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Chi non ha provato la muraglia di una impossibilità fisica in cose che interessino tutta la vita (impotenza, dispepsia, dispnea, ergastolo, ecc.) non sa che cosa sia soffrire. Difatti, per questi casi si è escogitata la rinuncia: il disperato tentativo di farsi un merito con ciò che pure è inevitabile. Si può immaginare cosa piú vile?

Notevole è lo stato di chi non sente la tentazione di ciò che non fa; non lo stato di chi è tentato e rinuncia. In termini realistici, il primo è la pace, il secondo è lo strazio. Checché ne dicano gli eroici. Soffrire è una sciocchezza.

Prima di essere astuti con gli altri, occorre essere astuti con se stessi. C’è un’arte di far accadere le cose in modo che sia in coscienza virtuoso il peccato che commettiamo. Imparare da qualunque donna.

L’arte di farsi amare consiste in tergiversazioni, fastidi, sdegni, avare concessioni che epidermicamente riescono dolcissime, e legano il malcapitato a doppio filo; ma in fondo al suo cuore e al suo istinto fan nascere e covano un rabbioso rancore, che si esprime in disistima e desiderio tenace di vendetta. Far degli schiavi è cattiva politica, e si è visto, e si vedrà ancora.

La consueta tragedia: sa farsi amare soltanto chi sa farsi odiare, dalla stessa persona.

Cosí finisce la giovinezza: quando si vede che l’ingenuo abbandono nessuno lo vuole. E ci sono due modi di questa fine: accorgersi che non lo vogliono gli altri e accorgersi che non possiamo accettarlo noi. I deboli invecchiano nel primo modo, i forti nel secondo. Noi siamo stati dei primi. Allegro.

Un uomo vero, nel nostro tempo, non può accettare con cautele l’ananche della guerra. O è pacifista assoluto o guerriero spietato. L’aria è cruda: o santi o carnefici. Siamo proprio capitati bene.