Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo II/Capitolo sesto

Capitolo sesto

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CAPITOLO SESTO


Al tornar della mente che si chiuse ec.

Come ne’ precedenti canti ha fatto, così in questo si continua l’autore alle cose dette; egli nella fine del precedente canto mostra, come per compassione avuta di madonna Francesca e di Polo da Rimino cadesse, e da quel cadimento nel principio di questo essere tornato in sè, e ritrovarsi nel terzo cerchio dell’inferno. E fa in questo canto l’autore cinque cose. Nella prima descrive la qualità del luogo: nella seconda dice quello che Cerbero demonio facesse vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse: nella terza pone come trovasse un Fiorentino, e che da lui sapesse qual peccato quivi si puniva e altre cose più, domandandone esso autore: nella quarta, passando più avanti, muove l’autore un dubbio a Virgilio, e Virgilio glielo solve: nella quinta dimostra l’autore dove pervenissero. La seconda comincia quivi: Quando ci scorse. La terza quivi: Noi passavam. La quarta quivi: Sì trapassammo. La quinta quivi: Noi aggirammo. Descrive adunque l’autore nella prima parte di questo canto la qualità del luogo, dicendo: Al tornar della mente, mia, che, la quale per compassione, si chiuse, come nella fine del precedente canto è mostrato,

Dinanzi alla pietà de’ due cognati,

di madonna Francesca e di Polo, [p. 89 modifica]

Che di tristizia tutto mi confuse;

la compassione avuta della lor misera fortuna: Nuovi tormenti, non quegli i quali nel secondo cerchio aveva veduti, ma altri, i quali dice nuovi, quanto a sè, che mai più veduti non gli avea: e nuovi tormentati, altri che quegli che di sopra avea veduti,

Mi veggio intorno come ch’io mi muova,

a destra o a sinistra, E ch’io mi volga, in questa parte o in quella, e come che io mi guati.

Io sono al terzo cerchio della piova,

la qual piova è, Eterna, non vien mai meno, maladetta, in quanto è mandata dalla divina giustizia per perpetuo supplicio di coloro a’ quali addosso cade, fredda, e per tanto è più noiosa, e greve: cioè ponderosa, per più affliggere coloro a’ quali addosso cade:

Regola e qualità mai non l’è nuova

sempre cade d’un modo. E poi descrive qual sia la qualità di questa piova, dicendo,

Grandine grossa, e acqua tinta, e neve,

comechè queste tre cose causate da’ vapori caldi e umidi, e da aere freddo, nell’aere si generino, nondimeno per effetto della divina giustizia in quello luogo caggino, in tormento e in pena di quegli che in questo terzo cerchio puniti sono, e però dice,

Per l’aer tenebroso si riversa:

e oltre a ciò,

Pute la terra che questo riceve

cioè queste tre cose.

Cerbero, fiera crudele e diversa,

[p. 90 modifica]Fingono i poeti questo Cerbero essere stato un cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio dell’inferno, dicevano Plutone lui aver posto alla porta dell’inferno, acciocchè quinci alcuno uscire non lasciasse, comechè l’autore qui il ponga a tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio sono, descrivendo la qualità delle forma sua, dicendo, Con tre gole, perciocchè tre capi avea, caninamente latra, e in questo atto dimostra, lui essere cane come i poeti il descrivono,

Sopra la gente, che quivi e sommersa

sotto la grandine, e l’acqua e la neve. Gli occhi ha vermigli, questo Cerbero, e la barba unta, e atra, cioè nera. E ’l ventre largo, da poter, mangiando, assai cose riporre, e unghiate le mani, per poter prendere e arrappare: Graffia gli spirti, con quelle unghie, ed ingoia, divorandogli, ed isquatra, graffiandogli, Urlar, questo è proprio de’ lupi, comechè e’ cani ancora urlino spesso, gli fa la pioggia, la qual continuamente cade loro addosso, come cani:

Dell’un de’ lati fanno all’altro schermo:

questi spiriti dannati: Volgonsi spesso, mostrando in questo che gravemente gli offenda la pioggia: e perciò, come alquanto hanno dall’un lato ricevutala, cosi si volgon dall’altro, infino a tanto che alcun mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia, i miseri profani. Profano propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu sacro, poi è ridotto all’uso comune d’ogni uomo; siccome alcun luogo, nel quale già è stata [p. 91 modifica]alcuna chiesa o tempio, la quale mentre vi fu fu sacro luogo, poi per alcuno acconcio comune, trasmutata la chiesa in altra parte, è il luogo rimaso comune, e chiamasi profano; così si può dire degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri, mentre seguirono la via della verità, perciocchè mentre questo fecero, era con loro la grazia dello Spirito Santo, ma poichè abbandonata la via della verità seguirono la malvagità e le nequizie, per le quali dannati sono, partita da loro la grazia dello Spinto Santo, sono rimasi profani. Quando ci scorse. Comincia la seconda parte del presente canto, nella quale, siccome ne’ superiori cerchi è addivenuto all’autore d’essere stato con alcuna parola spaventato da’ diavoli presidenti a’ cerchi, ne’ quali disceso è, così qui similmente dimostra Cerbero averlo voluto spaventare: e questo con quello atto generalmente soglìon fare i cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare; innanzi ad ogni altra cosa gli mostrano i denti, il che aver fatto Cerbero verso Virgilio e verso lui dimostra qui l’autore, dicendo: Quando ci scorse, cioè ci vide venire, Cerbero, il gran vermo: pone l’autore questo nome a Cerbero di vermo, dal luogo ove il trova, cioè sotterrato, perciocchè i più di quegli animali i quali sotterra stanno sono chiamati vermini: Le bocche, perciò dice le bocche, perchè tre bocche avea questo Cerbero, come di sopra è dimostrato, aperse, e mostrocci le sanne, cioè i denti:

Non avea membro che tenesse fermo.

Il che può avvenire da impetuoso desiderio di [p. 92 modifica]nuocere, e da altro. E ’l duca mio, veduto quello che Cerbero faceva, distese le sue spanne, cioè aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa con la grandezza della mano misura,

Prese la terra, e con piene le pugna,

come la mano aperta si chiama spanna, così chiusa pugno,

La gittò dentro alle bramose canne

dice canne, perciocchè eran tre, come di sopra è mostrato. E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al comparato, dimostra quel demonio essersi acquetato, e dice: Quale quel cane ch’abbaiando, cioè latrando, agogna, agognare è propriamente quel disiderare, il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno altro mangiare alcuna cosa, quantunque s’usi in qualunque cosa l’uom vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li quali davanti altrui stanno quando altri mangia, E si racqueta, senza più abbaiare, poichè ’l pasto morde, cioè quello che gittato gli è da mangiare,

Che solo a divorarlo intende e pugna;

Cotai si fecer, cioè così quiete, quelle facce lorde, brutte di Cerbero, che eran tre,

Dello demonio Cerbero, che ’ntrona

latrando, L’anime, in quel cerchio dannate, , ch’esser vorrebber sorde, acciocchè udire noi potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di là dove egli nel sesto dell’Eneida scrive:

Cerberus haec ingens latratu regna Trifauci
Personat, adverso recubans immanis in antro.

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Cui vates, horrere videns jam colla colubris,
Melle soporatam, et medicatis frugibus offam
Objicit: ille fame rabida tria guttura pandens
Corripit objectam, atque immania terga resolvit
Fusus humi, totoque ingens extenditur antro etc.

Noi passavam. Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale l’autore trova un Fiorentino, il quale gli dice qual peccato in questo terzo cerchio si punisca: e oltre a ciò, d’alcune cose addomandato da lui il dichiara: dice adunque: Noi passavam, Virgilio e io, su per l’ombre ch’adona, cioè prieme e macera, La greve pioggia, la quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, e ponevam le piante, de’ piedi,

Sopra lor vanità, che par persona.

Altra volta è detto, gli spiriti non avere corpo, ed essere agli occhi nostri invisibili, ma in questa opera tutti gli mostra l’autore essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dell’Eneida fa il simigliante; e questo fa acciocchè più leggiermente inteso sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono, e i loro supplicii: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse, se questa maniera non tenesse: nondimeno mostra che, quantunque in apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor vanità che par persona e non è: il che come addivenga, pienamente si dimostrerà nel canto trentacinque del Purgatorio, dove questa materia si tratta. Elle, cioè quell’anime. giacean per terra tutte quante, Fuor ch’una, ch’a seder si levò sicchè appare [p. 94 modifica]che anche questa giacea come l’altre, ratto, cioè tosto,

Ch’ella ci vide passarsi davante:

e disse così:

O tu, che se’ per questo inferno tratto,

cioè menato,

Mi disse, riconoscimi, se sai:

quasi volesse dire, guatami, e vedi se tu mi riconosci, perciocchè tu mi doverresti riconoscere; e la ragione è questa, che Tu fosti prima ch’io disfatto, cioè che io morissi, fatto, cioè creato e nato, perciocchè nella morte, questa composizione che noi chiamiamo uomo, si disfà per lo partimento dell’anima; e cosi nè ella che se ne va, nè il corpo che rimane, è più uomo: e veramente nacque l’autore molti anni avanti che costui morisse, e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossero strani. Ed io a lei, cioè a quella anima: l’angoscia che tu hai, cioè del tormento nel quale tu se’, Forse è la cagione la quale ti tira fuor della mia mente, cioè del mio ricordo, e tiratene fuori,

, che non par, ch’io ti vedessi mai.

Ma, poichè io non me ne ricordo, dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente Luogo se’ messa, come questo è, e a sì fatta pena, come è questa, la quale è tale, Che s’altra è maggia, cioè maggiore, nulla è sì spiacente. Ed egli a me rispose così, la tua città, cioè Firenze, della quale tu se’, ch’è piena D’invidia, ed enne piena, , che già trabocca il sacco: quasi voglia dire ella n’è sì piena, che ella no [p. 95 modifica]la può dentro a sè tenere, per la gran quantità conviene che si versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, i quali dalla invidia procedono; e questo dice costui, perciocchè Tra l’altre invidie che in Firenze erano, ve n’era una, la quale gittò molto danno alla città, e massimamente a quella parte alla quale era portata; e questa era la invidia la quale portava la famiglia de’ Donati alla famiglia de’ Cerchi; perciocchè; dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi disagiati gentiluomini che non, vedendosi tutto dì davanti, siccome vicini in città e in contado, la famiglia de’ Cerchi, i quali in que’ tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi; e oltre a ciò nel reggimento della città, e nello stato potentissimi, avevano alle ricchezze e allo stato loro invidia e aveanne tanta che, come è detto, non potendola dentro più tenere, non molto poi con dolorosi effetti la versarono fuori. Seco mi tenne, siccome cittadino, in la vita serena, cioè in questa vita mortale, la quale chiama serena, cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato dimorava. Voi cittadini, di Firenze, mi chiamaste Ciacco. Fu costui uomo non del tutto di corte, ma perciocchè poco avea da spendere, erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola. Era morditore, e le sue usanze erano sempre con gentiluomini e ricchi, e massimamente con quegli che splendidamente e dilicatamente mangiavano e beveano, da’ quali se chiamato era a mangiare v’andava, e similmente se invitato non v’era esso medesimo s’invitava; ed era per questo vizio notissimo uomo a tutti [p. 96 modifica]i Fiorentini, senzachè fuor di questo egli era costumato uomo secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quai cose era assai volentieri da qualunque gentiluomo ricevuto.

Per la dannosa colpa della gola,
Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco:

cioè in questo tormento mi rompo: pioveva quivi, come di sopra è detto, grandine grossa, la quale agramente percotendogli tutti gli rompeva; e dice, che ciò gli avvenia per la dannosa colpa della gola, nelle quali parole manifesta qual vizio in questo terzo cerchio dell’inferno sia punito, che ancora per infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola dannosa colpa: e questo non senza cagione, perciocchè è dannosissimo vizio, e siccome più distesamente si mostrerà appresso nella esposizione allegorica. Ed io anima trista, e veramente è trista l’anima di chi a sì fatta perdizion viene, non son sola; quasi voglia dire, non vorre’ che tu credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò Che tutte queste, le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, a simil pena stanno, che fo io, Per simil colpa, cioè per lo vizio della gola: e, detto questo, più non fe’ parola. Io gli risposi, cioè gli dissi: Ciacco, il tuo affanno, il quale tu sostieni per la dannosa colpa della gola, Mi pesa sì, cioè tanto, ch’a lagrimar m’invita: e mostra qui l’autore d’aver compassione di lui, acciocchè egli si faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò che intende di domandare: e nondimeno quantunque dica, a lacrimar m’invita, noDn dice perciò che lacrimasse; [p. 97 modifica]volendo per questo mostrare, lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non pena, ma alcuna compassione in rimessione del suo non pieno peccato ne dimostra; e però segue: Ma dimmi, se tu sai, a che, fine, verranno I cittadin, cioè i Fiorentini, della città partita; perocchè in que’ tempi Firenze era tutta divisa in due sette, delle quali l’una si chiamava bianchi, e l’altra neri; ed era caporale della setta de’ bianchi messer Vieri de’ Cerchi, e di quella de’ neri messer Corso Donati: ed era questa maladizione venuta da Pistoia, ove nata era in una medesima famiglia chiamata Cancellieri; e dimmi, S’alcun v’e giusto, nella città partita, il quale riguardi al ben comune, e non alla singularità d’alcuna setta; e dimmi la cagione.

Perche l’ha tanta discordia assalita.

Domandalo adunque l’autore di tre cose, alle quali Ciacco secondo l’ordine della domanda successivamente risponde. Ed egli a me, supple, rispose alla prima, dopo lunga tencione, cioè dopo riotta di parole, Verranno al sangue, cioè fedirannosi e ucciderannosi insieme; il che poco appresso addivenne; perciocchè andando per la terra alcuni delle dette sette1, tutti andavano bene accompagnati e a riguardo: e così avvenne, che la sera di calen di maggio 1300, facendosi in su la piazza di santa Trinità un gran ballo di donne, che giovani dell’una setta In questo luogo il copiatore del Manoscritto scrive in margine: qui puoi vedere che l’autore (Dante) cominciò questo libro all’entrata dell’anno di Cristo 1300. [p. 98 modifica]e dell’altra a cavallo e bene in concio sopravvennero a questo ballo: e quivi primieramente cominciarono l’una parte a sospignere l’altra, e da questo vennero a sconce parole; e ultimamente cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci, e dalle mani venuti a’ ferri, molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito Ricovero di messer Ricovero de’ Cerchi, e fugli tagliato il naso, di che tutta la citta fu sommossa ad arme; e non finì in questo il malvagio cominciamento, perciocchè in questo medesimo anno in simili riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sette: e la parte selvaggia, cioè la bianca, la quale chiama selvaggia, perciocchè messer Vieri de’ Cerchi, il quale era come detto è capo della parte bianca, e’ suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati uomini, e per questo erano non solamente superbi e altieri, ma egli erano salvatichetti intorno a’ costumi cittadineschi, perciocchè non erano accostanti all’usanze degli uomini, nè gli corteseggiavano come per avventura faceva la parte avversa, 1a quale era più povera: Caccerà l’altra, parte; nè si vuole intendere qui, che di Firenze cacciasse la parte bianca la nera, comechè alcuni ne fosser mandati dal comune in esilio, perchè non avean di che pagare le condannagioni dagli uficiali del comune fatte per li loro eccessi, ma intende l’autor qui, che la parte selvaggia, cioè bianca, caccerà la parte nera del reggimento dello stato del comune, come essi fecero; e ciò avvenne, con molta offensione, in quanto oltre agli altri mali e oppressioni ricevute da’ neri, furono le condannagioni pecuniarie [p. 99 modifica]grandissime, tanto più gravi a’ neri che a’ bianchi, quanto aveano meno da pagare, perchè poveri erano per rispetto de’ bianchi. Poi appresso, cioè dopo tutto questo, convien che questa, parte selvaggia, Caggia, dello stato e della maggioranza: e questo avverrà, Infra tre soli, cioè infra lo spazio di tre anni; perciocchè il sole circuisce tutto il zodiaco in 365 dì e un quarto, i quali noi chiamiamo uno anno: e questo medesimo spazio di tempo alcuna volta si chiama un sole, cioè il circuito intero d’un sole: e dice infra tre soli, perciocchè non si compiè il terzo circuito del sole che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare, il che appare esser vero; perciocchè vedendosi i neri opprimer dalla parte bianca, n’andò messer Corso Donati in corte di Roma a papa Bonifazio VIII., e con più altri suoi aderenti, pregarono il papa gli piacesse di muovere alcuno de’ reali di Francia, il quale venisse a Firenze a doverla racconciare, poichè per messer Matteo d’Acquasparta cardinale e legato di papa non s’era potuta racconciare, non volendo i bianchi ubbidire al detto legato: per i preghi del quale non avendo il papa potuto pacificare messer Vieri con messer Corso, per la superbia di messer Vieri, il papa mandò in Francia al re Filippo, il quale ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di Valois suo fratello, il quale sotto nome di paciario il papa mandò a Firenze: e furono tali l’opere sue, che a dì 4 d’Aprile 1302. tutti i caporali di parte bianca richiesti da messer Carlo, per un trattato il quale dovean tenere contro al detto messer Carlo, non [p. 100 modifica]comparirono, anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condannati furono da messer Carlo, e così il reggimento della città rimase tutto nella parte nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia infra tre soli esser caduta e l’altra sormontata: nondimeno chi questa istoria vuole pienamente sapere, legga la Cronica di Giovanni Villani, perciocchè in essa distesamente si pone. Seguita poi: e che l’altra sormonti, cioè la parte nera, la quale sormontò come mostrato è di sopra,

Per la forza di tal, che testè piaggia.

Dicesi appo i Fiorentini colui piaggiare, il quale mostra di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che avvenga: la qual cosa vogliono alcuni, in questa discordia de’ bianchi e de’ neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè d’aver mostrata egual tenerezza di ciascuna delle parti, e per dovergli porre in pace avervi mandato il cardinal d’Acquasparta, e poi messer Carlo di Valois: ma ciò non essere suto vero, perciocchè l’animo tutto gli pendeva alla parte nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose da messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per questo siccome egli volle, e occultamente adoperò, furono da messer Carlo tenuti i modi, i quali egli in queste cose tenne, come di sopra appare: e perciò l’autore dice essere stata depressa la parte bianca ed elevata la nera, con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel 1300, piaggiava. Alto terrà, nel reggimento e nello stato, lungo tempo le fronti, il quale lungo tempo non è ancora venuto meno, [p. 101 modifica]''Tenendo l’altra, parte cacciata, sotto gravi pesi, siccome lo stare fuori di casa sua in esilio, Come che di ciò, che io predico, pianghi, e che n’adonti, cioè tu Dante, il quale siccome altra volta è stato detto, fu della parte bianca, e con quella fu cacciato di Firenze, nè mai poi ci ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane come coloro fanno alli quali pare ricever torto. Giusti son due. Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta dall’autore dove di sopra disse, s’alcun v’è giusto: e dice, che intra tanta moltitudine, v’ha due che son giusti: quali questi due si sieno, sarebbe grave l’indovinare; nondimeno sono alcuni, i quali donde che egli sel traggano, che voglion dire essere stato l’uno l’autor medesimo, e l’altro Guido Cavalcanti, il quale era d’una medesima setta con lui; ma non vi sono intesi, cioè non è alcun lor consiglio creduto:

Superbia, invidia, ed avarizia sono
Le tre faville c’hanno i cuori accesi.

Qui risponde Ciacco alla terza domanda fatta dall’autore di sopra dove dice, dimmi la cagione, perchè l’ha tanta discordia assalita; e dice che tre vizii sono cagione della discordia, cioè superbia, la quale era grande in messer Vieri e ne’ consorti suoi, per le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male accostevoli a’ cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò la discordia.

Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicono così, che conciosiacosachè singulare grazia di Dio sia il prevedere le cose future, e i dannati del tutto la divina [p. 102 modifica]grazia aver perduta, non pare che convenientemente qui l’autore indica l’anima di Ciacco dannata, a dover predire le cose le quali scrive gli predisse: alla soluzione del qual dubbio par che si possa così rispondere, esser vero alcuna cosa non potersi fare che buona sia senza la grazia di Dio, la qual veramente i dannati hanno perduta, ma nondimeno concede Domeneddio ad alcune delle sue creature nella lor creazione certe grazie2, le quali esso non toglie loro, quantunque queste creature create da lui buone, poi diventin perverse; perciocchè noi possiam manifestamente conoscere, che quantunque gli angeli, i quali per la loro superbia furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine privati fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella lor creazione avea lor conceduta. È vero che questa non fu lor lasciata in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio; perciocchè quanto più sanno, tanto più conoscono la gloria la quale per loro difetto perduta hanno, e per conseguente maggiore supplicio sentono. E così similmente crea nostro Signore l’anime nostre perfette e simiglianti a sè; e quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter salire a’ beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella lor creazione furono lor concedute da Dio, quantunque in danno di loro siano lor lasciate da Dio: e le dote le quali noi riceviamo da Dio son molte, [p. 103 modifica]perciocchè esso ne dona la ragione, la volontà, il libero arbitrio, e danne la memoria, l’eternità, e l’intelletto, e in queste cose ne fa simili a sè: le quali cose, quantunque nella sua ira moiamo, in parte ne rimangono, tra le quali è quella parte della sua divinità, la quale conceduta ne ha: e se questa rimane a’ dannati, meritamente delle cose future si possono addomandare, ed essi ne possono rispondere: perchè non pare che l’autore inconvenientemente abbia del futuro addomandata l’anima dannata, ma che le predette dote ne sien concedute pare che si provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi nel principio del Genesi, Dixit Deus: faciamus hominem, ad imaginem, et similitudinem nostram: e se egli fece questo, che il fece, dunque abbiam noi le cose predette. E il vero, che queste cose furono conceduto all’anima e non al corpo; perciocchè il corpo nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio; perciocchè Domeneddio, come altra volta è detto, non ha nè mani nè piedi, nè alcuna altra cosa corporea; quantunque la divina Scrittura questi membri gli attribuisca, acciocchè i nostri ingegni, da dimostrata forma possan comprendere i misterii che sotto questa forma la Scrittura intende. Furono adunque concedute all’anima, la quale esso perciò chiamò uomo, perchè ella è quella cosa per la quale è l’uomo, mentre ella sta congiunta col corpo: e di questi così magnifichi doni, come tutti gli eserciti l’anima mentre viviamo, nondimeno alcun n’esercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinità ne sia conceduta, e che ella nelle nostre [p. 104 modifica]anime sia, in certe cose appare vivendo noi; quantunque essendo oppressa da questa gravità del corpo, rade volte e con difficultà le intervenga il potere sè esser divina mostrare; nondimeno il dimostra talvolta, dormendo il corpo sobrio e ben disposto, e soluto dalle cure corporali, siccome Tullio ne dimostra in libro de divinatione, in quanto quasi alleviata ne sogni, ne dimostra le cose future. Qual più certa dimostrazione averebbe alcuna viva voce fatta a Simonide poeta, volente d’una parte in un’altra navicare, che in sua salute gli fece la divinità della sua anima nel sonno vedere? Aveva il dì davanti Simonide seppellito un corpo, il quale gittato dal mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli parve dormendo vedere, e udire da lui: Simonide, non salire sopra la nave, su la quale tu ti disponi d’andare, perciocchè ella perirà con quegli che su vi fieno in questo viaggio: per la qual cosa Simonide s’astenne; nè molti di passarono, che con certezza gli fu recitato, quella nave esser perita. Non fu similmente non una volta, ma due, dimostrato nel sonno ad Astiage, che ’l figliuolo, il quale di Mandane sua unica figliuola nascerebbe, il priverebbe dello imperio d’Asia? Parendogli la prima volta che l’orina della figliuola allagasse tutta Asia, e la seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva una vite, i palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E di queste dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per certo senza divino lume, nè potrebbe conoscere l’anima, nè le potrebbe mostrare. Similmente ancora, secondochè dice Tullio nel [p. 105 modifica]preallegato libro, mostra l’anima molto della sua divinità quando gravissimamente infermi e debilitati siamo; perciocchè quanto più è il corpo debole, più pare che sia il vigor dell’anima, e massimamente inquanto per l’essere le forze corporali diminuite, non pare che possano gravar l’anima, come quando intere sono. E che l’anima mostri la sua divinità vicina alla fine della vita del corpo, s’è assai volte non dormendo, ma vegghiando veduto: e siccome esso Tullio recita, sè da Possidonio famoso filosofo avere avuto, che uno chiamato Rodio, morendo aver nominati sei suoi amici, I quali disse dovere appresso di sè morire, esprimendo qual primo, e qual secondo, e qual terzo, e così degli altri, e ciò poi essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato Calano d’india, essendo salito, nella presenza d’Alessandro re di Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea fatto, e domandandolo Alessandro, se egli volesse che esso alcuna cosa facesse, gli rispose: io ti vedrò di qui a pochi dì: e quindi fatto accendere il rogo si morì: non istette guari, che Alessandro morì in Babilonia. E se io ho il vero inteso, perciocchè in que’ tempi io non ci era, io odo, che in questa città avvenne a molti nell’anno pestifero del MCCCXLVIII.3 che essendo soprappresi gli uomini dalla peste, e vicini alla morte, ne furon più e più, i quali de’ loro amici, chi uno e chi due, e chi più ne chiamò, dicendo, vienne tale e tale; de’ quali chiamati e nominati assai, [p. 106 modifica]secondo l’ordine tenuto dal chiamatore, s’eran morti, e andatine appresso al chìamatore: per la qual cosa assai appare nell’anime nostre essere alcuna divinità, e quella essere molto noiata dagl’impedimenti corporali, e nondimeno, come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla: e però se questo avviene, essendo esse ne’ corpi legate, che dobbiam noi estimare, che esse debbano intorno a questa loro divinità dover potere adoperare, quando del tutto da’ corpi libere sono? E non è dubbio, che molto più la debban poter dimostrare e perciò non pare inconveniente, l’autore aver domandata l’anima dannata, come altra volta è stato detto, delle cose future, nè essa averne risposto, come coloro che il dubbio moveano, volevan mostrare. E’ il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua divinità in alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla verità; ma dobbiamo credere, che se per virtù di questa divinità essa prevede alcuna felicità d’alcuno, questo essere accrescimento della sua miseria, e così il prevedere gl’infortunii, i quali afflizione e noia gli debbono aggiugnere.

il secondo vizio, e cagione della discordia, dice essere stato invidia, la quale sente l’autore essere stata nella parte di messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere, ed era grande spenditore; perchè veggendo sè povero, e messer Vieri ricco, gli portava invidia come suole avvenire, che sempre alle cose le quali più felici sono stimate è portata invidia; e oltre a ciò v’era la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro che in istato non si [p. 107 modifica]vedevan portavano invidia: dalla quale invìdia stimolante coloro i quali ella ardeva, furono aguzzati gl’ingegni, e sospinti a trovar delle vie e de’ modi per i quali la discordia s’avanzò, e poi ne seguì quello che mostrato è. Il terzo vizio dice essere l’avarizia, la quale consiste in tenere più stretto che non si conviene quello che l’uom possiede, e in desiderare più che non bisogna altrui d’avere: e così può essere stata, e nell’una parte e nell’altra, cagione di discordia nell’una, cioè nella bianca, della quale erano caporali i Cerchi, i quali erano tutti ricchi e se per avventura corteseggiato avessero co’ lor vicini, come non faceano, non sarebbero nate delle riotte che nacquero: e così nella parte nera, se stati fosser contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbono portata invidia a’ più ricchi di loro, ne desiderata la discordia, per potere per quella pervenire ad occupare quello che loro non era di necessità; il che poi rubando e scacciando, mostrarono nella partita di loro avversarii: e così questi tre vizii sono le tre faville che hanno accesi i cuori a discordia e a male adoperare. Qui pose fine, Ciacco, al lacrimabil suono, cioè ragionamento, e chiamalo lacrimabile, perciocchè a molti fu dolorosissimo, e cagione di povertà, e di miseria e di pianto, e tra gli altri all’autore medesimo, il quale cadde allo stato nel quale era in perpetuo esilio. Ed io a lui, cioè a Ciacco dissi; ancor, oltre a ciò che detto m’hai, vo’ che m’insegni, cioè dimostri,

E che di più parlar mi facci dono,

dicendomi: Farinata, degli Uberti, e ’l Tegghiaio, [p. 108 modifica]Aldobrandi, che fur sì degni, d’onore, quanto è al giudicio de’ volgari, i quali sempre secondo l’apparenza delle cose esteriori giudicano, senza guardare quello onde si muovono, o che importino, Jacopo Rusticucci, Arrigo, Giandonati, e ’l Mosca, de’ Lamberti: furono questi cinque onorevoli e famosi cittadini di Firenze; e perchè i loro nomi paion degni di fama, di loro in singularità domanda l’autore; domandando poi in generalità degli altri, E gli altri, nostri cittadini, che ’n ben far, corteseggiando e onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, poser gl’ingegni, cioè ogni loro avvedimento e sollecitudine, Dimmi, se tu il sai, ove sono, se son qui con teco, o se sono in altra parte, e fa’, ch’io gli conosca, quasi voglia dire, io non gli riconoscerei veggendogli, se non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento nel quale se’ gli dee aver trasmutati;

Che gran disio mi stringe di sapere

Se ’l ciel gli addolcia, cioè con dolcezza consola, o lo ’nferno gli attosca, cioè riempie d’amaritudine e di tormento. E quegli, supple rispose: ei son, coloro de’ quali tu domandi, tra l’anime più nere'. Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro, e bello più che altra creatura, ma egli per superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso: e così producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non pecchiamo, nella chiarità della purità dimoriamo; ma tantosto, che noi pecchiamo, incomincia, partitasi la purità, quella chiarità che avevamo a divenire oscura, e quanto più pecchiamo,

[p. 109 modifica]in maggiore oscurità divegnamo: e quinci dice Ciacco, coloro de’ quali l’autore domanda, essere tra l’anime più nere, cioè più oscure, e soggiugue la cagione dicendo,

Diverse colpe già gli aggrava al fondo,

e dice diverse colpe, perciocchè per lo disonesto peccato della soddomia Tegghiaio Aldobrandi, e Jacopo Rusticucci, son puniti dentro alla città di Dite nel canto decimosesto di questo libro, Farinata per eresia, nel decimo canto, e ’l Mosca, perchè fu scismatico, nel canto ventottesimo: i quali peccati, perchè più gravi assai, come si dimostrerà, che non è la gola, gli aggrava, e fa andare più giuso verso il fondo dell’inferno: Se tanto scendi, quanto essi son giuso, gli potrai vedere.

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,

possiam da queste parole comprendere quanta sia l’amaritudine delle pene infernali, quando questa anima chiama questo mondo dolce, nel quale non è cosa alcuna, altro che piena d’angoscia, di tristizia e di miseria:

Pregoti, ch’alla mente altrui mi rechi,

cioè mi torni: e qui ancora per queste parole possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno non l’ha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, nè eziandio lasciare, che egli non addomandasse, che l’autore di lui, tornato di qua, ragionasse, e rivocasselo nella memoria alle genti: Più non ti dico, cioè d’altro non ti prego, e più non ti rispondo, alle cose delle [p. 110 modifica]quali domandato m’hai. Gli diritti occhi, co’quali infino a quel punto riguardato avea l’autore, torse allora in biechi, come dette ebbe queste parole, e dice in biechi, quasi in guerci, Guardommi un poco: atto è di coloro i quali, costretti da alcuna necessita, più non aspettan di vedere coloro che davanti gli sono; e poi chinò la testa:

Cadde con essa, a par degli altri ciechi,

cioè de’ dannati a quella medesima pena cbe era dannato esso: e cognominagli ciechi, perciocchè perduto hanno il vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di Dio. E ’l Duca disse a me, poichè Ciacco fu ricaduto: più non si desta, cioè non si rileva più; e così pare, che tra l’altre pene che i golosi hanno, abbiano ancora che, qual si leva o parli, per alcuna cagion, come ricaduto è, più di qui al dì del giudicio non si possa levare nè parlare,

Di qua dal suon dell’angelica tromba,

cioè di qua dal dì del giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrà, e con altissima voce, quasi sia una tromba, e dirà: Surgite mortui, et venite ad judicium. Quando vedrà, ed egli e gli altri dannati, la nimica podestà, cioè Cristo, in cui il Padre ha commessa ogni podestà: e non vedranno i dannati Cristo nella maestà divina, perciocchè sentirebbono la gloria de’ beati, ma il vedranno nella sua umanità; e parrà loro lui essere turbato verso di loro, come contra nemici, ma ciò non fia vero, perciocchè il giusto giudice, come sarà ed è Cristo, non si commuove contro a colui il quale ha offeso perciocchè se egli facesse questo, parrebbe che egli [p. 111 modifica]animosamente venisse alla sentenza: ma questo è il costume di coloro che hanno offeso, che come sentono dire cosa che gli trafigga, così si turbano; e come sono turbati essi, così par loro che sia turbato colui che meritamente gli riprende; e seguisce, al suon dell’angelica tromba che,

Ciascun rivederà la trista tomba:

dice rivederà risurgendo, e chiamala trista tomba, cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento:

Ripiglierà sua carne, e sua figura,

e questo non per lor forza, ma per divina potenza, sarà loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma acciocchè il corpo, il quale fu strumento dell’anima a commettere le colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento; e ripreso il corpo ciascuno,

Udirà quel, che in eterno rimbomba,

cioè risuona, e pone il presente per lo futuro, e questo sarà la sentenza di Dio, nella quale Cristo dirà a’ dannati: Ite maledicti in ignem aeternum etc., le quali parole in eterno non cadranno della mente loro. Sì trapassammo. Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale l’autore muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion di quello: dice adunque, , cioè così ragionando, trapassammo, lasciato Ciacco, per sozza mistura Dell’ombre, e della pioggia, la quale essendo come di sopra è detto, da sè medesima sozza, più sozza ancora diveniva per la terra la qual putiva, [p. 112 modifica]ricevendo la pioggia, a passi lenti, forse per lo ragionare, o per lo luogo che non pativa che molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo,

Toccando un poco la vita futura,

cioè ragionando della futura vita: e questo mostra fosse intorno alla resurrezione de’ corpi, sì per le parole passate, e sì ancora per quello che appare nel dubbio mosso dall’autore. Perch’io dissi: Maestro, continuandomi a quello che della futura vita ragionavamo, esti tormenti, i quali io veggio in queste anime dannate,

Cresceranno ei dopo la gran sentenza,

data da Dio nell’ultimo e universal giudici, O fien minori, che al presente sieno, o saran sì cocenti? come sono al presente. Ed egli a me, supple rispose: ritorna a tua scienza, alla filosofia,

Che vuol quanto la cosa e più perfetta,
Più senta il bene, e così la doglienza.

E questo ci è tutto il dì manifesto, perciocchè noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli: vedrem similmente un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura, dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e gl’incendii molte volte fattigli nella persona: e così adunque, siccome seguita, dobbiam credere dovere avvenire a’ dannati, quando i corpi avranno riavuti, inquanto avrà il tormento in che farsi più sentire. Tutto, cioè avvegna che questa gente maladetta, cioè i dannati, In vera [p. 113 modifica]perfezion; perfezione è un nome, il quale sempre suona in bene e in aumento della cosa la quale di non perfetta divien perfetta; e perciocchè ne’ dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo per riavere i corpi non saranno più perfetti, ma piuttosto diminuiti, dice l’autore,

In vera perfezion giammai non vada:

andrà adunque non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in quanto riavranno i corpi così come gli riavranno i beati, ma i beati gli riavranno in aumento di gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento di tormento e di pena, la quale è diminuzione di perfezione. Di là, cioè dalla sentenza di Dio, più, che di qua, dalla detta sentenza, essere aspetta, in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti, molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dì che i corpi riprenderanno. Noi aggirammo. Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale l’autor mostra dove pervenissero, e dice,

Noi aggirammo a tondo quella strada,

e dice a tondo, perciocchè ritondo è quello luogo, come molte volte è stato detto;

Parlando più, assai ch’io non ridico,

pure intorno alla vita futura, Venimmo al punto, cioè al luogo, dove si digrada, per discendere nel quarto cerchio dell’inferno,

Quivi trovammo Pluto il gran nemico,

cioè il gran demonio: il qual Pluto chi egli sia racconteremo nel canto seguente, nondimeno il chiama qui l’autore avvedutamente il gran nemico, in [p. 114 modifica]quanto, come si dira appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali in tanto sono a’ mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono il possessor di quelle a dover potere entrare in paradiso; dicendo Cristo nell’Evangelio, essere più malagevol cosa ad un ricco entrare in paradiso, che ad un cammello entrare per la cruna dell’ago; le quali parole più chiaramente che il testo non suona esponendo, secondochè ad alcun dottor piace, si deono intendere così: cioè essere in Jerusalem stata una porta chiamata Cruna d’ago, sì piccola, che senza scaricare della sua soma il cammello entrar non vi potea, scaricato v’entrava; e così moralmente esponendo, è di necessità al ricco, cioè all’abbondante di qualunque sustanza, ma in singularità delle ricchezze male acquistate, di por la soma di quelle giuso, se entrare vogliono in paradiso, l’entrata del quale è strettissima. Se adunque esse impediscono il nostro entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si possono grandissime nostre nemiche ec.

  1. In questo luogo il copiatore del Manoscritto scrive in margine: qui puoi vedere che l’autore (Dante) cominciò questo libro all’entrata dell’anno di Cristo 1300.
  2. Il Manoscritto ha nel margine questa nota: Estimò Platone essere in ciascuna anima di qualunque animale alcuna parte di divinamento, Il che appare nelle api, nelle formiche, nel cavallo d’Alessandro, ne’ leofanti, ne’ leoni, negli uomini.
  3. Il manoscritto ha 1340, forse per errore.