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42 | ATTO SECONDO |
Arlecchino. Pol esser che la sia la balia, che l’ha lattà.
Eleonora. Ho sentito io dall’uscio qualche parola, ma parlavano piano, ed era la porta per di dentro così difesa, che non li ho potuti vedere in faccia.
Arlecchino. Chi sa che non abbiè tolto un ravano per una zucca.
Eleonora. No, non mi sono ingannata. La camera dove sono, è di là di quest’altra. Va tu. Arlecchino, entravi con un pretesto. Vedi se vi è tuttavia mio marito, vedi se vi è la donna, e narrami s’ella è giovane, s’ella è vecchia; vedi di rilevar chi ella sia, acciocché io possa prendere le mie risoluzioni, senza mettere piede in fallo.
Arlecchino. Mi ve conseggio de aspettar che i vegna qua da so posta, senza andar incamera a precipitar.
Eleonora. lo non ho bisogno de’ tuoi consigli.
Arlecchino. Ho ben bisogno mi de non andar a farme romper el muso.
Eleonora. E di che cosa hai paura?
Arlecchino. Me ricordo che son sta bastonà cinque volte; no voria che fessimo la mezza dozzena.
Eleonora. Vien gente, mi pare, da quella camera.
Arlecchino. Lassè che i vegna.
Eleonora. È mio marito. Non vo’ per ora ch’egli mi veda. (entra in una camera)
SCENA II.
Arlecchino, poi Ottavio.
Arlecchino. La gh’ha più paura de mi. Le fa cussì ste donne; co le xe sole, le fa le brave, co arriva el mario, le gh’ha paura dell’orzo. Ho ben gusto de vederlo sto sior Ottavio; no l'ho mai né visto, né cognossù.
Ottavio. Siete voi della locanda? (ad Arlecchino)
Arlecchino. Me par, se no m’inganno, de esser in te la locanda.
Ottavio. Siete servitore?
Arlecchino. Son servitor.
Ottavio. Andatemi a comprare della carta da scrivere.