Il fanciullo nascosto/La casa maledetta
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La casa maledetta.
L’America, bisogna riconoscerlo, ha reso molti vantaggi alla gente povera; a quelli che, andandovi, non sono diventati ricchi non toglie la speranza che lo diventino; a quelli rimasti in paese ha cresciuto importanza e valore. Maestro Antoni Bicchiri, per esempio, l’unico muratore rimasto nella fabbrica della casa del possidente Bonario Salis, senza neppure un manovale, era d’un tratto cresciuto di tanta altezza quanto quella dei muri che mandava su. Lo stesso padrone, Bonario Salis, era costretto a portargli le pietre e la calce; ma Bonario com’era di nome e di fatto, aveva finito nel prender gusto alla faccenda; andava su e giù ridendo fra sè e apprendendo poco per volta la fiacca del vero manovale. Inoltre si divertiva a portare con esagerata gravità, a Maestro Antoni, le ambasciate della gente che desiderava qualche giornata di lavoro del muratore. Tutti volevano e sospiravano questa preziosa giornata, chi perchè doveva sposarsi e voleva imbiancare la casa, chi perchè aveva dei buchi nel tetto o un muro che minacciava rovina; ma Bonario si rideva di tutti. Carta canta, diceva; ed egli aveva la carta sottoscritta da Maestro Antoni, il quale si obbligava a non abbandonare la fabbrica finchè non fosse finita. E nessuno mai aveva sentito dire che Maestro Antoni avesse mancato alla sua parola: era l’uomo più di coscienza del paese. Un giorno dunque egli credette che Bonario al solito scherzasse quando dopo aver scaricato una grossa pietra di granito sul ponte, disse ammiccando:
— Questa volta bisogna però che andiate, mastru Antoni. Si tratta di una mezza giornata, forse meno, per accomodare alcuni scalini nella casa di mia nipote Anna, che vuole rivendere la casa....
— La casa vuol rivendere? — disse il muratore, curioso suo malgrado. — Se è appena da tre mesi che l’ha comprata?
— È appena da tre mesi che l’ha comprata, — ammise Bonario, serio, — ma la vuol rivendere perchè ci sono gli spiriti.
E si mise a ridere accorgendosi che Mastro Antoni a sua volta diventava serio e grave. Ma il muratore non amava scherzare, neppure col padrone della fabbrica: guardava lontano, verso la casetta di Anna Salis, isolata in fondo al paese, e ricordava d’averla periziata lui stesso, prima che venisse messa all’asta dai creditori degli antichi proprietari emigrati poi tutti in America, uomini e donne. I Salis, appena sposi, avevano acquistato per niente la casa piccola ma ariosa e piena di comodità; e adesso la volevano rivendere perchè c’erano gli spiriti....
— Mastru Antoni, — disse Bonario, di nuovo serio, — datemi la risposta: non si tratta di scherzare. Vi do io la libertà per mezza giornata e basta. Mia nipote Anna sembra davvero stregata, tanto è il dispiacere che prova: andate ad accomodarle questa scala, poichè domani deve far vedere la casa a un compratore. Farete un’opera buona.
E trattandosi di un’opera buona, ma anche un po’ per curiosità, maestro Antoni disse di sì.
*
Andò il giorno stesso, nelle ore di riposo fra mezzogiorno e le due, per vedere che lavoro c’era da fare. A quell’ora, sotto il sole abbagliante di giugno, la pace intorno alla casetta era ancora più intensa: l’orto solitario della chiesa, invaso di grandi cespugli di ruta e di genziana, odorava come un angolo di brughiera, attraversato dall’ombra del campanile: intorno non si vedeva anima viva.
Mastru Antoni ricordava quando era andato a periziare la casa: anche allora aveva spinto il portoncino e attraversato il cortile senza incontrare nessuno: e aveva pensato alle voci maligne che correvano sul conto della proprietaria, Mimia Piras, nota per la sua bellezza, per i suoi debiti e per altre cose. Certo, il luogo era molto solitario, molto comodo per una donna che avesse voluto delle avventure.
Maestro Antoni però si morsicò la lingua, come faceva ogni volta che si sorprendeva a giudicare temerariamente il prossimo: dopo tutto Mimia Piras aveva lasciato mettere la casa all’asta per i debiti e se n’era andata coi fratelli in America a lavorare: era come morta e i morti tocca a Dio giudicarli.
Del resto, anche adesso che la casa apparteneva ad Annedda Salis, la donna più devota e scrupolosa del paese, la porta era aperta, il luogo deserto: tanto che egli potè attraversare indisturbato il cortile, la cucina, il corridoio, salire la scala, arrivare fino alla camera da letto degli sposi.
La donna stava seduta per terra, accanto all’uscio, col cestino del lavoro a fianco; ma non cuciva; con le mani abbandonate fino a terra, bianca in viso, la testa appoggiata al muro, pareva malata. Non si scosse vedendo il rozzo e grave muratore: solo i grandi occhi neri le brillarono un po’ tristi. Lo aspettava.
— Vi aspettavo, — disse con voce languida. — Mio zio vi avrà detto che voglio rivendere la casa: sì, la rivendo allo stesso prezzo che l’ho avuta io; Dio mi guardi dal prendere un centesimo di più. C’è il compratore che domani verrà a vederla, ma prima io voglio assicurarmi di una cosa: voglio levare e rimettere i primi gradini della scala perchè là sotto ci dev’essere una malìa e bisogna toglierla, altrimenti siamo tutti perduti. Sono qui sopra da due giorni, maestro Antonio mio, e non scenderò più giù se voi non mi promettete di aiutarmi a togliere la maledizione di casa mia.
L’uomo la guardava dall’alto, un po’ stupito un po’ turbato: in fatto di malìe non c’è da scherzare, specialmente se sono fatte bene, con l’intervento del prete, per esempio.
— Ebbene, alzati: non hai fatto un cattivo sogno, per caso?
— Sogno fosse! — esclamò la donna alzandosi già un po’ confortata. — L’affare è che da quando abbiamo messo piedi in questa casa, io e Paolo mio, siamo perseguitati dalla scomunica. Non stavamo bene, prima? Ci amavamo come colombi io e Paolo mio. Ebbene, entrati qui entrati nell’inferno. Subito ci siamo ammalati, prima lui a un orecchio poi io ad un piede e ancora l’ho gonfio. Poi ci è morto il cavallo, ci hanno ammazzato il cane, persino le galline muoiono come avvelenate: poi è venuta una vipera fino al focolare; ma questo è niente; il peggio è che litighiamo giorno e notte, io e Paolo mio, e lui va fuori e si ubbriaca ed io piango e piango. Lui dice che sono io a tormentarlo, invece è lui che mi tormenta. Vi giuro, maestro Antonio mio, che da quando siamo qui non abbiamo avuto un giorno di pace: anche stamattina abbiamo litigato ed egli è andato via dicendo che non tornerà più. Ma egli tornerà se noi leveremo la malìa.
— Chi può aver fatto questa malìa? — domandò l’uomo, sempre più grave.
— Chi? Domandate chi? Ma tutti lo sanno: tutti sanno che i Piras, i vecchi padroni, imprecavano contro chi avrebbe acquistato la casa all’asta. E Mimia sparse il sale intorno: perciò anche l’acqua è mancata dal pozzo e tutto nell’orto si disecca. E prima di andarsene fu veduta con le braccia in croce a maledire la casa. Io non credevo a queste cose; ma adesso pur troppo ne sono convinta. E non basta. Ho sognato che c’è anche la malìa. Ho scavato sotto le porte, ma inutilmente. Adesso bisogna guardare sotto la scala perchè voi sapete che la malìa opera meglio dove più forte si posa il piede. Ma da sola non posso levare gli scalini; allora ho pensato a voi che siete uomo di coscienza e buon cristiano: e voi mi aiuterete. Mastro Antonio, andiamo!
*
Andarono. Ella zoppicava, anzi pareva camminasse solo con una metà della persona. Scendendo gli ultimi scalini si fece il segno della croce, poi si volse spaurita ad attendere l’uomo che a sua volta scendeva grave, cauto, pauroso di cadere eppure attento, con l’occhio del suo mestiere, alle screpolature della vôlta, alla solidità dei muri e dei gradini. A dire il vero la scaletta di pietra, stretta fra due alte pareti bianche, con la luce spiovente dall’alto di un abbaino, aveva un aspetto misterioso: pareva conducesse a un sotterraneo.
Arrivato anche lui in fondo, Mastro Antoni tastò i muri, da una parte e dall’altra, allargando le braccia; infine disse:
— Tu hai un piccolo palo?
Annedda aveva il piccolo palo, il badile, e tanti altri arnesi di ferro e di legno ammucchiati nel sottoscala.
— Ci deve essere anche una leva di ferro — disse andando a cercare: ma com’ella stentava a trovare la piccola leva, maestro Antonio accese un fiammifero curvandosi anche lui a cercare nel sottoscala: alla breve luce apparvero gli arnesi arrugginiti, le ragnatele, stracci e sacchi e un pezzo di pavimento di fango battuto solcato da larghe fenditure. E il viso rude di mastro Antonio parve d’un tratto ardere, d’un rossore arancione, mentre i suoi tondi occhi azzurri fissavano spalancati le screpolature del pavimento, quasi vi decifrassero un geroglifico; infine lasciò cadere il fiammifero che non si spense.
— Lascia, — disse alla donna, che guardava anche lei, — se dài retta a me cerchiamo qui.
Ella volse il viso, pallidissima, e rabbrividì. A stento si sollevò, poichè le ginocchia le tremavano: andò a prendere il lume di cucina, e intanto che lei faceva luce, l’uomo piegato dentro il sottoscala pestava il pavimento con un grosso martello. Quando lo ebbe pestato bene prese il badile e scavò. La donna tremava tutta, con una mano protendendo il lume, con l’altra appoggiandosi al muro: anche il gattino, di cui il sottoscala era il regno, venne e guardare curioso e cauto, inarcato sulla parete con la coda dritta; pareva sapesse qualche cosa e seguiva coi grandi occhi verdi l’ombra del badile: d’improvviso miagolò, balzò, addentò un ossicino bianco ch’era venuto fuori con la terra smossa e scappò via.
Annedda diede un grido.
Altri ossicini venivano fuori. Ella depose il lume per terra, s’inginocchiò e cominciò a raccogliere gli ossicini riponendoli mano mano nel grembiale di cui aveva cacciato le cocche nella cintura.
Mastro Antonio sudava quasi scavasse un pozzo. Sì, sudava tanto che dovette passarsi il dorso della mano sulla fronte umida lucida e poi asciugarselo sotto l’ascella: eppure provava tanta soddisfazione che, forse per la prima volta in vita sua, scherzò:
— Che belle noci e mandorle raccogli, Annè!
E quando tutto fu finito rimise la terra nel buco e vi calcò il piede. Ma quando tornarono fuori, alla luce del giorno, Annedda con le ossa nel grembiale, egli sbattendosi le mani, ebbero quasi terrore a guardarsi e a dire quello che pensavano.
Ella si lasciò cader seduta sugli scalini dei quali non aveva più paura, e cominciò a piangere, passando la mano sul suo grembiale come ad accarezzare un bambino.
— Vedi, — singhiozzava, — ti hanno ucciso e sepolto, povera creatura figlia del peccato. Eri tu che dal limbo ci tormentavi. Ecco perchè nell’andarsene la mala madre sparse il sale....
Anche mastro Antonio non dubitava che quelli fossero gli avanzi di un neonato ucciso; ma la coscienza gli consigliava di stare, per il momento, zitto. Zitto e perplesso.
Il ritorno improvviso del marito sciolse la situazione. Era accigliato, il marito, pronto a riprendere a litigare con quel tormento di donna che era sua moglie: ma quando la vide piangere, davanti al muratore pensieroso, si mise a ridere.
— Ebbene, l’avete trovata questa malìa? Mostratemela!
La moglie aprì il grembiale, ed egli vide le ossicina e si rifece serio.
— Ebbene, che è?
— Che è, Paolo mio? Il peccato mortale, è! Non vedi? Sono le ossa d’un neonato ucciso, sepolto nel nostro sottoscala. È lui che ci tormentava dal limbo. Ma adesso subito io porterò le ossa sue in terra sacra, le seppellirò e il Signore ci ridonerà la pace. E così sia, — disse alzandosi e legandosi i lembi del fazzoletto sotto il mento, pronta ad uscire.
Maestro Antonio la fermò per il braccio.
— Ferma, donna! Bisogna fare il proprio dovere. Bisogna portare le ossa dal pretore!
Ella guardò il marito. Il marito avrebbe preferito non aver seccature, ma non voleva certo parere uomo meno coscienzioso di mastro Antonio.
— Dammi quella cosa, — disse stendendo sullo scalino il suo fazzoletto rosso da naso: e la donna, con obbedienza miracolosa, versò piano piano le ossicina, ridendo d’un tratto come una bambina al ricordo delle parole di mastro Antonio:
— Che belle noci e mandorle!
Il marito guardò attentamente le ossicina; poi raccolse entro il pugno le cocche del fazzoletto, e rivoltandolo, così pieno, e palpandolo, disse:
— Mastro Antonio, in vostra coscienza, avete scavato bene? Mancano le ossa della testa.
— In mia coscienza, non ce n’erano altre. E adesso andiamo dalla Giustizia: e voi state in pace.
*
Quando tornò a casa, dopo aver consegnato le ossa alla Giustizia, il marito trovò Annedda quieta a lavare il suo grembiale. Il fuoco era acceso; finalmente la pace era ritornata nella loro casa. Solo, alla notte, ella si svegliò e si mise a piangere ricordando che il gattino aveva portato via un ossicino. Il marito si alzò paziente e andò a cercare in ogni angolo.
— Non si trova, — disse gravemente, ritornando a letto. — Ma fatti coraggio, Anna! Abbiamo fatto il nostro dovere e la coscienza è tranquilla.
— La coscienza è tranquilla, — ella ripetè per fargli piacere, e si riaddormentarono quieti.
Così la pace tornò in casa loro: e anche l’ultimo scrupolo di lei cessò quando la perizia scientifica, qualche tempo dopo, accertò che le ossicina erano quelle di un porchetto.