Il mondo è rotondo/VII
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Capitolo VII.
L’acquazzone.
Beatus Renatus lasciò il dì seguente verso mezzodì l’ospitale albergo di Pasquà.
L’afa incombeva grande, e l’azzurro del cielo, pur senza una nube, aveva un offuscamento di tenebre.
Beatus trovò una cosa rarissima nel 1918; un angolo soffice nel diretto; e appena il diretto si mosse, trovò un’altra cosa rara per lui: il sonno!
Ma dopo un tempo che egli non riuscì a determinare, si destò. Il sole era scomparso. Già notte? Qualcosa ruinava, schiantava: bombe da aeroplani austriaci?
No, un nubifragio.
Il cielo era — come gli uomini — in preda a un accesso di follia. Lampi e tuoni inseguivano il treno; ondate di pioggia lo schiaffeggiavano.
La pioggia penetrava dai lati, dal soffitto, dal pavimento.
La gente atterrita diceva: «Ma da dove viene quest’acqua?»
— Dal cielo — disse Beatus.
Lo riguardarono come si guarda chi dà una risposta idiota. Beatus non rispose e trovò piacevole essere riguardato da coloro come un idiota. «Tutto viene dal cielo: anche nel luglio 1914 il treno dell’umanità era partito con uno splendido sole: tutti avevano abiti d’estate, come per una gita ai bagni, quando scoppiò il nubifragio della guerra.»
«È una vergogna piovere in prima classe,» dice la signora presso Beatus.
«Reclami appena arriva a Napoli», le dice un signore.
«Io apro l’ombrellino», dice la signora.
«L’acqua — dice un altro signore — schizza da tutte le parti. La vettura pare un crivello immerso nell’acqua.»
«Questi temporali — dice un terzo signore —, sono una conseguenza dei bombardamenti sul Piave o su la Piave.»
Dice il primo signore: «Non ci siamo affogati ieri, attraversando lo stretto di Messina, e ci s’affoga ora».
«C’è molto pericolo a traversare lo stretto di Messina?» domanda il terzo signore.
«È un rischio come andare in guerra! Ogni terzo giorno i tedeschi silurano un ferry—boat; anche se i giornali non lo dicono. Noi si è avuta la fortuna di avere avanti di noi un ferry—boat carico di truppa. Hanno silurato quello e noi fummo salvi».
Ma è freddo, veramente freddo. «Io sono tutta zuppa! — dice la signora dell’ombrellino. — Questo signore — indica Beatus — ha avuto giudizio».
Sì, Beatus conservava il giudizio di portare sempre con sè un pastrano di inverno. Ma quell’ombrellino oscillante contro i suoi occhi, gli era tedioso. Cedette il posto d’angolo alla signora e uscì nel corridoio. Lì pioveva con violenza anche maggiore e poi c’erano scorribande di gente. Beatus si rifugiò nella latrina, dove pioveva meno. Guardava i rubinetti che ai tempi della pace versavano acqua fredda e calda, come la fonte presso Troia. La versavano con cortesia in tutte le lingue: warm, kalt. Ora si versa sangue! Ma un urto violento aprì la porta.
«Signora, venga qui che ho trovato un bel posto».
«Ah, mio Dio!» squillò una vocina.
Una donnina che pareva nuda, ma ridente e tremante, entrò nella latrina, e dietro a lei un ufficiale, poi un altro ufficiale, poi un terzo ufficiale.
Nuda propriamente, no; ma la pioggia cadendo su la veste di velo, color di viola, gliela aveva tutta incollata su le carni, sì che pareva di quelle figurine trasparenti che mettono nelle cartoline illustrate.
Beatus fu automaticamente scacciato dal suo rifugio. La damina si accomoda la testa scompigliata davanti alla specchiera. Tutto l’esercito è a sua disposizione. «Posso offrire acqua di colonia? sigarette? menta?» La latrina si riempie di fumo. Veramente essi, veramente ella, dicono closet: ma è lo stesso: latrina.
Ma la damina non è spaurita in mezzo all’esercito. Parla lombardo, e tiene testa all’esercito. Si sente ogni tanto il grido di difesa di lei: «mio marito».
Più che dall’assalto dell’esercito, la damina sembra atterrita dallo schianto del fulmine.
«Còppet», dice un ufficiale al fulmine. (È Milano.)
«Che hai paura? Noi ti facciamo da scudo. Noi siamo invunnerabbili. (È la Sicilia.)
«Signora, io vi offro il mio cuore». (È Napoli sentimentale.)
«Ma non usa più offrire il cuore alle signore — dice Milano. — Offriamo la giubba».
Tutti vogliono offrire la giubba. «Ma si tolga prima il vestito. Vuol morire di polmonite?»
La Sicilia propone: «Facciamo una bella cosa; chiudiamo la porta». Chiudono la porta in faccia a Beatus. Non si vede più ciò che avviene nel closet. Forse, anche lì, un nubifragio.
Il primo signore, molto rubicondo, avanza nel corridoio e vuole entrare nella latrina o closet.
«Non si può: occupato», si risponde di dentro.
«Badi che ho molta premura».
La Sicilia apre l’uscio con occhi di minaccia.
«Oh, scusi....»
La Sicilia richiude; ma prima ha chiamato un altro ufficiale, che stava seduto, e lo ha pregato che stesse di guardia perchè non entrasse nessuno. Colui si levò, e stando in piedi davanti al gabinetto, diceva a chi voleva entrare: «C’è una signorina che sta poco bene».
Questo quarto ufficiale era un giovine alto, pallidissimo, signorile nell’aspetto; e il modo con cui diceva quella bugia e placava la gente era degno di ammirazione. Infatti Beatus lo ammirava.
Ma ad un tratto il giovine sorrise verso Beatus di un caro sorriso e disse:
— Non è lei Beatus Renatus?
Beatus si riscosse nell’udire il suo nome: certo egli era assorto, ma è pur vero che accade sovente di riscuoterci quando udiamo d’improvviso chiamarci per nome. E infatti è una cosa meravigliosa avere un nome. Perchè abbiamo noi un nome?
Beatus disse: — Ma come, mi conosce lei?
— Ero studente all’Università — rispose il giovane. — Non ricorda? Non ricorda lei, professore, quel giorno del maggio 1915, che fermammo lei davanti alla porta dell’Università e lo pregammo di parlare? Io ero fra quelli, signore!
Egli ben ricordava quel giorno e quei giorni del maggio 1915, quando l’Università fu chiusa e i giovani tumultuavano.
Egli, sino a quel tempo era vissuto in possesso del suo onesto pensiero, e ora riconosceva come in quel tempo egli si poteva chiamare felice. Credeva nei vari personaggi che avevano beneficato l’umanità. I loro ritratti e i loro volumi ornavano il suo studio. Li salutava mentalmente al mattino al modo stesso che il suo pappagallo dicea: «Beatus, buon giorno, Beatus!».
Anch’egli, benchè in piccolo, credeva di essere un benefattore dell’umanità. Il suo studio era frequentato da cari amici con cu faceva lunghe e piacevoli partite agli scacchi della filosofia; si misuravano gli stadi superati dall’umanità: mito, religione, ragione. Si facevano tornei cortesi sull’infinito se è cosciente o è incosciente; o su Loreto, se è un pappagallo perchè è effettivamente un pappagallo, o perchè piacque ai benefattori dell’umanità di chiamarlo pappagallo.
Non mancavano i ragionamenti se la rivoluzione è preferibile alla evoluzione per chi desidera vedere la bella meteora detta arcobaleno, la quale si manifesta soltanto dopo gli uragani.
Si disputava anche della libertà, non per dubitare di essa, essendo la libertà insieme con l’uguaglianza e la fratellanza fra le più grandi invenzioni del secolo; ma per studiare come va applicata. Giacchè la libertà è una medicina infallibile ma stravagante: non fa bene se non a chi sta bene di salute.
Dopo di che Beatus serviva il tè agli amici, perchè la preparazione del tè è una cosa delicata, e Scolastica non sapeva preparare bene il tè; e si offrivano biscotti anche a Loreto e a Ruggero Bonghi. Ma quando venne la guerra, il suo onesto giudizio impazzì come una crema che fa i gnocchetti e l’acquiccia.
Gli parve che fra i benefattori dell’umanità e i bimbi che giocano all’anello, o a moscacieca, ci fosse poca differenza; e che lui che giocava alla filosofia con gli amici, fosse uguale agli operai che, la domenica, giocano alle bocce, all’osteria. Badate che, a pensarci bene, è una sensazione spaventosa! Ma ci fu anche di peggio, povero Beatus! Gli parve che pesi insospettati, imponderabili, si accumulassero su uno dei piatti della bilancia della vita. La bilancia perdeva l’equilibrio, traboccava verso qualcosa, dove gli occhi della sua ragione — terzo stadio del progresso — non vedevano assolutamente più.
Quel giorno, quel giorno del maggio 1915, che i giovani lo avevano circondato dicendo: «Beatus, si va a morire. Ci dica lei, almeno lei, una parola di fede, di fede ardente. Si va a morire, o Beatus!»
Gli pareva che dicessero: «Non si va a prendere il tè».
Erano diventati pazzi quei giovani? Erano pallidi. Parevano trasfigurati. Ah, che terribile giorno! Il rettore magnifico volle parlare e cominciò: «Ma, figliuoli miei, che cosa vi ha fatto la Germania?» Dovette smettere e ritirarsi sotto i fischi. Pareva un vento di bufera. Il professore di storia antica udendo le grida: «Viva Trento e Trieste!», aveva alzato le mani ed era scappato in biblioteca a studiare le fonti in Diodoro Siculo: il professore di diritto che portava sempre nella manina il codice rosso aveva detto: «La mia mano non può stringere questa materia incandescente». Alludeva alla guerra; e aveva detto al professore di italiano: «Sbrìgatela tu, io non so più cosa è il diritto!» Il professore di italiano era atterrito. Diceva: «È inutile contrastare alla Germania! La Germania vincerà anche se perderà. È la concezione materialista che trionfa. Sono i mammut dei conglomerati umani che vinceranno: lo spirito è morto! la morale è morta! Cristo è morto! l’individuo è morto! Forse da qui due, tre mila anni risorgerà l’uomo: ma oggi è così, è fatale che sia così. Parla, parla tu, o Beatus».
Ma Beatus non aveva saputo parlare.
Al vedere quei volti trasfigurati, aveva sentito un pallore nel cuore, ma la parola di fede non l’aveva proferita.
Quando fu a casa e vide i ritratti dei benefattori dell’umanità, s’accorse che essi erano impassibili nella loro saviezza, come cattivi demoni. Ed ebbe vergogna di non essere pazzo come quei giovani.
La voce di quei giovani che gli dicevano: «Beatus Renatus, si va a morire; dicci tu una parola di fede», lo soffocava.
Quella adolescenza che domandava la guerra, gli parve l’Italia: una adolescente anche essa che va inconscia verso impresa stolta e sublime. Ma perchè? Ma chi ti chiama? ma se è fatale che questa sia l’età dei mammut?
Gli parea di non poter più respirare. Anche lui respirava, senza saperlo, per il cordone ombelicale della madre Germania. E adesso la guerra gli tagliava il cordone ombelicale, e questa operazione eseguita oltre i quarant’anni, era grave!
Il giovane ufficiale, ricordando quei giorni, richiamò a Beatus il suo perduto onesto giudizio.
Beatus domandò di questo e di quello studente, e il giovane rispondeva invariabilmente: — Morto!
Tanti morti!
E Beatus si vergognò di esser vivo.
— Oh, sì, molti morti! — Del resto — continuò il giovane — finchè c’è legna da bruciare (e indicò i compagni nel closet) si va avanti. Sui monti del Carso si sono fatti i fuochi di San Giovanni con vera prodigalità.
Beatus allora si accorse che quel giovane parlava con una sua amarezza, con una sua ironia. Voleva domandare: «perchè parla così? si è fatta morire più gente che non fosse necessario?», ma ebbe paura della sua domanda, e il giovane la troncò in sul nascere con un gesto che significava: «non ne parliamo», oppure: «che può capirne lei?».
La tristezza del giovane contrastava con la follia dei tre compagni, e sorprendeva anche come egli si prestasse a far da sentinella a quella loro follia. Beatus domandò, indicando il gabinetto:
— Sono suoi amici?
— Ci siamo conosciuti in viaggio.
— Molto allegri.
— Così! Due vengono dal Grappa; l’altro, quel siciliano biondo, con l’aquila d’oro, è uno di quelli che la notte stessa in cui gli austriaci fecero strage su Padova, per rappresaglia volarono su Innsbruck e fecero anch’essi strage.
Beatus non sapeva questo. — In fatti — disse il giovane — la censura ne vietò la comunicazione ai giornali, tanto più che la cosa avvenne senza ordine del Comando. Oh, lei capisce bene che le rappresaglie ai tedeschi son lecite; a noi no!
— Voi siete allora — disse Beatus — come Gastone di Foix, che combattè a Ravenna col braccio nudo legato fuor della corazza, in omaggio alla dama.
— Già, ma quella era una dama! La verità è questa: che si paga a tariffa piuttosto alta l’onore di combattere per l’onore d’Italia. D’altronde è anche giusto. La guerra la abbiamo voluta noi; il popolo ne faceva a meno. Quei signori, amici del popolo, sono in linea di stretta logica: la patria non esiste. Noi, piccoli borghesi, ci permettiamo il lusso di morire per far far più grande la patria. Ah, dulce et decorum est pro patria mori!
E un brivido corse per le pallide labbra del giovane.
Questo linguaggio dava pena a Beatus. Mutò discorso e domandò: — E lei perchè non prende parte alla festa dei suoi amici?
Il giovane non rispose, se non che si abbassò alquanto e, presa la mano di Beatus, lido sotto la folta capigliatura.
— Professore, sente?
Beatus ebbe un brivido. C’era come una buca nel cranio.
— M’hanno levato — disse il giovane — un po’ di cervello; ma per quello che deve servire, ce n’è sempre abbastanza. Piuttosto, sono rimaste alcune schegge che mi hanno paralizzato.
Allora Beatus si accorse che il giovane era appoggiato ad un bastoncello.
Beatus, non avvertito dal campanello, proferì la parola: «eroe».
Ma il giovane lo interruppe con un brutto gesto e disse:
— Oggi! Domani forse mi daranno una spinta, se pure non diranno: «ecco uno di quelli che hanno voluto la guerra!». Buone gambe bisogna avere per salire in treno, buone gambe per far ballare le signorine, buone braccia per farsi largo, caro professore.
La latrina si aprì: la damina ne usciva scotendo le vestine, come la gallinella dopo la pioggia. Il nubifragio andava passando. Le nubi si staccavano come lembi d’una ferita: sotto appariva l’azzurro: il treno navigava verso l’azzurro. Ecco il Vesuvio laggiù! Un paesaggio bello, ma che ha un non so che di sconvolto; come quel pennacchio di fumo che sopra sempre vi ondeggia.
Stazione di Napoli. La folla travolgente si precipitava dal treno. I tre giovani ufficiali calavano il compagno ferito, piano, come un faticoso bagaglio.