Il dottor Antonio/VII
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CAPITOLO VII.
Piccole scoperte.
— «Volete permettermi,» disse una sera Lucy, che io vi faccia una domanda?»
— «Sarà delicatissima, m’immagino,» rispose Antonio, «se richiede un preambolo tanto cerimonioso.»
— «La domanda riguarda voi, dottor Antonio; nè sono affatto sicura se io la abbia a fare.»
— «Non importa,» disse Antonio, «vi do piena licenza di farmene qualunque, mi riguardi o no.»
— «Grazie. Desidero sapere come un uomo superiore quale voi siete...»
Antonio proruppe incontanente in una risata.
— «Ah! benissimo,» disse Lucy arrestandosi subitamente. «Potete ridere quanto vi pare, ma voi siete un uomo superiore, voi lo sapete bene.»
— «Se una dose decente d’istruzione e di buona educazione costituisce ciò che a voi piace chiamare un uomo superiore, allora posso andar di fatto altero del mio paese.»
— «Intendete dire che nel vostro paese vi sono molti uomini come voi?
— «Parlate sul serio?» domandò Antonio. «Voi riguardate l’Italia come il paese dei ciechi, nel quale chi ha un sol occhio è re. Credete, mia cara signorina, che potete trovar molti di gran lunga a me superiori, i quali vivono comparativamente inutili, e muojono sconosciuti. Non avete idea,» proseguì, «della gran somma d’intelligenza, forza e nobili sentimenti sprecati per mancanza di spazio e d’aria in questa smisurata macchina pneumatica, che sta segnata sulla carta d’Europa col nome d’Italia.»
Una nube d’indicibil mestizia adombrò il suo aspetto ordinariamente sereno. Lucy lo comprese e si tacque.
— «Bene,» disse Antonio con un grazioso movimento di capo da una parte, come per iscuoter via qualche peso; «volete proseguire? Vi maravigliate come un uomo superiore, qual son io, possa, volevate dire, condiscendere a suonar la chitarra?»
— «Oh, no, no! — Possa vivere in un piccol paese di provincia come questo, fra rozzi contadini.»
— «Rozzi contadini!» ripetè l’Italiano; «chieggo scusa, se vi contraddico nuovamente. Ma non posso sopportare di sentir la più mite razza del mondo così stranamente rappresentata. Chiamateli ignoranti, superstiziosi, e qualunque altra cosa fuorchè rozzi. Cosa vi ha tratto a crederli tali?»
— «Per verità,» disse Lucy un po’ raumiliata, «papà mi ha detto che è stato da essi più d’una volta fermato nelle sue passeggiate, e che gli hanno parlato rozzamente.»
— «Che sir John, il quale non conosce la loro lingua, possa essere infastidito di sentirsi a parlare da gente di campagna, so ben capirlo; ma che scambi per mancanza di rispetto un atto di cordialità, e li accusi di rozzezza, questo, lo confesso, non lo so capire.»
— «Eppure, dottor Antonio, voi non avete risposto alla mia domanda.»
— «Dunque voi riputate bassa la mia sorte?»
— «Non bassa, ma indegna di voi.»
— «E che direste se non mi fosse dato altra a sceglierne?» disse Antonio.
— «Ma sapete che non è questo il caso,» replicò Lucy un po’ vivamente; sapete che basta diciate una sola parola per cambiare la condizione attuale in altra di gran lunga superiore.»
— «Adesso capisco,» rispose Antonio, sorridendo; «vi siete fatta amica Speranza, ed ella vi ha narrato racconti di fate intorno la grandezza che non aspetta se non di essere da me accettata. Permettete che vi prevenga contro sorgenti d’informazioni così sospette, come è Speranza e sua madre, in tutto ciò che mi concerne.»
— «Eppure mi diceste che Speranza è una persona di buon senno.»
— «E tale è infatti, e tale è pure sua madre. Ma la loro immaginazione agisce più del loro buon senso, quanto a ciò che mi concerne. Io sono il loro mago; e quando lor si dicesse che un trono mi è preparato in qualche parte, sarebbero capaci di crederlo.»
— «Se vi sono affezionate, e so che realmente sono — esse ne hanno buone ragioni!»
— «Ragioni immaginarie, o per lo meno altamente esagerate. Le donne, mi si dice, sono solite a correre agli eccessi. Nessuna cosa può tor di mente a Rosa ch’io abbia salvato la vita di sua figlia nell’ultima malattia: il che di fatto non è; e quanto a Speranza, ella è persuasa che mi deve un’immensa gratitudine, per alcuni sforzi da me fatti in una cosa che le sta molto a cuore: sforzi i quali, posso dirlo, sono stati affatto inutili.»
— «Quanto siete ingegnoso per cercar di porre in disistima voi stesso!»
— «Nemmeno per ombra, miss Davenne; vi prego a credere che ho un’opinione tollerabilmente buona di me; ma non posso soffrire di esser tenuto da più di quel che sono. Bramate conoscere in che consistono le grandi prospettive tanto vantate da Speranza?»
— «Sì, lo desidero,» disse Lucy.
— «Faranno una sciocca figura ridotte alla loro natural proporzione. L’anno passato... Ma per essere più chiaro, forse farei meglio a dirvi prima per quale catena di circostanze io sia stato portato in questo luogo.»
— «Ditelo, ve ne prego,» disse Lucy vivamente.
— «È una storia per la quale basteranno poche parole. Che un oriundo di Sicilia o di qualunque altra parte di questa penisola, il quale domandava solo di vivere e morire in casa sua, sia stato subitaneamente e per forza cacciato da essa, con una spada di fuoco alle spalle, e tutto l’ampio mondo dinanzi a lui, è cosa troppo comune in questa terra di anomalie, perchè esiga alcuna spiegazione. Pensare, o solo esser sospetto di pensare liberamente, è quanto basta per esporre qualunque Italiano a simile ventura. Ma ciò che deve parere, ed è infatto più strano, avuto riguardo alla stretta complicità nell’opprimere, nella quale tutti i Governi italiani sono d’accordo, è come un uomo cacciato di Sicilia possa trovare un rifugio ed essere tollerato negli Stati Sardi (il lettore deve rammentarsi che il dottor Antonio parla così nel 1840). Or ecco come ciò avvenne. Il giorno che il suolo di Catania divenne per me troppo caldo — nè qui ora è necessario addentrarci nelle cause naturalmente politiche che lo resero tale; — quel giorno fui fortunato abbastanza per ottener passaggio a bordo di una nave mercantile genovese diretta a Genova. Quando arrivammo, mi fu domandato il passaporto; e siccome naturalmente non ne avevo, mi fu ricusato il permesso di sbarcare. Fortunatamente, mio zio — l’uffiziale inglese da me già nominatovi come marito della sorella maggiore di mia madre — quando tolsi commiato da lui, aveva avuto il felice pensiero di darmi una lettera di conoscenza per un suo vecchio amico e camerata, il console inglese a Genova. Spedii a questo signore la mia lettera; e, per i suoi buoni officii, ottenni permesso di sbarcare non solo, ma di rimanere una settimana in città. Disgraziatamente io non sapevo trovare, nè cosa avessi a fare, nè dove andare allo spirar del termine: quando una mattina vidi un paragrafo nel foglio ufficiale della città che mise fine alla mia irresoluzione. Avrei dovuto dirvi che nel 1837, tempo del quale parlo, il cholera asiatico menava strage per questa Riviera. Il paragrafo da me letto era un avviso diretto a tutti i medici in genere, e specialmente ai giovani, per eccitarli a porsi a disposizione del Proto-Medicato, specie di Consiglio di Sanità, dal quale era stato pubblicato quest’avviso. Alcuni emolumenti pecuniarii erano promessi a quelli che offrissero volontarii i loro servigi. Un motivo di umanità mi tentò a farlo, e un motivo più personale mi decise. Credei che con esso fosse gettata una tavola, alla quale afferrandomi avrei potuto esser salvo da completo naufragio: perchè lasciare affatto l’Italia sarebbe stata estrema disperazione per me; e perchè se fossi riuscito, mi sarei potuto guadagnare il pane onestamente e senza essere a carico della mia famiglia. Così mi recai dal Consiglio di Sanità, e rappresentai, come era vero infatti, che io aveva un po’ di esperienza nella cura del cholera scoppiato alcuni mesi prima in Sicilia. Fui ben accolto; ma quando mostrai il mio diploma, il quale con alcune altre poche carte avevo portato meco da Catania, mi fu detto che essendo io un forestiero — sì, un uomo nato nella parte meridionale era chiamato forestiero nel settentrione d’Italia! — i miei servigi non potevano essere accettati, a meno che, con una petizione al Re, non ne ottenessi l’esenzione. Da prima l’idea di spedire una supplica per avere il privilegio di esporre la mia vita in servigio de’ miei simili, mi riuscì disgustosissima. Tuttavia quei signori misero tanto calore nel pregarmi a compiere ciò che era, a detta loro, una mera formalità; offrirono con tanta buona grazia di spedir la domanda essi stessi, e di appoggiarla ove conveniva; il Console inglese, d’altra parte, combattè sì vigorosamente la mia ripugnanza, che alla fine cedei. Spedii la petizione — una cosaccia orribile, ve ne assicuro; e alla fine di un’altra settimana, il mio permesso di residenza essendo stato ancora per simil tempo riconfermato, ricevetti l’informazione che la mia richiesta era esaudita. Il Consiglio di Sanità mi spedì immediatamente in San Remo, dove arrivai il 23 di aprile.»
— «Il mio comple-annos,» sclamò Lucy con giovanile letizia. «Che caso strano!»
— «Dite fortunato quanto strano,» osservò Antonio commosso a quel vanto innocente di lei per tale coincidenza. «Così voi avrete vent’anni di qui a due giorni. Ho piacere me lo abbiate detto ora; chè anche in terra straniera, sentirete voci amichevoli che vi faranno augurii cordiali.»
— «Non ve ne dimenticate,» disse Lucy scherzando, «ma adesso avete a proseguire, e dirmi come veniste a dimorar qui.»
— «Poco mi resta a dir di più. Quando arrivai in San Remo, il cholera era al suo colmo. Feci il meglio che potei, ma con piccol successo. A che può valere l’abilità e la forza dell’uomo contro un nemico intangibile, che par derida e distrugga ogni calcolo umano, e sfidi ogni rimedio? Quanto posso dire in mio favore si è che non mi ebbi riguardo.»
— «Di questo ne son sicura,» disse con calore Lucy.
— «E sono stato più che ripagato dall’affezione e dalla gratitudine del popolo in tutto questo Circondario. Dopo molti mesi di gran combattimento e di grandi stenti l’orribile flagello diminuì, e poi sparì affatto da sè stesso. Poco dopo, il medico condotto di Bordighera, uomo vecchissimo, venne a morte; e il Consiglio municipale mi offrì quel posto. Mi piaceva la piccola città, che avevo visitata più volte. Ne amavo il buon popolo, la maggior parte del quale io conosceva: e così accettai l’offerta. Ma il Governo rifiutò di approvare l’elezione, di nuovo sotto pretesto che io era forestiero, e che avevo preso i miei gradi in una Università forestiera. Bordighera tuttavia aveva a cuore che io fossi il suo medico; e una deputazione composta del Sindaco e di uno o due Consiglieri, si recò in quel tempo a Torino per vedere cosa si potesse fare. Il Comandante di San Remo, del quale io era divenuto amicissimo, appoggiò la deputazione, e scrisse in mio favore. I miei servigi furono pomposamente messi innanzi e fatti valere, e alla fine la mia nomina — un affare di Stato — ricevette il sigillo e la segnatura officiale. Ecco come venni a stabilirmi in questo paese di provincia quale medico, e medico-condotto.»
— «Che triste destino esser cacciato così dal paese natio e dalla propria casa, lontano da quelli che uno ama di più!» sclamò Lucy colle lagrime agli occhi. «Quello che mi avete detto ora mi dà un’idea di uno stato di cose che non mi sarei mai sognato da prima. Vi stupirete della mia ignoranza — ma di grazia, quanti Stati separati vi sono in Italia?»
— «Tanti,» rispose Antonio, «che se pur non li conto sulle dita, nemmeno son sicuro del loro numero. Lasciatemi vedere: c’è Napoli, compresa la Sicilia; Roma, Sardegna, Toscana, Parma, Lucca1, Modena, e il Lombardo-Veneto sotto il dominio austriaco, che fa otto.»
— «E tutti i Governi sono lo stesso?»
— «Tutti lo stesso, ciascuno e tutti fondati sul principio d’oppressione.»
— «E quello del Papa — è cattivo come gli altri?»
— «Come gli altri, anzi, se è possibile, anche peggio. Eppur oso dire che non v’accorgeste.»
— «A dire il vero,» disse Lucy un po’ imbarazzata, «a queste cose io non ho mai pensato.»
— «Non fa maraviglia, all’età vostra. Una signorina che va a Roma per salute e per divertimenti, non è probabile si prenda molto fastidio del carattere del Governo. Conoscete molte famiglie romane?»
— «Quasi nessuna, se si eccettua quella del principe Sofronia. Ci facevamo visite fra Inglesi esclusivamente.»
— «Ciò che accade quasi universalmente tra i forestieri. Vengono in Italia come andrebbero in un comodo albergo; e quando un uomo va in un albergo, non va di certo coll’intenzione di occuparsi della gente di casa.»
— «Che avrei a far dunque per acquistare qualche conoscenza delle cose e degli uomini quando andrò in Roma un’altra volta?»
— «C’è solo un mezzo,» disse Antonio, «quello di mescersi a tutte le classi della società, e tener gli occhi ben aperti. Questo naturalmente non si può, nè si dee fare da una signorina.»
— «Vorrei non essere una signorina,» disse Lucy con fanciullesca impazienza, «se l’esser tale mi dee inceppare ad ogni passo. Ma, comunque, potrò cercare di ottenere informazioni.»
— «Sicuro,» rispose Antonio; «e poichè dite che tornerete in Roma, lasciate che vi dia un avviso opportuno. Non prestate mai, sotto qualunque pretesto o ragione, una delle vostre Bibbie protestanti a un romano.»
— «Perchè no? Mi diceste l’altro giorno che molti Italiani leggon la Bibbia.»
— «Verissimo; ma vi dissi nello stesso tempo che solo una traduzione è permessa. Se foste colta nell’atto di rompere il divieto di diffondere qualunque altra versione, potreste imparare a vostre spese che sorta di mansuetudine e di tolleranza faccia soave lo scettro del Vicario di Gesù Cristo. Quanto a quelli fra i miei compatrioti che si permettono leggere traduzioni proibite, lo fanno a proprio rischio e pericolo. Ma penso che di politica abbiamo avuto abbastanza. Debbo ora parlarvi delle mie grandi prospettive.»
— «Oh! sì, parlatene,» disse Lucy.
— «Era stato qui due anni, quando mi fu offerto ugual posto in una parte lontana del Piemonte propriamente detto. Il solo vantaggio sopra quello che tenevo, era pecuniario; essendone doppio l’emolumento. Ma d’altra parte, la città cui veniva invitato, era posta in una stretta valle, chiusa da montagne, umida in ogni stagione, freddissima l’inverno. Io che non aveva alcuna persona da sostenere, dovevo lasciare i miei cortesi e grati vicini, ciascun dei quali conoscevo già di vista e di nome? Doveva io rinunziare a quest’ampia estensione di splendida natura, che mi rallegra l’occhio e mi alleggerisce il cuore ogni qualvolta la guardo, e tutto per un po’ di vil danaro? Io non poteva. Sono un figlio dei paesi meridionali, malavvezzo. Ho bisogno d’aria, di luce, di calore. Vo matto di questo cielo — di questo mare. Non posso farne a meno: essi sono la mia vita.»
— «Mi fa bene al cuore,» disse Lucy, «il vedervi una volta entusiasta.»
— «Tiratemi a questo argomento delle bellezze della natura, quando che sia,» replicò Antonio sorridendo, «e vedrete.»
— «Così rispondeste con un rifiuto?»
— «Sicuramente, e senza la menoma esitanza.»
— «Fu proprio atto degno di voi,» sentenziò Lucy, nella quale cresceva l’attenzione e il rispetto per il narratore ad ogni particolarità che ponesse in più viva luce la nobile semplicità della sua mente.»
— «La mia seconda grave avventura nella vita,» continuò l’Italiano, «è di natura così nuvolosa, che non so come spiegarvela. Era vacante una cattedra supplementare di anatomia nell’Università di Torino. Doveva esserci un concorso. L’attual professore primario, alquanto a me amico, mi diè avviso di presentarmi come uno dei concorrenti. A far ammettere il mio nome nella lista dei candidati mi sarebbe bisognato spedir di nuovo una petizione per ottener dispensa da una delle condizioni richieste — cioè da quella della nazionalità sarda. Ne aveva già fatta una, ed era stata più che bastante per me. Così ringraziai il mio amico, e la cosa finì in tal modo.»
— «Questo andò troppo male,» disse Lucy in tuon di rimprovero.
— «Voi dite così non sapendo cosa voglia dire petizione in questo paese,» rispose Antonio. «Uno è costretto ad usare un formolario apposito, abbiettissimo, e il cui linguaggio è meno quello di uomo ad uomo, che di schiavo al suo aguzzino. Lo stesso nome dell’atto, una supplica, mi fa venir male. No, no, non scriverò mai un’altra supplica, neppur per salvar la mia vita.»
Due giorni dopo questa conversazione era il 23 aprile. Quando Antonio recossi a far la sua visita, trovò tre immensi mazzi di fiori, del diametro di venti once almeno, accomodati alla genovese, e legati a stecche lunghe due piedi, vicino al letto di Lucy. Rosa e Speranza, non contente di preparare ciascuno il suo, ne fornirono uno a sir John perchè lo presentasse a sua figlia. — «Guardate — guardate! dottor Antonio,» sclamò Lucy com’egli entrava in camera, indicandogli quella magnifica mostra di fiori.
— «Ve ne auguro molti felici di questi giorni!» cominciò l’Italiano. «Conobbi di non poter in alcun modo competere con Rosa e Speranza, e però non vi portai mazzolino, ma un sol fiore molteplice in sè stesso;» e così dicendo stese a Lucy un ramoscello di pesco in pieno fiore, che teneva nascosto dietro le spalle.
— «Oh! questo è meglio di tutto. Come è splendido!» sclamò Lucy battendo le mani per contentezza.
— «Sì; n’è vero che è splendido?» disse Antonio. «Potete immaginare cosa più elegante di questa corolla? o cosa più ricca di tinte di questi petali degradanti dal porporino reale al più delicato incarnato della rosa? Come ben vedete, la corolla è polipetale.»
— «Via le parole tecniche, via l’analisi, interruppe Lucy. «Lasciatemi goder pura e semplice l’ammirazione del tutto insieme.»
— «Avete ragione,» rispose Antonio. «Se analizzando accresciamo la nostra provvista di cognizioni, è cosa rara che non si guastino i nostri godimenti. Questo è uno dei prodigi della natura, un capo d’opera. Ecco quanto ci basta conoscerne.»
— «Mi ricordo,» disse Lucy, «quello che sta scritto dei gigli del campo. Eppure Salomone in tutta la sua gloria non era vestito come uno di questi fiori.»
— «A’ miei occhi,» rispose Antonio, «questo ramoscello di pesco parla a suo modo della mano del supremo Artefice con tanta evidenza, con quanta tutte le glorie del firmamento.»
— «È proprio così,» rispose Lucy. «E pare inesplicabile come ci siano uomini, che non vedono in tutte le maraviglie dell’universo se non l’opera della materia e l’effetto del cieco caso!»
Antonio non disse nulla, ma guardò con intensa simpatia la bella parlatrice. Ella restò pensierosa colla faccia volta verso il cielo:
«E co’ cieli il suo sguardo favellava, |
Nessuna parola può bene descrivere come queste di Milton la nostra Lucy in quell’istante. Per un po’ di tempo nessuno de’ due giovani fiatò; ma i loro cuori non erano stati mai per lo innanzi in così stretta comunione fra loro, come in questa pausa. Antonio fu il primo a parlare.
— «Avete letto mai Picciola?»
— «No. È un romanzo francese?» domando Lucy.
— «Sì, è un romanzo di M. Saintine, celebre autore francese. Quel che avete detto poc’anzi me l’ha richiamato alla memoria.»
— «Di che tratta?»
— «Di un fiore,» rispose Antonio. «L’eroina del romanzo è un fiore.»
— «Quale stranezza! — un fiore!»
— «Nè più nè meno,» disse Antonio: «è un fiore che vi rappresenta una parte non mai toccata ad una eroina.»
— Voi eccitate la mia curiosità,» disse Lucy, «Ditemi qualcosa intorno a questa Picciola.»
— «Il fondamento del romanzo non è altro che questo. L’eroe, proprio uno scettico come quello al quale facevate allusione, si mischiò in non so quale cospirazione contro Napoleone I, e fu per questo motivo imprigionato nella fortezza di Fenestrelle. Chiuso fra le quattro nude pareti della sua prigione, privo di libri, penne e inchiostro, e di qualunque umana relazione, eccetto quella del suo carceriere; al povero prigioniero non era data altra ricreazione se non quella di un’ora di passeggio nel cortile interno del castello. In una di quelle quotidiane passeggiate su e giù pel tetro cortile, il suo occhio scoprì a caso una minuta verzura che cercava aprirsi la via fra due pietre. Ogni dì tornando, vedeva il progressivo crescere della pianta, e il suo difficil combattere per la esistenza. Egli vi si interessò; e il suo interesse a grado a grado crebbe sino a divenir passione. Le misteriose meraviglie della vegetazione colpiscono la mente e il cuore del materialista; e l’umile fiorellino diviene il veicolo per cui si solleva gradatamente al concetto di una causa prima. Picciola — tale è il nome dato alla pianta — per dirla in breve, è il missionario che converte quello scettico blasé del mondo in un credente.»
— «Davvero, è una bella storia,» disse Lucy. «Mi propongo provvedermi del libro, se volete scrivermene il titolo. E il nome della pianta che ha operato tanto miracolo?»
— «L’eroe del romanzo, dicesi, non potè mai scoprire il nome botanico di questo fiore prodigioso.»
— «Che disgrazia!» disse Lucy. «Sarebbesi potuto desiderare fosse stata una violetta, o un non-ti-scordar-di-me, o... A proposito, dottor Antonio, tra i fiori che mi avete portato, non c’è stato mai un non-ti-scordar-di-me. Ne crescono in Italia?»
— «Sì, in gran quantità.»
— «E non me ne avete mai portato?» disse Lucy in tuon di rimprovero. «Perchè non l’avete ancor fatto?»
— «Perchè, non so,» disse Antonio sorridendo, ma con un’ombra d’imbarazzo; «forse pensava che non aveste, vedendomi tanto spesso, bisogno alcuno di ricordarvi di me.»
— «Una presuntuosa, cattiva ragione,» rispose Lucy bruscamente. «Non vi consiglierei a contarci troppo.»
Un’altra volta di ritorno, il Dottore portò alla sua giovane malata un grosso mazzo di quei bei fiorellini azzurri. Ella li pose sulla tavola vicino a sè in un bicchiere: e, indicandoli, disse mezzo seria, mezzo scherzosa: «Non sapete ancora che io sono molto smemorata: e finchè avrò questi, non mi dimenticherò di voi.»
Se Antonio fosse stato un uomo volgarmente vanitoso, avrebbe creduto volesse ella intendere più di quel che diceva. Ma le attribuì solo il desiderio di fare ammenda delle parole, piuttosto pungenti, dettegli il giorno innanzi.
Note
- ↑ Una clausola del trattato di Vienna provvide che, dopo la morte di Maria Luisa d’Austria duchessa regnante di Parma, Il duca di Lucca fosse ristabilito ne’ suoi paterni Stati di Parma, e Lucca fosse incorporata alla Toscana. Queste mutazioni avvennero nel 1847 alla morte di Maria Luisa; e per conseguenza il numero de’ piccoli Stati d’Italia fu allora diminuito di uno, cioè di quello di Lucca.