Il podere (Tozzi)/XXIV
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XXIV.
Eppure, la sera stessa, alla Casuccia, Remigio si sentiva contento, è si mise a scherzare con Moscino. Anche Lorenzo raccontò una barzelletta che fece ridere; ma Berto stava ad ascoltare come se avesse creduto che ridessero di lui; e, quando passò il gatto di Tordo, gli attraventò il cappello. Remigio disse:
— Povera bestia!
— Se fosse mio, a quest’ora, gli avrei tirata una fucilata: i gatti non li posso patire.
Disse Picciòlo:
— Anche loro hanno diritto a vivere, perchè sono stati creati come noi. Mi ricordo di un contadino che li faceva morire tutti quanti gliene nascevano, strizzandoli tra l’uscio e il muro; ma non finì bene! Già, ho sempre sentito dire, da tutti i vecchi, che ad ammazzare i gatti ci si porta disgrazia. E quel che dicono i vecchi è vero!
Berto, si ritenne già provocato, e rispose:
— Io, per ora, sono più giovane che vecchio; e, perciò, non ho nessuna paura ad ammazzare anche un uomo!
E saltò a sedere sul pozzo, incrociando le braccia. Picciòlo, allora, disse ai suoi figlioli:
— Perchè non cavate il vitello? Un poco d’aria libera gli farà bene. È stato, fin ad ora, sempre nella stalla.
Benchè lo reggessero in due, il vitellino entrò nell’aia a lanci; e sarebbe scappato dal cancello, se Tordo non l’avesse chiuso prima. Picciòlo, vedendolo gagliardo a quel modo in faccia agli altri assalariati, pareva briaco dalla contentezza; e cercava di abbracciarlo e di accarezzarlo. Ma il vitellino gli dava certi urtoni che lo facevano sempre barcollare; quando non trovò dove appoggiarsi con un braccio, ruzzolò a gambe ritte. Si misero a ridere tutti; anche Lorenzo che lasciò la fune.
Il vitellino, allora, saltò una siepe, rasente la parata, e si dette a scorrazzare per il podere. Si fermava ai filari delle viti; fiutava i pampini come se avesse voluto farne una boccata; ma, dopo aver finto, di fermarsi, ricominciava a scappare, troncando e pesticciando i saggineti lasciati per seme. Gli occhi gli scintillavano; e rizzava la coda allungata e ravversata. Picciolo si raccomandava gridando:
— Pigliatelo, perchè c’è caso che si spezzi una gamba! Allora, bisognerebbe mandarlo al macellaio. La colpa è mia, perchè l’ho detto io di cavarlo dalla stalla!
I suoi figlioli, aiutati da Tordo, correndo fino alla Tressa, tutti sudati, riescirono a metterselo in mezzo e a ripigliargli la fune. Berto non s’era mosso; e disse, scotendo la testa:
— Vecchio rimbambito! Son sciocchezze che fanno rabbia!
Remigio, che trovava nelle parole di Berto quasi sempre un suggerimento utile, ebbe l'idea di rimproverare Picciòlo:
— Perchè vi siete fatto buttare in terra?
— Se chi è più forte di me non stesse soltanto a guardare, il vitellino non scappava.
Berto gli diede un’occhiata di traverso e sputò, pulendosi poi la bocca e i baffi a una manica. E Remigio disse a Moscino, che riportava la bestia:
— Mettilo nella stalla.
Il vitellino, scontento di non stare più fuori, guardava sempre a dietro, mugliando. I contadini si lavarono le mani al secchio del pozzo, e andarono a cena.
Tirava un vento caldo e pesante, che levava il respiro; e pareva che dovesse far cambiare di colore al turchino del cielo. E sotto quell’aria, gli olivi piegavano giù i rami fino ai solchi. Le nuvole, nella parte più bassa della valle, verso Buonconvento, dove non c’erano monti e l’orizzonte pareva scavato nell’argilla, gonfiavano; e lampeggiava fitto. Tra i granturchetti ingialliti e bruciati dall’arsura, sembrava che la Tressa dovesse asciugarsi prima di buio; e i pascoli bruciare. Le tegole vecchie della capanna e della parata schiantavano. Tutta l’argilla, calda e abbagliante, ribolliva: e, forse, il ciliegio sarebbe morto prima d’arrivare ad un altr’anno. Qualche pioppo s’era seccato.
Un cipressetto giovane, legato con il filo di ferro a un sostegno perchè il vento non lo storcesse, cigolava. Ma non si sentiva né meno un uccello; e Remigio guardava Siena; le cui vie, di lontano a quel modo, somigliavano a screpolature di case. In tutto il cielo c’erano soltanto quattro stelle.
Remigio, ripensando a quel che gli aveva detto il padrone di San Lazzaro, stava per rientrare in capanna a rivedere il fieno; ma Ilda lo chiamò per fargli sapere che nella botte a mano non c’era più vino.
— Ha detto la zia Luigia: che si beve stasera?
— Bisognerà mettere la cannella all’altra botte. — Ci pensa lei?
— Sì: ora chiamerò Piccilo, ad aiutarmi.
Egli scese in cantina con l'assalariato; che, per non farlo attendere, smise di mangiare.
Sfilarono la cannella dalla botte vuota, la rifasciarono di stoppa; e la infilarono a una piena. Ilda dette la candela a Picciòlo; e attinse un fiasco. Ma l'assalariato, mentre Ilda esciva di cantina, gli disse:
— Perchè lei si lascia mettere su a quel modo da Berto? Mi scusi, ma non sta bene da vero. A me non importa: glielo dico perchè il padrone dev’essere lei.
— Che mi ha detto di male?
— Le lascio considerare a lei. Oramai, lei ha un età che capisce le cose da sé.
Remigio, per scusarsi, disse:
— E' meglio che io non lo ascolti più.
— E troppo buono.
Remigio sentiva una contentezza insolita a parlare con lui; e gli chiese:
— Perchè?
— Se ne accorgerà in seguito. A me quell’uomo non mi garba.
— Ha detto qualche altra cosa, quando io non c’ero?
— Io non l’ascolto nè meno. Ci badi da sè. Il mio dovere d’avvertirlo l’ho fatto.
— Ha capito, forse, che lo voglio mandare via. — Se non lo manda via, andrà da sé.
— Ne sei sicuro?
— Ci metterei la mano sui fuoco.
— Non me ne importa.
— Ma, allora, finché sta qui con lei deve tenere il suo posto.
— Vedrai che da qui in avanti ci penserò io.
— Faccia come crede. Vuole altro?
— No; grazie.
Picciòlo gli dette la buona notte e tornò a cenare.
Ma il vino di quella botte era andato a male, e aveva preso la mercorella. Luigia, che l’aveva voluto assaggiare un sorso prima di mettersi a tavola, lo risputò:
— Benedetto Dio! Pare ranno! Io preferisco l’acqua.
Remigio si rassegnò subito:
— Beveremo l’acqua.
Alla matrigna crebbe il malumore.
— Per una sera, non me ne importa; ma io sono abituata a bevere il vino, E, poi, non sai che l’acqua del pozzo non è buona? Non sai che su i tetti ci vengono i piccioni dei contadini confinanti? Io non voglio prendere il tifo. Un bicchiere di vino fa sempre bene.
— E allora, vuole che lo compriamo alla Coroncina?
— Io non dico che tu lo debba comprare, ma bisogna pigliarci rimedio. Oppure, intanto, comprane un barile di quello più basso. Basta che si possa bevere. Che peccato! Quanto tiene la botte?
— Venti barili, almeno; credo!
— Tuo padre avrebbe saputo farlo ridoventare buono; ma io non so come faceva. Bisogna andare dal farmacista: ci mandava sempre Giulia!
— Domani, ci vada lei che la conosce.
— Io? Io mi occupo delle faccende di casa. Ti pare che io voglia andare dal farmacista per il vino!
Remigio, stizzito, la rimbeccò:
— Stia zitta: ci andrò io.
— Oh, io sto zitta! Se dovessi lamentarmi tutte le volte che ce ne è la ragione!
Remigio si provò a mandare giù qualche bicchiere di vino; ma era impossibile; e Luigia non smetteva più di far le boccacce, storcendo il viso tutte le volte che doveva bevere l’acqua.
— Le cose così non vanno bene! Era meglio se il Signore aveva tolto di vita me! Che ci faccio nel mondo io? La minchiona.
E rimproverò Ilda; perchè, sorridendo, aveva detto a Remigio che le pareva buono. Era addirittura inviperita.
— Tu sei una bambina, e devi tenere il tuo posto. Ricordati che la tua mamma ti ha affidata a me, perchè tu m’obbedisca come a lei.
Ilda fece una spallucciata, e rispose:
— Beverò l’acqua anch’io. O se, invece, andassi da Picciòlo a farmi dare un poco del suo vinello?
— Peggio! È tutto pieno di moscerini! E, poi, dobbiamo andare a chiedere l’elemosina dai nostri sottoposti? No, da vero! Fino a questo punto, non mi ci voglio ridurre, io!
— E, allora, stia zitta! — le rispose la bambina.
Remigio mangiò; e, poi, uscì perchè non aveva sonno. Tordo gli disse:
— Lo sente come piange una delle vacche? E per figliare.
Anche Remigio andò nella stalla. Picciòlo e Lorenzo, reggendo un lume ciascuno, guardavano la vacca; che, stesa a giacere, teneva la testa alta e mugliava. L’altra vacca seguitava a mangiare; e si sentiva il suo mastichio molle. Picciòlo gli disse:
— Ha fatto bene a venire anche lei.
— Figlierà stasera?
— Ci deve aver poco.
Lorenzo, preso dall’importanza della cosa, disse:
— Io scommetto che figlia subito.
Infatti, la vacca prese un’altra giacitura, come per stare più comoda; e, dopo poco, cominciò a fare gli sforzi con tutto il corpo che cambiava continuamente di forma: e, di fuori, si vedevano i rivoltoni che faceva il vitello. Tordo disse:
— Mi pare che il vitellino dentro si mova troppo. Deve farla patire parecchio.
Picciòlo la guardò e aggiunse:
— Speriamo che sant’Antonio l’aiuti.
Mentre parlavano a quel modo, cominciò a venire fuori una zampa. Lorenzo disse:
— Bisogna tirare noi il vitello, perchè questa vacca non avrebbe forza a farlo escire da sè.
— Prendiamo un cencio, per avvolgerlo alle mani. Altrimenti, sguisciano e non si può fare niente.
Trovarono una mezza balla, e ne fecero due pezzi: una la prese Lorenzo e una Tordo. La vacca, come se avesse capito, si sforzava sempre di più; e la zampa si allungò. Allora, Tordo l’afferrò; tirandola forte tutte le volte che la madre faceva lo sforzo.
Picciòlo gli disse;
— Attento di andare a tempo con lei. Quando riposa, state fermo anche voi.
Poi, apparve anche l’altra zampa; allora Lorenzo, l’afferrò come Tordo. Dopo un minuto, il vitellino nacque. La vacca, che era stata slegata, cominciò a leccarlo. Ma il vitello teneva gli occhi chiusi, aveva il muso quasi bianco; e non dava segni di vita. Le sue gambe parevano quattro pezzi di legno bistorti; ed era così magro come schiacciato.
Picciòlo disse:
— È possibile che sia morto mentre nasceva?
Tordo rispose:
— Un momento fa, era vivo di certo!
Lorenzo disse:
— Badate che questa vacca, ora che ci penso, ha figliato almeno un mese prima del tempo.
— È stata troppo strapazzata!
Remigio non aveva mai visto figliare; e gli dispiaceva per la vacca, che credendo il figliolo fosse vivo, seguitava a leccarlo e pareva che lo volesse alzare in piedi. L’altra vacca aveva smesso di mangiare e guardava. Anche il vitellino comprato, dal suo posto, allungava il collo e non stava più fermo. Remigio disse:
— Sfortunato come me non c’è nessuno!
Lorenzo gli rispose, come a una litania:
— Pare un destino.
Tordo disse:
— Speriamo che l’altra vacca, che pare più rigogliosa, ne faccia uno vivo.
Picciòlo per vederci meglio, staccò uno dei lumi; s’inginocchiò su la paglia. Tordo guardava stando corpugioni, con le mani su le gambe; Lorenzo teneva una mano allo spigolo della mangiatoia, e Remigio guardava la vacca che gli faceva compassione. Se non si fosse vergognato degli assalariati, avrebbe voluto piangere insieme con lei; e disse:
— Vorrei sapere perchè tutto mi va male.
Picciòlo gli rispose:
— Non se la prenda troppo. Andrà bene la figliatura di quest’altra!
Tordo stava zitto, perchè anche a lui dispiaceva. Allora, Lorenzo disse:
— Bisognerà sotterrarlo ad un olivo! Lo porteremo via domattina.
— Lo vorresti lasciare tutta la notte qui?
— Se lo portate fuori ora, c’è caso che qualcuno di questi cani randagi lo sciupi e lo mangi.
— Ficchiamolo, allora, dentro una cesta ricoperta con una tavola e una pietra sopra: così, potrà stare tutta la notte magari nella parata.
Remigio era restato sconvolto, e si sentiva tremare tutto. I muggiti della vacca gli facevano venire da piangere; e non poteva più guardarle gli occhi tanto afflitti che parevano più scuri e più fondi. Allora, salì in casa; per dire alla matrigna quel che era avvenuto. Luigia impallidì, ed esclamò:
— Abbiamo la maledizione sopra di noi!
Poi, picchiò Ilda, perchè era andata nella stalla a vedere. Non l’aveva mai picchiata a quel modo.
Remigio scese un'altra volta nell’aia, mentre gli assalariati accomodavano la cesta tra il muro e una ruota del carro; perchè i cani non la potessero smovere. C’era anche Berto, che disse a voce alta; perchè fosse sentito:
— Io credo che queste cose non avvengono senza che Dio non le desideri.
Remigio quasi gli s’avventò, gridando:
— Perchè dici così?
— Perchè questo è il mio parere.
La questione fu inevitabile.
— Bada che io, fino ad ora, ti ho sempre sopportato.
Anche Berto perse il lume degli occhi; e gli rispose; gridando più forte di lui:
— E io ho sempre sopportato lei.
— Che ho fatto io a te? Se il vitello fosse stato tuo, avresti avuto piacere di sentirti dire quel che tu hai detto a me?
Ma Berto buttò via una fune del carro che aveva raccattato di terra, per fare posto a la cesta; e salì di corsa in casa. Remigio e gli altri pensarono che sarebbe risceso con una falce o con un pennato; e Picciòlo spinse Remigio perchè se n’andasse.
Lorenzo disse:
— Quando vien la sera, il malvagio si dispera!
Erano addolorati, e non volevano che Berto facesse qualche pazzia. Ma la moglie lo aveva agguantato per le braccia e gli fece cadere l'accetta. Egli gridava:
— Lasciami fare! Non mi tenere!
Alla fine, sentendo gli altri assalariati su per le scale, le disse quasi sottovoce:
— Sarà per un’altra volta. Non la scampa.
Remigio, chiusosi in camera, si guardò lungamente allo specchio, con la faccia scomposta; e disse a voce alta:
— Perchè mi odia a quel modo?
Spogliandosi, preso da un malessere sempre più vivo, pensò alla vacca ed al vitello morto; e si sentì confortare.