Tu mi proteggi!...

— Zitto, Nadir, zitto!... Ci sono i tuoi nemici nel giardino.

— Ora non li temo più; mi pare di essere diventato tanto forte, da disperderli tutti con un solo colpo del mio kandjar.

Proprio in quel momento si udì una voce nel giardino a gridare:

— Si è veduto?

— No — rispose un’altra.

— Siete certi?

— Certissimi.

— Allora visiteremo gli appartamenti delle donne. Voi altri intanto non muovetevi dai vostri posti e fate buona guardia.

— Hai udito, Nadir? — chiese Fathima, che era diventata pallida.

— Tutto — rispose il giovanotto. — Ma il Re della Montagna non ha paura finchè ha il suo kandjar.

— Ma se ti scoprissero?

— Mi aprirò il passo a colpi d’arma. [p. 59 modifica]

— Ma come supererai le mura del giardino?

— Sono agile e svelto come gli onagri che inseguo sulla montagna.

— E se tu riuscissi a fuggire, non ci rivedremo più?

— Sì, io tornerò a vederti, fossi certo di lasciare la vita nell’impresa — disse Nadir con veemenza. — Non saprei rassegnarmi a non rivederti più mai, o mia buona Fathima, che mi hai protetto!

— Nadir, odi? — chiese ella afferrandolo vivamente per le braccia.

— Sì, salgono le scale.

— Va’, nasconditi nell’alcova. Io farò il possibile perchè non entrino là.

Nadir snudò il kandjar, volse un saluto affettuoso alla fanciulla, e si precipitò nell’alcova, lasciando cadere dietro di sè le tende.

Quasi nel medesimo istante si udì bussare all’uscio.

La giovanetta, che si era avvicinata alla finestra studiandosi di far sparire la viva emozione che alteravale il viso, si volse chiedendo con voce ancor tremante:

— Chi è?

— Aliabad, il capo dei guardiani — rispose una voce grossa.

— Entra.

La porta si aprì, ed un uomo tarchiato e barbuto, vestito riccamente, armato di una pistola incrostata di madreperla, e di un kandjar, entrò, seguìto da due altri uomini, due altri guardiani, pure riccamente vestiti ed ugualmente armati.

— Che vuoi? — chiese la giovanetta, cercando di rendere la sua voce tranquilla e mostrarsi di cattivo umore.

— Salute alla bella Fathima — rispose Aliabad, curvandosi fino a terra — Ora lo saprai.

— Spicciati, chè non son d’umore buono oggi.

— Hai udito ieri sera dei colpi di fucile nel giardino?

— Sì, e che significavano? Contro chi fu sparato? Forse che qualcuno di voi si permette di uccidere le mie gazzelle? Badate che il padrone è capace di punirvi colla frusta.

— Le tue gazzelle non furono toccate, padrona. Fu sparato invece contro un uomo che si era introdotto nel giardino.

— Un uomo che si è introdotto nel giardino! — esclamò ella, affettando la più viva sorpresa. — Ma chi era?

— Credo sia uno di quei ribelli che ieri strapparono il condannato sulla piazza di Meidam.

[p. 49 modifica]La porta si aprì, ed un uomo tarchiato e barbuto, vestito riccamente, armato di una pistola e di un kandjar entrò, seguito da due altri uomini.... (Pag. 59.)

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— E l’avete ucciso?

— Allah l’avesse voluto.

— È ancora nel giardino?

— No, si è nascosto nel palazzo.

— E dove?

— Nell’harem, crediamo.

— Io non ho veduto nessuno.

— Ma forse è nascosto qui.

— In quale luogo?

— Non lo so, ma lo sapremo.

— Tu sei pazzo, Aliabad. Se fosse qui entrato, io l’avrei veduto. Cerca invece nelle altre stanze dell’harem.

— Se non lo trovo qui, le visiterò accuratamente una per una, poi tutte le altre, e se sarà necessario, anche il tetto del palazzo. Lascia ora che noi esaminiamo il tuo appartamento.

— Ti ripeto che tu sei pazzo. Qui non c’è nessuno.

— Non importa; faccio il mio dovere — disse il guardiano con risolutezza.

— E se io te lo vietassi?

— Non ti obbedirei. Io sono il capo dei guardiani e ho il dovere di visitare tutte le stanze dell’harem.

— Ebbene, le mie non le visiterai — diss’ella con suprema energia. — Esci di qui.

— No, padrona.

— Esci di qui, schiavo.

— Dopo che mi sarò accertato che qui il ribelle non c’è.

— Non sai adunque che io sono una figlia pel tuo padrone?

— Lo so, ma io devo fare il mio dovere, ti ho detto, signora.

— Ma io ti farò frustare a sangue, se osi contraddirmi.

— Dopo mi farai anche impalare, se vuoi; ma io visiterò le tue stanze.

Una vampa d’ira salì in viso alla giovinetta, che forse per la prima volta si vedeva contrariata da uno schiavo.

— Aliabad, esci di qui — diss’ella coi denti stretti.

— Non lo posso, padrona. Sopra di te comanda il padrone, e, disobbedendogli, sarebbe capace di farmi impalare. Fate il vostro dovere, voialtri — disse rivolgendosi verso i suoi dipendenti.

Estrasse il kandjar e si fece innanzi seguito da loro, ma la [p. 61 modifica]giovinetta aveva raccolto uno scudiscio che stava su un divano e si era messa dinanzi a loro.

— Indietro, schiavi — diss’ella con sdegno ardente.

— Padrona — disse Aliabad, guardandola fissamente. — Perchè tanta ostinazione? È forse la prima volta che io entro nelle tue stanze?

— Indietro, ti ripeto.

— No, padrona.

Fathima alzò lo scudiscio, esitò un istante, poi lo lasciò cadere, con quanta forza aveva, sul viso di Aliabad, lasciandovi un solco sanguinoso.

Aliabad mandò un vero ruggito, ma non indietreggiò. La giovanetta, pazza di rabbia, decisa a tutto, pur di salvare Nadir, che ormai amava, rialzò lo scudiscio, ma in quell’istesso momento si udì una voce stentorea a gridare:

— Chi osa provocare lo sdegno di Fathima?

Un vecchio dalla lunga barba bianca, coi lineamenti energici malgrado l’età, gli occhi scintillanti, ma che avevano un riflesso crudele, duro e punto franco, s’inoltrò lentamente colla fronte aggrottata e la destra appoggiata sul calcio di una pistola, la cui canna era artisticamente rabescata e incrostata di perle e di smeraldi.

— Il padrone! — esclamarono ad un tempo Aliabad ed i due servi, inchinandosi umilmente fino a terra e facendosi da parte.

— Voi, signore! — esclamò Fathima, impallidendo e lasciando cadere a terra lo scudiscio.

— Che avviene qui?! — chiese il vecchio con accento terribile e fissando sui guardiani due occhi che mandavano fiamme.

— Principe — balbettò il capo dei servi, senza osar guardarlo in viso. — Cercavamo un ribelle rifugiatosi ieri sera nel vostro giardino.

— Un ribelle?... Qui!... Nel mio giardino!...

— Sì, principe.

— Chi era?

— Un montanaro, uno di quelli che provocarono la ribellione sulla piazza di Meidam e che salvarono quel tal Harum.

— E si rifugiò qui?

— Sì, principe.

— L’avete veduto voi?

— Sì, l’abbiamo veduto scalare il muro del giardino.

[p. 57 modifica]Fathima alzò lo scudiscio, esitò un istante, poi lo lasciò cadere con quanta forza aveva, sul viso di Aliabad, lasciandovi un solco sanguinoso. (Pag. 61.)

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— E venite a cercarlo nelle stanze di Fathima?

— Dal giardino non l’abbiamo veduto uscire, bisogna quindi cercarlo nel palazzo.

— Fathima — disse il vecchio rivolgendosi alla giovinetta che rimaneva silenziosa, col cuore trepidante, ma pronta a tutto. — Conosci e sai dove sia questo ribelle?

— No, signore — rispose ella arrossendo, ma senza esitare.

— Uscite adunque, vili canaglie, — disse il principe con accento minaccioso, — e guai a chi entrerà.

I tre guardiani s’inchinarono profondamente e uscirono più rapidamente di un branco di gazzelle spaventate.

— Signore — disse Fathima respirando lungamente. — Qual motivo ti guida qui?

Il vecchio non rispose. Si era messo a passeggiare per la stanza colle braccia incrociate e la fronte accigliata, come se un grave pensiero lo conturbasse.

La giovanetta rimase silenziosa, solo volse gli occhi verso l’alcova, dove ad intervalli vedevansi tremare lievemente le tende.

— Ascoltami — disse ad un tratto il vecchio principe, sedendosi su di un divano.

— Parla, chè t’ascolto, signore.

— Ho una importante comunicazione da farti e che ritengo ti farà felice.

— E quale mai?

— Mi hanno chiesto la tua mano.

La giovanetta, che si era seduta ai piedi del principe, scattò in piedi come se fosse stata toccata da una molla.

— La mia mano!... La mia mano!... — esclamò, impallidendo ed arrossendo.

— Che cosa trovi tu di strano in questo? — chiese il vecchio guardandola fissamente, come se volesse leggerle nel più profondo del cuore. — Sai che compirai fra breve quindici anni?...

— Lo so, ma io amerei meglio vivere al tuo fianco.

— Rifiuteresti? — chiese il vecchio aggrottando la fronte.

— Sono ancora giovane, signore.

— Non importa: meglio, anzi!

— Ma potrei essere infelice, mentre qui...

— Sai chi è l’uomo che ti chiede? [p. 63 modifica]

— Lo ignoro.

— È potente.

— Qualche khan?1

— Più ancora.

— Un sadri-azem?2

— Più ragguardevole ancora.

— Ma chi mai adunque?

— Lo sciàh.

— Il re!...

Fathima era indietreggiata pallida come un cencio lavato ed in preda ad una viva agitazione:

— Il re! — ripetè con voce tremante. — Io moglie del re!...

— Non ti aspettavi simile onore?

— No.

— E’ la fortuna della mia casa.

— Ma...

— Che cosa? — chiese il vecchio con accento duro.

— Non amo lo sciàh.

— E che m’importa?

— Potrei essere infelice, signore.

— Infelice!... Tu, che potrai avere diamanti a staia, che potrai avere tutto ciò che può desiderare fantasia di donna, che avrai a’ tuoi cenni migliaia di servi e che...

— Basta, signore — mormorò la disgraziata. — Io non sono nata per vivere a fianco di così potente signore, nè di altre donne.3

— Che cosa vieni a narrarmi tu?... Quale donna rifiuterebbe tanta grandezza e tanti onori?

— Ma ti dico che non potrei amarlo.

— Per quale motivo?

— Perchè mi trovo bene presso di te, signore. Io non aspiro a simili grandezze; preferisco la tranquillità della tua casa.

— Ma io posso costringerti.

— Non ne hai l’autorità, signore. [p. 64 modifica]

— Chi te lo dice?

— Non sei mio padre tu — disse la giovanetta con energia.

Il vecchio principe impallidì, poi arrossì, e parve che per alcuni istanti la sua voce terribile si fosse spenta. Ad un tratto si alzò di scatto, cogli occhi schizzanti dalle orbite, la fronte tempestosamente aggrottata, e tuonò con accento stridulo:

— E chi sei tu infine?... Sei tu che osi discutere i miei voleri?... Tu che ardisci negarmi obbedienza?... Ma sai che, se io non t’avessi accolta nella mia casa, a quest’ora saresti raminga per la Persia e forse morta, uccisa come tutti i tuoi ambiziosi parenti?... Chi sono io adunque per te?... Un padrone, od un tuo schiavo?...

— Ma, signore...

— Basta!... — urlò il vecchio. — Ah! Tu rifiuti?... Ma credi tu, disgraziata, che io vada dallo sciàh a recargli il tuo stolto rifiuto?... Ma non sai adunque che egli è l’uomo più potente della Persia e che con un solo cenno può rovinare la mia casa e confiscare i miei beni?

— Ma io non posso amarlo!... — esclamò Fathima scoppiando in singhiozzi. — Preferisco che tu mi uccida!

Il vecchio principe le si avvicinò, fissando su di lei uno sguardo acuto come la punta di uno spillo.

— Forse che tu ameresti qualcuno?... — le chiese con voce rauca. — Ma chi?... Eh via!... È impossibile: in casa mia non penetra occhio straniero!...

Pure quel sospetto parve che lo scuotesse e si radicasse nel suo animo. S’affacciò alla porta gridando:

— Aliabad!...

Il servo, che lo attendeva al di fuori, rientrò curvandosi umilmente fino a terra.

— Alzati — disse il vecchio con voce brusca. — A te incombe la sorveglianza della mia casa.

— È vero, padrone.

— Nessun uomo è mai entrato qui?...

— Mai, padrone.

— Bada!...

— Te lo giuro, padrone.

— È mai uscita sola Fathima?

— Mai.

— Pensaci prima di rispondere, poichè potrei farti impalare dopo d’aver frustata a sangue la tua vecchia pelle, schiavo maledetto. [p. 67 modifica]

— Ti ripeto che Fathima non è mai uscita sola.

— Nessuno sguardo straniero è penetrato in questa casa?...

— Nessuno.

— Risponde la tua testa.

— È tua, padrone, e se ho mentito te l’abbandono.

— Vattene!...

Poi, mentre Aliabad usciva frettolosamente, pallido per la paura provata, il principe, rivolgendosi verso Fathima che era caduta su di un divano, riprese:

— È fissato che tu diverrai la quarta moglie dello sciàh.

— Mai!... — esclamò ella con disperazione.

— Lo voglio!...

— Ti disobbedirò.

— Nessun mi resiste, tu lo sai.

— Ti ucciderò prima di quel giorno.

— Pazzie.

— Te lo giuro.

— Vi sarà chi te lo impedirà.

— Ma abbi compassione di me, signore. Non mi hai mai amata, è vero; ma mi hai rispettata e fatta rispettare ed hai tollerato i miei capricci di fanciulla. Perchè ora vuoi spezzare il mio cuore e fare di me una infelice?...

— Io mi tengo onorato d’imparentarmi coll’uomo più potente della Persia, e sono ambizioso di questo onore, che tutti m’invidiano.

— Imparentarti?... — chiese Fathima stupita. — Ma chi sei tu?... Non sono adunque una straniera per te?...

— Ciò non ti riguarda. Basta così: domani cominciano le feste pel martirio di Hussein, e appena terminate lo sciàh ti riceverà nel suo palazzo. Ho detto: guai a chi mi si oppone.

Il principe uscì pallido per l’ira, chiudendo furiosamente la porta, mentre Fathima scoppiava in pianto.



Note

  1. Generale.
  2. Ministro.
  3. I re, i principi ed i ricchi sposano quattro mogli.