Il mondo è rotondo/VI
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Capitolo VI.
La morte del rosignolo.
La lettera che Beatus aperse, non portava «illustre» nella soprascritta, ed era scritta con righe trasverse, la qual cosa è specialità della donna. Ma non poteva essere una donna elegante, perchè queste scrivono con quel carattere a zampini isterici che è di moda, e si direbbe — se la cosa fosse possibile — insegnato da un calligrafo umorista per far dimostrare alle donne stesse che esse non hanno un carattere, se tutte possono adottare un uguale carattere.
La lettera che Beatus aperse, aveva invece un carattere, ma sbilenco e deforme.
Infine, il bollo postale era appiccicato dietro la busta, e questa è specialità delle serve quando il possesso della terza elementare le mette in grado di scrivere la loro lettera d’amore. Infatti era Scolastica, la serva di Beatus: ma non era lettera d’amore perchè diceva le cose seguenti:
«Signor padrone, vengo con questa mia per farle sapere che tutti noi stiamo bene e così spero anche di lei. E prima di tutto gli devo dire che io sono molto contenta perchè mio fratello ha avuto venti anni di galera, che sono diventati dieci per l’amnistia: e adesso fa il muratore a Santo Stefano, così sono sicura che non se lo mangeranno i bacherozzoli; e poi tutti mi dicono che appena finita la guerra, li metteranno fuori tutti, come è di giusta, perchè lui non ha rubato nè ammazzato nessuno!»
Qui Beatus si fermò. Egli aveva il vizio di fermarsi a tutti i problemi, come i cani a tutti i paracarri: il problema qui era tremendo! Il fratello di Scolastica era stato condannato per diserzione; cioè appunto perchè non aveva ucciso in guerra.
Ma quella frase plebea: non se lo sarebbero mangiato i bacherozzoli, che voleva significare che non sarebbe morto combattendo, gli fece vedere, quasi con gli occhi, la giovinezza di coloro che adesso erano divorati dai vermi della terra.
La lettera continuava:
«E adesso gli devo dire che Ruggero Bonghi è scappata di casa ed è rimasta fuori due giorni, e il boia dei cani se l’ha presa, e io son dovuta andare dal Comune dove ho dovuto pagare tanti soldi. Loreto sta bene, ma dà i becconi a tutti; invece il rosignolo è stato male ed è morto, perchè il formaggio non si trova, e i macellai non dànno più la carne. E adesso gli devo dire che se lei non manda altri soldi, io ho trovato un altro servizio da una contessa, che è sola, e in casa ci ha tutto quello che vuole, e non c’è bisogno di far la fila; perchè ci portano tutto in casa: olio, zuccaro, farina e galline. Gli devo poi anche dire che quel suo amico che bestemmia sempre in toscano, è venuto due o tre volte, e dice che faccia presto a tornare che lui ha bisogno di parlargli. Altro non avendo, passo a firmarmi la sua fedele serva Scolastica».
Qui Beatus non pianse, ma questa notizia del rosignolo gli diede molto dispiacere. Lasciando la casa, così aveva raccomandato a Scolastica:
«Se anche non levate la polvere ai mobili, poco male; ma ricordatevi di pulire la gabbia, e di dare, tutte le mattine, cinque tarme al rosignolo, e, a mezzodì, un po’ di carne tritata, e che il suo cassettino sia sempre pieno di farina e formaggio; e l’acqua rinnovata».
Era un usignolo non di nido ma silvano, preso con le reti e donato a Beatus da un suo scolaro, campagnolo, in una di quelle grandi gabbie rusticane, fatte di cannucce, con la vôlta di tela verde. Era lungo, aristocratico, grigio perla nel ventre. Le zampine e il becco erano di una delicatezza quasi immateriale. Non era nè domestico, nè ribelle: accettava la sua prigionia e per quanto Beatus avesse cercato di farsi conoscere da lui, mai non fu riconosciuto. Passeggiava per la gabbia con signorilità, quasi sapesse che era inutile spiegare la virtù delle ali. Ma si elevava pei bacchetti, senza sforzo, come per virtù di calamita che attraesse il suo corpo leggero. Beatus gli rivolgea parole gentili, ma lui non torcea per vezzo la testolina ai richiami, ma tenea in avanti quel suo becco sottile con l’alterezza di una fronte.
«Ed è giusto — diceva Beatus — che non mi riconosca per nutrimento che io gli dia.» Però per Natale o per Santa Lucia, cominciava a cantare, forse perchè lo studio di Beatus era tiepido e solatìo; e durava tutto l’inverno a cantare.
Novena di Natale!
Era come una nostalgia dei paesi d’oriente, che lui, il nobile silvano aveva conosciuto. Perchè chi sa ancora dove migrano gli uccelli? Paesi d’oriente ove fiorirono le mille e una notte, paesi che lui, Beatus, da giovane avrebbe voluto vedere; ma che, oramai, mai avrebbe veduto!
Li rivedeva nel canto del rosignolo.
E poi, e poi spesso la notte è rotta dal grido delle strigi, ed è bello udire il canto del rosignolo, la notte. E poi, e poi: da un lato, nel suo studio, stava Loreto, immoto, coriaceo, adunco: e dall’altro lato quella creatura alata e canora, che faceva pensare a cose inverosimili: trasmigrazioni di anime, che so io. Quando cantava, tutta la gola gli si gonfiava per la passione e non s’accorgea che Beatus si accostava. Ma se si accorgea, allora non cantava più.
Ora anche lui se lo mangiavano i «bacherozzoli»!
Ma sotto il pergolato le due signorine seguitavano le loro lezioni di eleganza ai due pacchiani: le pose, i passi, come si accende la sigaretta, dove si butta la cenere. Se i greci fossero risorti, avrebbero aggiunto alle Muse, maestre di civiltà, la Moda. Poi una cantò canzonacce di caffè concerto: l’altra si atteggiò a sfinge, con i polsi aderenti e le palme disposte come un porta—uovo, e il viso di bertuccia dentro il porta—uovo. E mostrava i denti.
«Era più bello quel povero rosignolo» pensò Beatus.
Poi andò da Pasquà e disse che facesse il conto, perchè partiva domani.