Il padre di famiglia/Appendice/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
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Florindo. Voi siete il maestro che m’insegna a giocare e a scrivere le lettere amorose.
Ottavio. Omnia tempus habent. Quando è tempo di giocare, si gioca. Ora è tempo di pensare a riformare i costumi.
Florindo. Pensate a riformare i vostri, che ne avete più bisogno di me.
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SCENA II.
Pantalone e il Dottore.
Pantalone. Dottor caro, son travagià.
Dottore. So la causa del vostro travaglio. Son padre ancor io e vi compatisco.
Pantalone. Savè donca cossa che m’ha fatto Lelio mio fio.
Dottore. Lelio vostro figlio non è capace d’una simile iniquità.
Pantalone. L’aveu visto? Saveu dove ch’el sia?
Dottore. L’ho veduto e so dov’egli è.
Pantalone. Sia ringrazia el cielo. Sentì, amigo, ve confido el mio cuor. Tresento scudi i me despiase, ma finalmente no i xe la mia rovina. Me despiase perder un fio che fin adesso no m’ha dà altri travagi che questo; un fio, che me dava speranza de sollevarme in tempo de mia vecchiezza.
Dottore. Credete veramente che Lelio v’abbia portati via li trecento scudi?
Pantalone. Pur troppo la xe cussì. Altri che elo no li pol aver tiolti. Missier Fabrizio m’ha assicurà che a Lelio l’ha consegna i bezzi, e questa xe la fattura de le monede. (mostra un foglio)
Dottore. Ed io credo che sia innocente.
Pantalone. L’aveu visto? Gh’aveu parla?
Dottore. Sì, l’ho veduto e gli ho parlato.
Pantalone. Cossa diselo sto furbazzo? Cossa diselo sto desgrazià?
Dottore. Protesta e giura esser innocentissimo.
Pantalone. Zuramenti de sti baroni. Chi no gh’ha scrupolo de robar, no gh’ha scrupolo de zurar.
Dottore. O vostro figlio è il maggior scellerato della terra, o egli di questo fatto è innocente. Ha chiamato con delle orribili imprecazioni l’ira del cielo sopra di se, e giunse a dire: se io ho rubati li quattrini a mio padre, prego il cielo che un fulmine mi precipiti nell’inferno.
Pantalone. Zitto, no disè altro, che me fè inorridir.
Dottore. Egli si voleva affogare.
Pantalone. Oimei! Dove xelo? Dottor, disemelo, dove xelo?
Dottore. Quietatevi, signor Pantalone, che vostro figlio è in loco dove non può perire.
Pantalone. No me tegnì più in pena; diseme dove ch’el xe.
Dottore. Lelio vostro figlio è in casa mia.
Pantalone. In casa vostra? seguro?
Dottore. Assicuratevi che vi è senz’altro.
Pantalone. Sieu benedetto! El cielo ve ne renda el merito.
Dottore. L’ho ritrovato per strada piangente, disperato. Mi ha contato il fatto e mi ha intenerito. Per la buona amicizia che passa fra voi e me, ho procurato quietarlo e consolarlo. Gli ho data speranza che si verrà in chiaro della verità; che io parlerò a suo padre; che tutto s’aggiusterà; e abbracciandolo, come un mio proprio figlio, l’ho condotto alla mia casa e ho riportato in questa maniera ch’ei non si abbandoni a qualche disperazione.
Pantalone. Sieu benedetto. Ve ringrazio de la carità. Adesso mo xelo ancora da vu?
Dottore. Sì, è in mia casa; ma vi dirò che l’ho serrato in una camera, e ho portate meco le chiavi, perchè ho due figlie da marito, e non vorrei, per far un bene, esser causa di qualche male.
Pantalone. Caro Dottor, gh’havè do fie da maridar?
Dottore. Le ho certamente; e non ho altri che queste, e quel poco che ho al mondo, sarà tutto di loro.
Pantalone. Oh, se savessi quanto che xe che ghe penso, e quante volte son sta in disposizion de domandarvene una per un di mi fioi.
Dottore. Questo sarebbe il maggior piacere che io potessi desiderarmi. Sapete quanta stima faccio di voi, e so che non potrei collocar meglio una mia figliuola.
Pantalone. Ma adesso no gh’ho più fazza de domandarla.
Dottore. No? Perchè?
Pantalone. Perchè Florindo xe ancora troppo zovene, nol gh’ha gnancora giudizio; e po l’è un certo temperamento, che no me persuade de maridarlo. Aveva destinà che se maridasse Lelio, che xe el più grando, e che me pareva no buttasse mal, ma adesso no so cossa dir. Sto fatto de sti tresento scudi me mette in agitazion. No voria rovinar una putta, e quel che no me piaserave per mi, no gh’ho cuor de rischiar per un altro.
Dottore. Voi non parlate male. Si tratta di un matrimonio. Si tratta della quiete di due famiglie. Procuriamo di venire in chiaro della verità. Formiamo un processetto con politica fra voi e me. Voi avete in casa dell’altra gente, avete un altro figlio, avete della servitù. Chi sa, potrebbe darsi che qualcun altro fosse il ladro, e Lelio fosse innocente.
Pantalone. Volesse el cielo che la fusse cussì. In tal caso a Lelio mio fio ghe daressi una vostra fia per mugier?
Dottore. Molto volentieri. Con tutto il core.
Pantalone. Caro Dottor, vu me consolè. Vu sè veramente un amigo de cuor.
Dottore. Il vero amico si conosce nelle occasioni e nelli travagli.
Pantalone. I travagi xe spessi, e i veri amici i xe rari.
Dottore. La rarità della buona amicizia fa coltivar con più forza l’amico.
Pantalone. Se coltiva de le volte i nemici.
Dottore. Per ben conoscerli, ci vuole il lume dell’intelletto.
Pantalone. L’intelletto xe un lume che vien oscurà dal fumo de le passion.
Dottore. Signor Pantalone, mi consolo che ancor voi principiate a parlar da filosofo.
Pantalone. Tutti semo filosofi, ma tutti se fabrichemo una filosofia a nostro modo.
Dottore. La vostra filosofia com’è ella fatta?
Pantalone. Facile per mi e facile per chi m’ascolta.
Dottore. Cosa vi suggerisce la filosofia intorno al caso di vostro figlio?
Pantalone. Tre argomenti, uno più bello de l’altro; argomenti da omo, che no xe dottor, da marcante piuttosto che da filosofo. El primo me fa dubitar. El segondo me fa sperar. El terzo me tien tra la speranza e el timor. Sentì el primo. Lelio ha messi i bezzi in quella camera; Lelio ha serrà la porta; Lelio mezz’ora dopo li xe andai a tior, donca Lelio no li ha robai. Sentì el segondo. Se Lelio me li voleva robar, el podeva far de manco de portarmeli a casa; el me li ha portai fedelmente, donca Lelio no li ha robai. Sentì el terzo. Se Lelio no li ha robai, el xe innocente. Se el li ha robai, el se pol pentir, onde o da la innocenza soa, o dal so pentimento, aspetto quella consolazion, sospirada da un pare che ama i so fioi, la so casa e la propria reputazion.
Dottore. Amico, vado a contribuire per quanto posso alla quiete del vostro core, protestandomi d’essere a parte delle vostre afflizioni, e di poter dir con costanza: Amicus est alter ego. (parte)
Pantalone. Col parla latin, ho fenio d’argomentar. La passion produse dei effetti stravaganti in ti omeni. Mi sta volta la m’ha fatto filosofar. Ma che? I mi argomenti xe tanto naturali quanto xe i mi pensieri, perchè la me par cossa da matti pensar in t’una maniera e parlar in t’un’altra. Argomentar colla lengua contra le massime del proprio cuor.SCENA III.
Camera in casa del Dottor Balanzoni, con porta laterale chiusa ed una finestra dall’altra parte. Lumi sul tavolino.
Eleonora, poi Rosaura.
Eleonora. Chi mai è stato serrato da mio padre in questa camera? Confesso il vero che la curiosità mi spinge a saperlo. Vorrei guardare per il buco della chiave, ma non vorrei esser veduta. M’accosterò bel bello. Non credo mai che quell’uomo ch’è la dentro, sia per l’appunto alla porta per vedermi. Tirerò il lume più in qua. (si accosta e guarda per il buco della chiave) Oh, cappari, chi vedo! Il signor Lelio, figlio del signor Pantalone! Appunto è vicino al lume, l’ho conosciuto benissimo. Cosa mai fa in questa camera? (torna a guardare come sopra)
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Eleonora. (Quanto pagherei sapere perchè causa il signor padre ha serrato laddentro quel giovane? Per dir il vero, non mi dispiace. Quanto volentieri lo prenderei per marito! Ma bisognerà aspettare che si mariti la signora Flemmatica). (parte)
SCENA IV.
Rosaura, poi Eleonora.
Rosaura. Un giovinotto laddentro? Perchè mai? Davvero che lo voglio un poco vedere. Ma questa è curiosità. Sì, ma è una curiosità innocente; io non lo voglio guardare per malizia. Già nessuno mi vede; e m’ha detto la signora zia, che quando non v’è chi ci veda, potiamo prendersi qualche poco di libertà. (s’accosta e guarda) Uh com’è bello! Poverino! Sospira? Mi fa tanta compassione! Se potessi, lo consolerei. Piange, poverino, piange! Che fosse innamorato di me? Per qualche cosa mio padre l’ha qui rinserrato, ma io ho data parola a Florindo. E se Florindo non viene? Davvero non saprei da Florindo a questo chi più mi piaccia. Mi piacciono tutti due. Questo ha più dell’uomo. (guarda)
Eleonora. Brava, signora sorella, la vostra non si chiama curiosità.
Rosaura. No, sorella carissima, la mia non si chiama curiosità.
Eleonora. Ma che cosa v’ha spinto a guardar laddentro?
Rosaura. La carità del prossimo.
Eleonora. Come la carità?
Rosaura. Sentendo un uomo a piangere e sospirare, non ho potuto far di meno di non indagare il suo male per procurargli il rimedio.
Eleonora. Vi credete voi in istato di poterlo aiutare?
Rosaura. Volesse il cielo che far lo potessi. Quando posso giovare al prossimo, son tutta contenta.
Eleonora. In questa maniera giovareste a lui e giovareste a voi.
Rosaura. A me? come?
Eleonora. Maritandovi assieme.
Rosaura. Via, via, sfacciatella, non parlate di queste cose. (vien battuto alla porta di strada)
Eleonora. È stato picchiato all’uscio di strada.
Rosaura. Guardate chi è.
Eleonora. Potete guardare anche voi.
Rosaura. Io non mi affaccio alle finestre. La modestia non me lo permette.
Eleonora. Senza tanti riguardi guarderò io.
Rosaura. Povero giovine! Star così rinserrato? Patirà.
Eleonora. Sapete chi è?
Rosaura. Chi è mai?
Eleonora. Il signor Florindo.
Rosaura. Gli avete aperto?
Eleonora. Mi credereste ben pazza. Io non apro a nessuno, quando non vi è nostro padre.
Rosaura. L’avete mandato via?
Eleonora. Per dirvela, non gli ho detto cosa alcuna.
Rosaura. Domanderà nostro padre. Facciamolo entrare.
Eleonora. Nostro padre non c’è.
Rosaura. Lo aspetterà.
Eleonora. E intanto dovrebbe star qui con noi?
Rosaura. L’aspetterà nello studio.
Eleonora. Orsù, non gli voglio aprire, aspetti in strada.
Rosaura. Ora che mi sovviene, sapete cosa vorrà? Vorrà veder suo fratello.
Eleonora. Bene, aspetti, che lo vedrà.
Rosaura. No, no, non bisogna farlo aspettare. Se vuol vedere suo fratello, noi non lo dobbiamo impedire.
Eleonora. Poco può tardar nostro padre a venire a casa.
Rosaura. Bella carità! impedire che non venga a consolare suo fratello. Io non ho core di soffrire una simile crudeltà. Voglio aprirgli; voglio che venga.
Eleonora. Fate ciò che volete. Mi basta non averlo fatt’io.
Rosaura. Ehi signor Florindo, venga, venga. (alla finestra) Salisca, che l’uscio è aperto. (tira la corda)
Eleonora. Che dirà il signor padre, se lo trova con noi?
Rosaura. Oh, facciamo una cosa da giovani savie e prudenti. Ritiriamoci nelle nostre camere, e lasciamo che il signor Florindo possa parlare con suo fratello.
Eleonora. Questo sarà il minor male; andiamo. (parte)
Rosaura. La compagnia di mia sorella disturba i miei disegni. Tornerò a miglior tempo. (parte)
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SCENA VIII.
Camera in casa di Pantalone.
Colombina.
In questa casa non si può più vivere. La padrona è cambiata. Il padrone va sulle furie, ed io quanto prima m’aspetto a ridosso un qualche grosso malanno. Il signor Florindo mi aveva quasi quasi lusingata colle sue belle parole, ma la conclusione è stata, che quel birbone del maestro mi ha portati via gli smanigli. Oh, son stata pur sciocca a credere alle lusinghe di quel ragazzo! Maledetta la mia disgrazia! Ecco qui tanti stenti a farmi un paio di smanigli, ed ora il diavolo me li ha portati via. (piange)
SCENA IX.
Florindo e detta.
Florindo. Colombina, che avete che piangete?
Colombina. Piango per causa vostra.
Florindo. Per causa mia? Cara la mia Colombina! Se vi amo tanto; se tanto sono di voi innamorato, perchè piangere, perchè dolervi?
Colombina. I miei smanigli mi fanno piangere.
Florindo. Non vi ho io detto che ve ne darò di più belli? Eccoli. Che ne dite? Vi piacciono, sono più pesanti? Son fatti alla moda?
Colombina. Belli, belli, belli. Ora vedo che mi volete bene.
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SCENA X.
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Colombina. Pazienza, anderò via, anderò in rovina, e voi, signora, sarete stata la causa del mio precipizio.
Beatrice. Io, disgraziata, io?
Colombina. Sì, voi, che invece di sgridare a vostro figlio, quando mi veniva d’intorno, avete più tosto sgridato me, perchè non secondavo le sue impertinenze.
Beatrice. Non ho mai creduto che la tua temerità arrivasse a a tal segno.
Florindo. Ma! Quando i ferri si scaldano, la va così.
Beatrice. Non arrossisci a dar la mano ad una cameriera? (a Florindo)
Florindo. Oh bella! Ho imparato a darle la mano, quando avevo quella scottatura.
Beatrice. Va via di qua, ti dico. (a Colombina)
Colombina. Sia maledetto quando ci son venuta.
Beatrice. Così parli, temeraria?
Colombina. Vi domando perdono, se malamente ho parlato; la passione mi fa uscir di cervello. Povera me! Dove anderò? Che farò? Che sarà di me? Signora padrona, lo dico colle lagrime agli occhi, il cielo vi castigherà. (parte)
SCENA XI.
Beatrice e Florindo.
Beatrice. (Petulante! Se non parti?) Caro il mio Florindo, non credevo mai, che tu facessi davvero.
Florindo. Lasciatemi stare.
Beatrice. Che hai? Sei disgustato?
Florindo. Lasciatemi stare; non mi rompete la testa.
Beatrice. Ma che hai? Sei meco in collera?
Florindo. Quella povera ragazza ha ragione. Voi avete mostrato piacere che mi fosse amica, ed ora la cacciate via.
Beatrice. Amica, ma non sposa.
Florindo. O sposa, o amica che sia, Colombina non ha d’andare fuori di casa.
Beatrice. Anzi voglio che ci vada ora.
Florindo. Non ci anderà, l’intendete? Non ci anderà.
Beatrice. Così parli a tua madre?
Florindo. Oh di grazia! che mi fate paura.
Beatrice. Briccone! Sai che ti voglio bene e per questo parli così?
Florindo. O bene, o male che mi vogliate, non me n’importa un fico.
Beatrice. Così rispetti colei che ti ha messo al mondo?
Florindo. Volete che impari oggi a portarvi rispetto? È troppo tardi.
Beatrice. Ah ingratissimo figlio!
Florindo. Sarei ingrato, se non facessi quello che m’avete insegnato.
Beatrice. Che cosa t’ho io insegnato?
Florindo. a far a modo mio. (in atto di partire)
Beatrice. Dove vai?
Florindo. Dove voglio.
Beatrice. Fermati.
Florindo. Non vi ascolto. (parte)
SCENA XII.
Beatrice, poi Pantalone.
Beatrice. Ohimè! Così mi tratta mio figlio? Mi perde il rispetto? Non mi stima, non mi ama? Ah, causa di tutto questo è quella indegna di Colombina. Ha ingannato il mio povero figlio, lo ha stregato assolutamente. È capace di seguitarla, è capace di rovinarsi e sposarla. Non v’è altro rimedio che ammogliarlo, e ammogliarlo subito. È un temperamento che facilmente si svoglia. Concluderò le nozze della signora Rosaura, e lo acquieterò? Staccato da quella indegna di Colombina, tornerà ad amarmi; tornerà a rispettarmi.
Pantalone. Cossa gh’ha Colombina che la pianze e la dise che vu l’ave licenziada de casa?
Beatrice. Indegna! Mi ha rubato.
Pantalone. Ben, cazzarla via. E cossa gh’ha Florindo ch’el pesta i pie, el se batte la testa e gh’ho anca sentio a mastegar tra i denti qualche cospetto?
Beatrice. Credo che gli dolgono i denti.
Pantalone. Che ghe dogia i denti? E mi ho paura che ghe dogia la testa; e che mi, per farghela varir, ghe l’abbia da romper in quattro tocchi.
Beatrice. Perchè? Cosa vi ha fatto, poverino?
Pantalone. Sentì. In sto ponto me xe sta dito che Florindo l’ha perso cinquanta scudi in t’una biscazza, e che l’ha comprà un per de manini d’oro. Se ste cosse xe vere, lu l’è sta quello che ha roba i tresento scudi. A chi me l’ha dito no ghe vôi creder. Ho mandà a chiamar do persone de credito, che se dise le sia informae de tutto, e se xe vero sto fatto, nè vu, nè tutto el vostro parentà, nè tutto sto paese me tien che no daga un esempio.
Beatrice. Male lingue, marito mio, male lingue. Mio figlio oggi non è uscito di casa. È stato tutto il giorno e tutta la sera a studiare nella mia camera; per questo credo che gli dolgano i denti e il capo.
Pantalone. Basta, scoverziremo la verità. El maestro dove xelo, che nol se vede?
Beatrice. Studia e fa studiare il povero Florindo. Lelio è il briccone; egli ha rubati i trecento scudi.
Pantalone. Gnancora posso dir gnente, ma me xe sta dite certe galantarie de sior Florindo che, se le xe vere, volemo rider.
Beatrice. Florindo è il più buon figliuolo del mondo.
Pantalone. Se l’è bon, sarà ben per elo. Se Lelio l’è el cattivo, el pagherà la pena. Ho parlà con un capitano de nave che xe a la vela. Subito che ho scoverto chi xe el baron, subito lo fazzo imbarcar e lo mando via.
Beatrice. Florindo non vi anderà certamente.
Pantalone. Ma perchè no gh’anderalo?
Beatrice. Perchè Florindo è buono.
Pantalone. Prego el cielo che sia la verità.
SCENA XIII.
Brighella e detti.
Brighella. Ah sior patron. Ah siora patrona, presto, che no i perda tempo.
Beatrice. Cosa c’è?
Brighella. So fiol, el sior Florindo
Pantalone. Cossa?
Beatrice. Come?
Brighella. L’ha menà via Colombina.
Pantalone. Ah furbazzo! Ghe doleva i denti?
Beatrice. Non sarà vero nulla.
Brighella. E no gh’ha basta menar via Colombina....
Beatrice. Presto.
Pantalone. Coss’halo fatto?
Brighella. L’ha porta via al scrigno delle zogie della patrona.
Beatrice. Oh povera me! Son assassinata.
Pantalone. Vostro danno. Presto, Brighella, va a trovar i zaffi. (Brighella parte)
Beatrice. Ah, che mio figlio anderà in prigione! Oimè! Non posso più.
Pantalone. Magari che crepessi. Vu sè causa de tutto. Vu gh’avè filà el lazzo. Vu l’avè fatto un ladro, un baron. Adesso me determino a creder che l’abbia robà anca i tresento scudi. Presto che el se cerca, ch’el se trova. Anderò coi mi omeni, con tutti i zoveni de mezza, con tutti i facchini de magazen. Cielo, fè che lo trova; cielo, deme grazia che possa castigar el colpevole e consolar l’innocente. (parte)
Beatrice. Dunque la mia tenerezza per quell’indegno sarà stata inutile? Sarò colpevole? Avrò dunque per sua cagione perdute le gioje, perduta la pace, perduta quasi la vita! Ah figlio ingrato! Ah figlio sconoscente e crudele! Che potevo far di più in tuo vantaggio? Che potevi tu far di peggio per me? Ma il cielo mi punisce a ragione. Se io col troppo amarlo sono stata fomentatrice delle sue colpe, è giusto che io risenta la pena; pena, barbaro, che mi trafigge nell’anima; pena, che durerà fin ch’io vivo; pena, che mi farà morir disperata. (parte)
SCENA XIV.
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Ottavio. Dunque, se ne sapete quanto me, il nostro sarà un ottimo matrimonio.
Rosaura. Perchè ne so quanto voi, vi dico che, se voi cercate una giovine, io non mi voglio maritar con un vecchio.
Ottavio. L’uomo non è mai vecchio.
Rosaura. Lo dicono gli uomini, ma non le donne.
Ottavio. Come sapete voi parlar sì bene di tal materia?
Rosaura. Frutto delle vostre lezioni.
Ottavio. Dunque siete in obbligo di ricompensar il maestro.
Rosaura. Sapete cosa vi darò per ricompensa?
Ottavio. E che mai?
Rosaura. Un stilo nel core, se non mi farete ritrovar Florindo.
Ottavio. Sareste capace di una simile crudeltà?
Rosaura. Ora non v’è delitto che mi spaventi.
Ottavio. Dov’è andata la vostra virtù?
Rosaura. La mia virtù è quel tesoro che ho sagrificato in mercede alle vostre indegne lezioni.
Ottavio. Son io che vi ha fatta fuggire di casa?
Rosaura. Sì, voi.
Ottavio. Come io? Se siete fuggita con Florindo, senza di me?
Rosaura. Chi ha condotto in casa mia la prima volta Florindo?
Ottavio. Io, ma non per voi.
Rosaura. La colpa non è vostra, ma voi ne foste l’autore.
Ottavio. Son qui a pagarne la pena.
Rosaura. Come?
Ottavio. Collo sposarvi.
Rosaura. Morir piuttosto che divenir vostra moglie.
Ottavio. Vi placherete.
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SCENA XVI.
Pantalone con uomini armati e lumi.
Pantalone. Fermete, desgrazià. (a Florindo) Con do donne? Chi ela st’altra? Siora Rosaura? Come? La modestina? La bacchettona? E ti, desgraziada, scampar via co mio fio? (a Colombina) Dov’è le zogie? (le trova a Florindo) Sassin, ladro, scelleratissimo fio, anca i tresento scudi ti m’averà robà. E vu, sior Ottavio, cossa feu qua?
Ottavio. Andavo in traccia di quel povero sciagurato, lo cercavo per ricondurvelo a casa.
Florindo. Non gli credete
Pantalone. Zitto là. Amici, (agli uomini armati) sta notte bisogna far da sbirri. Bisogna menar sta zente con nu, no in preson, ma a casa. Ve agiuterò anca mi. E za che ghe xe la fia del Dottor, e che semo più vesini a casa soa che a casa mia, menemoli là. Fermi, no ve movè. (a Florindo e alle donne) Se i scampa, treghe, mazzeli. Anca vu, sior, anca vu avè da vegnir. (ad Ottavio)
Ottavio. Io? Come c’entro?
Pantalone. Se gh’intrerè, lo vederemo. Se no i vol vegnir, strassineli per forza in casa del sior Dottor. Ande là, che bel bello ve vegno drio. (agli uomini)
Ottavio. Son innocente, son innocente. (partono tutti con gli uomini armati)
SCENA XVII1.
Pantalone solo.
Oh che zente! Oh che fioi! Chi l’avesse mai dito che Florindo fusse cusì baron, fusse cussì desgrazià? Poveri pari de famegia, tante fadighe, tante struscie, tante attenzion per arlevar ben i fioi, e po no basta; e po i butta pezo più che mai! Mo cossa ghe vol più de quello che ho fatto mi, per aver allegreza de le so creature? Ah, sì, ghe vol una cossa, la più necessaria, la più essenzial de tutte le altre. Una bona mare; una mare che sappia cossa vol dir voler ben ai so fioi; che no se persuada che consista l’amar i fioi in tel sparagnarghe le botte; in sconder le so debolezze; in procurarghe i so comodi; ma che sappia che l’amor vero de mare consiste in correggerli, in castigarli. El pare no pol far tutto; no vede tutto. La mare xe quella che più darente, e con più facilità e frequenza, pol indagar i costumi e le procedure dei fioi; e ele palesandole e scondendole al pare, le pol far tutto el ben, e le pol far tutto el mal. Chi xe in necessità, per la conservazion de la famegia, de doverse mandar bisogna, ch’el se provveda d’una bona mugier, per aver boni fioi, ma siccome poche xe le bone mugier, cussì pochi fioi riesce ben; se va sempre de mal in pezo; e ha dito benissimo quel poeta:
Declina el mondo, e peggiorando invecchia. (parte)
SCENA XVIII2.
Camera in casa del Dottore, con lumi.
Il Dottore e Lelio.
Dottore. Ah signor Lelio, son inconsolabile?
Lelio. Mio fratello ha fatta una simile iniquità?
Dottore. L’ha fatta. Ma ha assassinato.
Lelio. E la signora Rosaura si è lasciata sedurre?
Dottore. Non mi sarei mai creduta una cosa simile.
Lelio. Era tanto savia e modesta!
Dottore. La credevo innocente come una colomba.
Lelio. Io per altro a questi colli torti non credo molto.
Dottore. Avevamo trattato col signor Pantalone di darla a voi per consorte.
Lelio. Per me la signora Rosaura? Non faceva a proposito.
Dottore. Per qual ragione?
Lelio. Perchè io voglio una moglie buona, ma che non sia bacchettona.
Dottore. Forse non vi degnate d’imparentarvi colla mia casa?
Lelio. Tant’è vero che mi degnerei, e che lo riputerei per mio onore, che se mio padre si contentasse, e voi l’accordaste, vi supplicherei di darmi la signora Eleonora.
Dottore. L’avete veduta? Vi ha dato ella nel genio?
Lelio. L’ho veduta più volte, ed ho sempre avuta della stima per lei.
Dottore. Uditemi, figlio, se sarete innocente del fatto delli trecento scudi, spero che vostro padre non isdegnerà di contentarvi. Io sarò più che contento, e mi servirà questa consolazione a minorar la pena che provo per la perdita della disgraziata Rosaura.
Lelio. Vi accerto che io sono innocente, e spero che quanto prima si scoprirà la mia innocenza e l’altrui reità.
Dottore. Cos’è questo strepito?
SCENA XIX3.
Eleonora e detti.
Eleonora. Signor padre, il signor Pantalone è qui, che vi vuol parlare.
Dottore. Il signor Pantalone? Ma chi è tutta quella gran gente che viene su dalla scala?
Eleonora. Non lo so. Saranno tutti con lui.
SCENA XX4.
Pantalone di dentro, e detti.
Pantalone. Se pol vegnir?
Dottore. Venite pure; siete padrone.
Lelio. Servo, mia signora. (ad Eleonora)
Eleonora. La riverisco. (parte)
Lelio. (Molto savia e modesta).
Pantalone. Son qua. Dottor, con de le gran novità.
Dottore. Ma chi è quella gran gente ch’è in sala?
Pantalone. Ve dirò tutto; lassè....
Dottore. Sapete nulla della mia figliuola?
Pantalone. So; ve dirò tutto; lassè che parla a mio fio.
Dottore. Ditemi cos’è di mia figlia.
Pantalone. Abbiè un poco de pazienza, se volè. Fio mio, consolete, che ti è innocente. Me despiase del travagio e del spasemo che ti ha abuo, ma l’amor de to pare saverà refare con altrettanta consolazion.
Lelio. Caro signor padre, il vostro amore è una ricchissima ricompensa di tutto quello che ho pazientemente sofferto.
Pantalone. Poverazzo! Quanto che me despiase....
Dottore. Per carità, mia figlia si è ritrovata?
Pantalone. La s’ha trovà.
Dottore. Dove? Presto, ditemi dove.
Pantalone. La xe de là.
Dottore. Indegna, saprò punirla. (in atto di partire)
Pantalone. No; fermeve. Mi l’ho trovada, mi l’ho fatta fermar; mio fio l’è sta el seduttor, e de la vostra offesa a mi me tocca trovar el resarcimento. Son pare de famegia anca mi; son anca mi ponto in te l’onor; pregiudicà in tel interesse; ho provà anca mi i impeti de la colera, ma i ho superai, e son in stato de far giustizia senza lassarme orbar nè dal tropo amor, nè da la troppa passion. Se volè che tutto se giusta, se volè che tutto riessa ben, m’avè da prometter de lassarme far a mi; de remetterve a tutto quello che farò mi, e vederè che salverò l’onor de la vostra casa; che remediarò ai desordini de la mia; che premierò i boni; che saverò castigar i cattivi; e che tutto sto strepito e sto sussurro se convertirà in ben per mi, in ben dei nostri fioi, e in profitto de le nostre famegie.
Dottore. Ah, signor Pantalone, voi mi consolate. Fate pur tutto quello che credete ben fatto. Mi rimetto in tutto e per tutto al vostro giudizio; e prometto e giuro non aprir bocca, in qualunque cosa che sarà ordinata dalla vostra prudenza.
Pantalone. E ti, Lelio, accorderastu tutto quello che farà to pare anca riguardo a ti?
Lelio. Sarei temerario, se non approvassi tutto ciò che di me dispone mio padre.
Pantalone. Bravo, cussì me piase. (Sto poco de desgrazia l’ha reso più umile e rispettoso. Qualche volta dal mal se recava del ben). Oe, amici, vegnì drento. (verso la scena)
Dottore. Sono sbirri?
Pantalone. No i xe sbirri. I xe galantomeni che m’ha agiutà per servizio e per carità. No m’ho volesto servir de sbirri; non ho volesto domandar el brazzo de la Giustizia, perchè trattandose de fioi, anca el pare, co l’ha giudizio e prudenza, el pol esser giudice e castigarli.
SCENA XXI5.
Rosaura, Florindo, Ottavio e Colombina con uomini armati, e detti.
Dottore. Ah disgraziata, sei qui, eh? (verso Rosaura)
Pantalone. Zitto, fermeve. Arrecordeve del vostro impegno.
Dottore. Sì; fate voi. Finta, simulatrice, bugiarda. (a Rosaura)
Pantalone. Siora Rosaura, el so sior pare s’ha spogià de la autorità paterna, el l’ha tutta appoggiada a mi, onde mi son pare e son in tel istesso tempo so giudice, e a mi me tocca disponer de ela; e a mi me tocca castigar quel fallo che disonora la so famegia. Giudice e pare son anca de ti, indegnissimo fio, reo convinto de più delitti; reo d’una vita pessima e scandalosa; reo del furto dei tresento scudi; reo d’aver menà via una putta onesta da la casa paterna, e reo finalmente d’aver sedotto una povera serva. L’amor de pare ve sparagna i rigori de la Giustizia, perchè, se andessi in te le man dei giudici competenti, el vostro castigo saria più duro e più pesante de quello che ve destina el mio rigor, temperà da la tenerezza paterna; ma se averè ardir de resister a le mie disposizion, ve abbandonerò a le leggi del foro, e vederè la differenza che passa tra un giudice pare e un giudice criminal. Animo, prima de tutto se ripari l’onor. Diseme un poco, siori, in che stato xe le cosse vostre? (a Florindo e Rosaura)
Florindo. Io non v’intendo.
Rosaura. Io non vi capisco.
Pantalone. Poveri innocentini! Me spiegherò più chiaro. Che impegno corre tra de vualtri? seu promessi? seu sposai? seu maridai? cossa seu?
Florindo. Ho promesso di sposarla.
Colombina. Ha promesso anche a me.
Pantalone. Ti tasi, che ti gh’ha bon taser, e contentete che ti ha da far con un omo giusto; che mi son quello che no te abbandonerà, e che troverà la maniera de remediarghe. (a Colombina) Donca vualtri sè promessi? (a Rosaura)
Rosaura. Signor sì.
Pantalone. Sè promessi; sè scampai de casa; l’onor xe offeso, ave da esser mario e mugier. Dottor, approveu la promessa de vostra fia, l’autenticheu co la vostra?
Dottore. Sì, fate voi.
Pantalone. E mi prometto per la parte de Florindo, e tra de nu faremo con comodo do righe de scrittura.
Rosaura. (Questo castigo non mi dispiace). (da sè)
Dottore. Ma è questo il castigo che loro date da giudice e da padre?
Pantalone. Aspettè, che adesso vien el bon. Siori, sè solennemente promessi, e sarè un zorno mario e mugier, ma se adesso s’effettuasse sto matrimonio, vegneressi a conseguir non la pena, ma el premio de le vostre colpe, e da l’union de do persone senza cervello no se poderave aspettar che cattivi frutti corrispondenti a la natura de l’albero. Quattr’anni de tempo doverè star a concluder le vostre nozze, e in sto tempo Florindo anderà su la nave che xe a la vela, dove aveva destinà de mandar el cattivo fio. Siora Rosaura tornerà in campagna, dove la xe stada per tanto tempo, serrada in una camera e ben custodia. Se dopo sti quattr’anni, tant’uno che l’altro averà fatto giudizio, me scorderò de tutto, ve riceverò come fio, come niora; ma se seguiterè el vostro costume, me spogierò de l’amor de pare, ve darò quel poco che me pol obligar la leze, e ve priverò de tutto quello che ve poderave beneficar.
Rosaura. Quattr’anni?
Pantalone. Siora sì, quattr’anni.
Florindo. Quest’è un castigo troppo crudele.
Pantalone. Se no te piase la mia sentenza, ti proverà quella d’un giudice più severo.
Rosaura. Ma io con mia zia non voglio più ritornare.
Pantalone. Dottor, songio so pare?
Dottore. Sì, con tutta l’autorità.
Pantalone. Animo, (agli uomini) mettela in t’una sedia, e fè che per amor o per forza la sia serrada.
Rosaura. Pazienza! Anderò, giacchè il cielo così destina.
Ottavio. Andate, figliuola mia, di buon animo; soffrite con pazienza questa mortificazione. Verrò io qualche volta a ritrovarvi.
Rosaura. Statemi lontano per sempre, e volesse il cielo che non v’avessi mai conosciuto.
Pantalone. Com’ela? Xelo sta elo che v’ha messa su?
Rosaura. Io stava con mia zia in buona pace, quieta e contenta, quando è venuto costui con dolci parole ed affettate maniere a turbarmi lo spirito, ad invogliarmi del mondo, a farmi odiare la solitudine. Per sua suggestione ho tormentato mio padre, acciocchè mi ritornasse alla casa paterna. Le sue lezioni mi hanno invaghita del matrimonio, per sua cagione ho conosciuto il signor Florindo; da lui ritrovata di notte, sono stata in procinto di precipitarmi per sempre. Pazienza! Anderò a chiudermi nella mia stanza, ma non è giusto che vada impunito il perfido seduttore, l’indegno e scellerato impostore.
Ottavio. Pazienza! Son calunniato.
Florindo. No, non è di ragione che, se noi proviamo il castigo, quel perfido canti il trionfo. Egli è quello che invece di darmi delle buone lezioni, m’insegnava a scrivere le lettere amorose. Egli mi ha condotto a giocare; egli mi ha introdotto in casa di queste buone ragazze; mi ha egli assistito al furto delli trecento scudi, ed è opera sua il cambio della cenere colle monete.
Ottavio. Pazienza! Son calunniato.
Colombina. Io pure, povera sventurata, son in queste disgrazie per sua cagione. Egli mi ha consigliata a sposare il signor Florindo, e per prezzo della sua mediazione mi ha cavati dal braccio i smanigli d’oro.
Ottavio. Pazienza!...
Pantalone. Pazienza un corno. Sier poco de bon, sier tocco d’infame, sier desgrazià. De vu no son padre, co vu no posso esser Giudice. Anderè al vostro foro, e el vostro giudice ve castigherà.
SCENA XXII6.
Brighella e detti.
Brighella. Sior patron, una parola. (a Pantalone)
Pantalone. Cossa gh’è?
Dottore. Cosa c’è di nuovo?
Brighella. (Xe qua i sbirri. Ghe n’è bisogno?) (piano)
Dottore. Dove sono?
Brighella. I xe in strada che i aspetta.
Dottore. Venite con me. (a Brighella) Pantalone, ora torno. (parte con Brighella)
Ottavio. (Mi par che il tempo si vada oscurando). (da sè)
Pantalone. Se pol dar un omo più indegno, più scellerato de vu? Ve fido do fioi, e vu me li sassinè? El povero Lelio strapazzà, e Florindo sedotto e precipita? Dove gh’aveu la coscienza? Come penseu? Ave magna el mio pan cussì a tradimento? Cussì ave sassinà le mie creature? (ad Ottavio)
SCENA XXIII7.
Dottore e detti.
Dottore. Signor Ottavio, mi favorisca d’andarsene da questa casa.
Ottavio. Ma, signore, così mi discacciate? Son un galantuomo.
Dottore. Siete una birba. Siete un briccone. Presto, andate fuori di questa casa.
Ottavio. Vi dico, signor, che parliate bene.
Dottore. Signor Pantalone, fatemi il piacere, fatelo cacciar via per forza dalla vostra gente.
Pantalone. Sì ben, cazzelo via, e acciò che noi fazza fadiga a andar zo per la scala, buttelo zoso per el balcon.
Ottavio. No, no, non v’incomodate; anderò via, anderò via. (Mi sento la galera alle spalle, solito fine di chi vive come ho vissuto io). (da sè, parte)
Pantalone. Me despiase che quel desgrazià vaga senza castigo.
Dottore. Non dubitate ch’el sarà castigato.
Pantalone. Diseu da senno?
Dottore. Sicurissimamente.
Pantalone. Gh’ho gusto da galantomo. Ma come?
Dottore. Per dirvela in confidenza, ho parlato col barigello e gli ho narrato le iniquità che mi ha fatto, di sedurmi una fanciulla, di levarmi di casa una figlia, e Brighella va raccontando il resto; onde quand’Ottavio sarà fuori di casa, i sbirri lo legheranno e lo condurranno prigione.
Pantalone. Bravissimo. Ave fatto da omo.
SCENA XXIV8.
Brighella e detti.
Brighella. El colpo è fatto. Sior maestro xe in trappola.
Dottore. Non ve l’ho detto?
Pantalone. Coss’ha dito el bariselo?
Brighella. Col la visto, el s’ha messo a rider. El lo cognosse. El dise che una volta el tirava la paga de confidente, ma che nol l’ha più volesto, perchè el referiva solamente de le busie, onde l’è in discredito de la Curia, e per i so delitti l’anderà certamente in galia.
Dottore. Giustamente; meritamente.
Pantalone. Vardè che sorte de omo che gh’aveva in casa. Poveri fioi! Povero pare! Ma fenimo la nostra operazion. Animo. Avanti che la se sfredissa, siora Rosaura, la vaga a bon viazo.
Rosaura. Signor padre, che dite?
Dottore. Va pure, io non ti ascolto.
Rosaura. E averete core di vedermi partire senza baciarvi la mano?
Dottore. Non sei degna di baciarmi la mano.
Rosaura. Pazienza! Vedessi almeno mia sorella prima di partire.
Dottore. Signor Pantalone, vi contentate che le diamo questa consolazione?
Pantalone. Perchè no? Questo el se pol far.
Dottore. Eleonora?
SCENA XXV9.
Eleonora e detti.
Eleonora. Eccomi.
Dottore. Tua sorella desidera salutarti.
Rosaura. Sorella carissima.
Eleonora. Eh sorella carissima, non è più tempo di collo torto.
Rosaura. Abbiate giudizio.
Eleonora. Abbiatene voi, che ne avete più bisogno di me.
Rosaura. Io torno nel mio ritiro.
Eleonora. Ed io resto nella mia casa.
Rosaura. Vado a vivere con maggior cautela.
Eleonora. Ed io continuerò a vivere come faceva.
Rosaura. In casa di mia zia chi ha giudizio vive assai bene.
Eleonora. Chi ha giudizio vive bene anche in casa propria.
Rosaura. Ma non bisogna praticar nessuno.
Eleonora. Le pratiche fanno male per tutto.
Rosaura. Sorella, addio.
Eleonora. Addio, Rosaura, addio.
Rosaura. Signor Florindo.... Posso salutar il mio sposo? (a Pantalone)
Pantalone. Siora sì; la lo saluda.
Rosaura. Addio, caro.
Florindo. Poverina! Addio.
Rosaura. Ah! Che sposalizio infelice! (parte con uomini armali)
Pantalone. Animo, a vu sior, la nave v’aspetta. (a Florindo)
Florindo. Caro signor padre....
Pantalone. No gh’è nè pare, nè mare. Destrigheve e andè a bordo. Ve manderò el vostro bisogno.
Florindo. Pazienza! Maledetti vizi. Maledetto il maestro che me li ha insegnati. Ah mia madre, che me li ha comportati! Ella è cagione della mia rovina.
SCENA ULTIMA.
Beatrice e detti, poi Arlecchino.
Beatrice. È qui mio figlio? È qui?
Pantalone. Siora sì, vegnì giusto a tempo de sentirlo a dir ben de vu.
Beatrice. Sei pentito? Mi vuoi chieder perdono?
Florindo. Che perdono? Di che vi ho da chieder perdono? Di quello che ho fatto per vostra cagione? Ora conosco il bene che mi avete voluto. Ora comprendo che son precipitato per causa vostra. Non mi avete fatta una correzione, non mi avete gridato una sol volta. Vado sopra una nave, non mi vedrete mai più; e se vi dispiace restar priva di me, e se volete in mia vece una compagnia, vi lascio il perpetuo rimorso d’aver per troppo amore rovinato un figliuolo. (parte con gli uomini armati)
Pantalone. Bevè sto siroppetto.
Beatrice. Ah sì, son rea, lo confesso, ma siccome il mio delitto è provenuto da amore, non credeva avesse a rimproverarmene il figlio stesso, che ho troppo amato.
Pantalone. Mo la va cussì. I fioi medesimi xe i primi a rimproverar el pare e la mare, quando i li ha mal arlevai.
Beatrice. Se così mi tratta il mio figlio naturale, qual trattamento aspettar mi posso da Lelio, che mi è figliastro?
Lelio. Lelio vi dice, che se averete della discretezza per lui, egli averà della stima e del rispetto per voi.
Beatrice. E mio consorte che dice?
Pantalone. El dise el consorte, che se gh’avere giudizio, sarà megio per vu.
Beatrice. E io dico, che se in casa non v’è più mio figlio, non ci voglio più venir nè men io.
Pantalone. Bon viazo.
Beatrice. La mia dote?
Pantalone. La sarà pronta.
Beatrice. Anderò a viver co’ miei parenti.
Pantalone. Cussì stare megio vu, e starò megio anca mi.
Beatrice. Basta, ne discorreremo.
Pantalone. Sì ben, quando che volè. Intanto per fenir tutto con bona grazia, sior Dottor, poderessimo far un’altra cossa.
Dottore. Dite pure, voi siete padron di tutto.
Pantalone. No aveu dito che daressi una vostra fia a mio fio? Se vu volè, e che sti putti sia contenti, podemo far groppo e macchia.
Dottore. Per me son contentissimo.
Pantalone. Lelio, cossa distu?
Lelio. La stimerò mia fortuna.
Pantalone. E ela, siora Eleonora?
Eleonora. Non posso desiderarmi maggior felicità.
Pantalone. Co l’è cussì, deve la man.
Lelio. Eccola, accompagnata dal core.
Eleonora. La stringo con tutta l’anima.
Beatrice. Ora in casa non ci starei un momento. Vado da mio fratello, e mandatemi la mia dote. (parte)
Pantalone. Bon viazo. Più bella fortuna no podeva desiderar.
Colombina. Ed io, meschina, che farò?
Pantalone. Xe giusto che anca vu siè consolada, za che so che squasi per forza, e per causa de mia muggier, sè in sto caso. Arlecchin?
Arlecchino. Sior.
Pantalone. No me par che una volta ti gh’avessi genio per Colombina?
Arlecchino. Sior sì.
Pantalone. La tioresistu per mugier?
Arlecchino. Oh magari!
Pantalone. Colombina, se ti lo vuol, le darò mi dusento ducati per dota.
Colombina. Lo prendo, lo prendo. (si toccano la mano)
Pantalone. Adesso tutto xe giustà. La bacchettona xe condannada a far da senno quel che la fava da burla. Florindo xe andà a purgar in mar le baronate che l’ha fatto in terra. Ottavio porterà la pena de la so ipocrisia. L’innocenza de Lelio xe recompensada. La bontà de siora Eleonora xe premiada. Colombina xe resarcia. El Dottor xe contento. Mi son consola e mia mugier s’ha castigà da so posta; onde spero ch’el mondo, che saverà sto fatto, dirà che mi non ho mancà al mio debito, per comparir e per esser un ottimo pare de famegia.
Fine della Commedia.
Note
- ↑ Manca nelle edd. Pasq., Zatta ecc
- ↑ Corrisponde in parte alla sc. XVII delle edd. Pasq., Zatta ecc.
- ↑ Manca nelle edd. Pasq., Zatta ecc.
- ↑ Corrisponde alla sc. XVIIl delle edd. Pasq., Zatta ecc.
- ↑ Corrisponde alla sc. XIX delle edd. Pasq., Zatta ecc.
- ↑ Corrisponde alla sc. XX delle edd. Pasq., Zatta ecc.
- ↑ Corrisponde alla sc. XXI delle edd. Pasq., Zatta ecc.
- ↑ Corrisponde alla sc. XXII delle edd. Pasq., Zatta ecc.
- ↑ Corrisponde alla sc. XXIII delle edd. Pasq., Zatta ecc.