Il guarany/Parte Seconda/Capitolo III
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CAPITOLO III.
IL CATTIVO GENIO DELLA CASA.
Pery tornò diverse volte alla casa di don Antonio de Mariz.
Il vecchio fidalgo lo ricevea cordialmente, e lo trattava da amico; il suo nobil carattere accordavasi con quella natura incolta.
Cecilia, ad onta della gratitudine che ispiravate la devozione dell’Indiano, non potea vincere la ripugnanza al vedere uno di quei selvaggi di cui sua madre le avea fatta una sì trista descrizione, e del cui nome si era servita per farle paura quand’era bambina.
La stessa impressione pure provava Isabella, come quella cui sempre ripugnava la presenza di un uomo di quel colore; ricordavasi dell’infelice sua madre, della razza da cui proveniva, e della causa di quel disprezzo con cui era generalmente trattata.
Quanto a donna Lauriana, vedeva essa in Pery un cane fedele, che avea per un istante prestato un servizio alla sua famiglia, e si pagava con un tocco di pane. Dobbiamo dire però che non era per cuore cattivo che la pensava a quel modo, ma per pregiudizio di educazione.
Quindici giorni dopo che Cecilia fu salvata da Pery, una mattina Ayres Gomes attraversò lo spianato e recossi da don Antonio, che stava nella sua sala d’armi.
— Signor don Antonio, quello straniero cui deste ospitalità or sono due settimane, vi chiede udienza.
— Fa che venga.
Ayres Gomes, introdusse lo straniero. Era quello stesso Loredano, in cui si era trasformato il carmelitano frate Angelo.
— Che desiderate, amico; vi abbisogna qualcosa?
— Al contrario, signor cavaliere; mi trovo sì bene, che mio desiderio sarebbe rimanere.
— Siete libero di farlo; la nostra ospitalità, come non dimanda il nome di chi arriva, così non segna il tempo della partenza.
— La vostra ospitalità è quella di un vero fidalgo, signor cavaliere; ma non è di questa che desidero parlare.
— Spiegatevi dunque.
— Un uomo della vostra banda va al Rio de Janeiro, ove ha moglie e figli che gli arrivarono dal regno.
— Sì; già ieri mi parlò di ciò, e io gliene diedi il permesso.
— Quindi vi manca un uomo; io posso prendere il suo posto, se non ci avete nulla in contrario.
— Nulla assolutamente.
— In questo caso posso considerarmi come ammesso?
— Attendete; Ayres Gomes vi dirà le condizioni a cui v’è d’uopo assoggettarvi; se vi convengono, il negozio è bell’e fatto.
— Credo di conoscer già queste condizioni, disse Loredano sorridendo.
— Tuttavia è bene che le sentiate.
Il fidalgo chiamò il suo scudiero, e gli ingiunse di informare Loredano delle condizioni dell’arrotamento degli avventurieri al suo servizio.
Era questo uno dei privilegi di Ayres Gomes, che mettea in pratica con tutta la gravità di cui era capace la sua persona alquanto grottesca,
Giunti allo spianato, lo scudiero si tese ben bene colla persona e proferì la seguente introduzione:
— Legge, statuto, reggimento, disciplina o che altro nome volete, a cui si soggetta chiunque si assolda nella banda del signor cavaliere don Antonio de Mariz, fidalgo con blasone, del tronco dei Mariz in linea retta.
A questo punto lo scudiero moderò la voce, e continuò:
— Primo: Obbedire senza replicare. Chiunque fa il contrario non aspetti la sua morte naturale.
Loredano fece un gesto d’approvazione.
— Ciò vuol dire, signor Loredano, che se un bel dì il signor don Antonio de Mariz vi ordina di saltare da cotesta roccia, non vi resta che di dire la vostra orazione e di far il salto; perchè o in un modo o nell’altro, per i più o pel capo, affè di Ayres Gomes, vi toccherebbe d’andare a basso.
Loredano sorrise.
— Secondo: Contentarsi di quello che ha. Chi il contrario....
— Con vostro rispetto, signor Ayres Gomes, non datevi una fatica inutile; so tutto quello che volete recitarmi, e perciò vi esonero dal continuare.
— Che volete dire?
— Voglio dire che tutti i camerata, ciascuno alla sua volta, già mi descrissero la cerimonia che ora praticate.
— Tuttavia....
— Vi ringrazio; so tutto, accetto tutto, giuro tutto quello che volete.
E così dicendo Loredano fè una giravolta, e si diresse alla sala d’armi di don Antonio, nell’atto che lo scudiero, sdegnato per non aver potuto terminare la solennità dell’iniziamento, cui dava sì gran valore, borbottava:
— Non può essere che cattiva lana, cotesta razza di gente!
Loredano si presentò a don Antonio.
— Ebbene? disse il fidalgo.
— Accetto.
— Bene; manca adesso una sola cosa, che Ayres Gomes di certo non vi avrà detta.
— Quale, signor caveliere?
— È che don Antonio de Mariz, disse il fidalgo posando la mano sulla spalla dell’avventuriere, è un capo rigoroso per la sua gente, ma però un amico leale pe’ suoi compagni. Sono qui il signore della casa e il padre di tutta la famiglia, cui al presente appartenete.
Loredano chinossi in segno di aggradimento, ma sovratutto per ascondere l’alterazione della sua fisonomia.
Udendo le nobili parole del fidalgo, si sentì conturbare, perocchè già fin d’allora rivolgeva nell’animo il disegno di quella trama che si rivelò un anno dopo.
Uscito dal luogo ove nascose il suo tesoro, l’avventuriere camminò dritto alla casa di don Antonio de Mariz, e chiese l’ospitalità che a nessuno si ricusava: era sua intenzione passare al Rio de Janeiro, per avvisar colà ai mezzi di valersi della sua fortuna.
Due idee eransi presentate al suo spirito nell’atto che si vide in possesso dell’itinerario di Roberto Dias.
Andrebbe in Europa a vendere il suo secreto a Filippo II, o a qualche altro sovrano di una nazinoe potente e nemica di Spagna?
Esplorerebbe per suo conto con alcuni avventurieri, che prenderebbe al suo servizio, quel tesoro favoloso che dovea innalzarlo al colmo della grandezza?
Quest’ultima idea sorridevagli di più; frattanto non prese alcuna risoluzione definitiva; posto il suo secreto in luogo sicuro, alleggerito da cotesto peso che lo teneva in contìnuo turbamento, Loredano determinò, come dicemmo, di chiedere ospitalità a don Antonio de Mariz.
Quivi formerebbe il suo disegno, traccerebbe il cammino che avrebbe a percorrere, e allora tornerebbe a procacciarsi quella carta che giaceva in seno alla terra, per correre con essa alla ricchezza, alla fortuna, al potere.
Giunto alla casa del fidalgo, il carmelitano, nel suo spirito d’osservazione, studiò il terreno e lo trovò favorevole all’attuazione di un’idea che cominciò a germogliare nel suo spirito, finchè prese le proporzioni di un progetto.
Uomini mercenari, che vendono il loro coraggio, la loro libertà, la loro coscienza e la loro vita per un guadagno, non hanno vero attaccamento che ad una cosa — al denaro; il loro signore, il loro capo ed amico è chi li paga di più.
Frate Angelo conosceva il cuore umano e perciò, appena iniziato nel reggimento della banda, rilevò il carattere degli avventurieri.
— Questi uomini mi servirebbero perfettamente, diss’egli seco.
Nel mezzo di queste riflessioni un fatto venne a produrre una completa rivoluzione nelle sue idee.
Vide Cecilia.
L’immagine di quella vezzosa fanciulla, casta e innocente, produsse nel suo organismo fervido, e per molto tempo compresso, lo stesso effetto che una scintilla lanciata sopra la polvere.
Tutta la continenza della sua vita monastica, tutti quei desiderii violenti, che il suo abito, a guisa d’uno strato di ghiaccio, tenne coperti, tutto quel sangue vigoroso e forte d’una giovinezza consunta in vigilie e astinenze, rifluirono al cuore e quasi lo soffocarono per un istante.
Dipoi un’estasi di voluttà immensa invase quell’anima anticata nella corruzione e nel delitto, ma vergine nell’amore. Il suo cuore rivelavasi con tutta la veemenza di quella volontà audace, irremovibile, che era il motore della sua vita.
Sentì che quella donna era tanto necessaria alla sua esistenza, quanto il tesoro che sognava; esser ricco per lei, possederla per gioire della ricchezza, fu da indi in poi il suo unico pensiero, la sua idea dominante.
Uno degli avventurieri lasciava la casa; Loredano sollecitò il suo posto, e lo ottenne, come testè vedemmo; il suo disegno era tracciato.
Qual fosse, già lo sappiamo dai casi passati; Loredano divisava farsi padrone della banda, insignorirsi di Cecilia, andare a quelle miniere incantate, caricare tanto argento quanto potesse portarne, dirigersi alla Baia, assaltare una nave spagnuola, prenderla ad abbordaggio, e far vela per l’Europa.
Di là armava saettìe, tornava al Brasile, esplorava il suo tesoro, ne traeva ricchezze immense, e... E il mondo aprivasi avanti al suo sguardo pieno di speranza, di avvenire, di felicità.
Per un anno adoperossi in quest’impresa con una sagacità e un’intelligenza singolare; aveasi guadagnati i due uomini più autorevoli nella banda, Ruy Soeiro e Bento Simoes, e col loro mezzo preparava la soluzione del dramma.
In questo modo, all’insaputa degli altri, imprimeva l’indirizzo a cotesta cospirazione che lavorava sordamente; in tutta la banda eranvi solo due persone che potevano perderlo.
Ma Loredano non era uomo si trascurato da non pensare al caso di un tradimento, e sì incauto da fornire ai suoi due complici un’arma con cui ferirlo: di qui l’astuzia di quel testamento affidato a don Antonio de Mariz.
Ma in quello scritto, invece di aver rivelato il suo disegno, come diceva a Ruy Soeiro, avea appena indicato il tradimento de’ due avventurieri, dicendosi sedotto da loro; il frate mentiva quindi persino nell’ora estrema in cui quella carta dovea parlare.
La fiducia che poneva, e con ragione, nel carattere di don Antonio, lo tranquillava totalmente; sapea che in verun caso il fidalgo giammai aprirebbe una carta datagli in deposito.
Ecco in che modo frate Angelo trovavasi, sotto il suo nuovo nome di Loredano, aggregato alla casa di don Antonio de Mariz, e intento ad effettuare alla fine quel disegno, che era il pensiero di tutti i suoi istanti.
Era un anno che stava aspettando, e com’egli diceva, in angustia; alla fine avea deciso di menare il colpo: e però, dopo aver atterrito i suoi due complici con quella minaccia, dopo averli ridotti allo stato di automi, sì che obbedissero a’ suoi ordini, al suo cenno; capì che era conveniente dar animo a quei manutengoli con qualche sentimento, che loro infondesse l’ardire, l’audacia e la forza necessaria per gettarsi ad occhi chiusi nella voragine, e non tremare dinanzi a verun ostacolo.
Questo sentimento fu l’ambizione.
Alla vista dell’itinerario era impossibile che non sentissero quella febbre di ricchezza, quella auri sacra fames, quella vertigine che si era impossessata di lui stesso, nell’atto che vide aprirsi avanti allo sguardo un mare di argento fuso, in cui i suoi labbri potevano spegnere l’ardente sete che lo divorava.
L’effetto non ismentì la sua previsione; udendo leggere quella vecchia pergamena, ciascuno degli avventurieri restò come ammaliato; per toccare a quell’abisso inesplorabile di ricchezze, niun di loro avrebbe più esitato a passare sul corpo del proprio amico, o sulle ceneri di una casa, o sulla rovina di una famiglia.
Sventuratamente quella voce inaspettata, uscita dalla terra, venne a mutare in modo straordinario lo stato delle cose.
Ma non anticipiamo il racconto; finora siamo nel 1603, un anno prima di quella scena; e ancora ci occorre narrare certi accidenti, che serviranno per la prosecuzione di questo veridico racconto.