Il colore del tempo/La volontà
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LA VOLONTÀ
In verità questo secolo, se non fosse il secolo della scienza, sarebbe quello della critica. L’occupazione prediletta, non solamente dalla folla incapace di far altro, ma anche dalle persone illuminate, è quella di criticare uomini e cose. Certo il fenomeno si spiega con la grande facilità della critica paragonatamente alla difficoltà della creazione; ma poichè esso, quantunque antichissimo, pure si è tanto aggravato ai nostri giorni, conviene vedere se non c’è un’altra ragione, presente, attuale, che spieghi la recrudescenza.
La ragione c’è ed è grave, e consiste nell’infiacchimento delle volontà. La timidezza della quale abbiamo ragionato ne è un semplice caso.
I.
I libri sacri dicono che l’uomo fu condannato, per non aver osservato la legge divina, a guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Sarà forse per il fallo antico; ma quello di guadagnarsi il pane, come ogni altro lavoro, attento, paziente, continuato, fu ed è tuttavia considerato, da tutti quanti gli uomini, come una pena. Dai selvaggi ai fanciulli, che sono i selvaggi delle società civili, mettersi a fare qualche cosa che richieda attenzione e perseveranza, è difficile e repugnante. Ciò accade anche agli uomini ragionevoli. Il più gran numero delle persone che finiscono gli studî conseguendo una laurea o un diploma, spendono nel rimanente della loro vita la scienza acquistata in gioventù, giudicandola sufficiente, rinunziando ad accrescerla. I più forti lavoratori, quelli cui più sorride il premio delle fatiche scientifiche, letterarie o artistiche, conoscono quell’istinto d’inerzia, quel senso di fastidio, d’anticipata stanchezza e di sfiducia che bisogna ordinariamente superare prima di mettersi all’opera.
Questa universale indolenza non impedisce gli scatti dell’energia. Se di tanto in tanto gli uomini non fossero capaci di risoluzioni e d’azioni, perirebbero certo in poco tempo tutti quanti. Quando gli istinti gridano, quando i bisogni urlano, la volontà opera; ma, ottenuto l’appagamento necessario, lo sforzo cessa, e il dolce far niente torna ad essere lo stato prediletto. L’uomo è tanto superiore al bruto, possiede tante facoltà alte e nobili che sono la sua forza e il suo orgoglio; pure, nella maggior parte dei casi, la sua attività tende a manifestarsi come quella degli animali, a scatti, volta per volta, secondo che la necessità del momento richiede. Lo sforzo è penoso; senza immediato bisogno non si affronta. Il bisogno, la necessità, che sono per conto loro altrettante pene, lo fanno accettare come il solo mezzo adatto ad acquetarle; durante lo stato penoso determinato dal bisogno, la pena dello sforzo passa inavvertita, assorbita dalla pena maggiore. Le facoltà intellettuali, che sono privilegio degli uomini, dovrebbero, facendo antivedere i futuri bisogni, dandoci coscienza delle molte e continue difficoltà, persuaderci della convenienza dello sforzo continuato, dell’energia costantemente sostenuta, dell’attenzione sempre vigile; ma queste cose repugnano. Se gli uomini ne fossero capaci, se ne fossero capaci tutti, chi può dire che cosa sarebbero la scienza e la civiltà?
Uno psicologo francese, Giulio Payot, facendo queste osservazioni nell’Educazione della volontà, crede, col Ribot, che i primi sforzi di attenzione volontaria furono dovuti alle donne delle tribù selvagge, costrette, per evitare le bastonate, a un lavoro regolare, mentre i loro uomini si riposavano beatamente. Questo giudizio, fra parentesi, potrebbe far credere che l’autore sia femminista; ma, se egli trova la capacità riflessiva nelle donne selvagge, dice pure che le nostre donne sono altrettante marionette — «marionette artificiosamente composte, e coscienti senza dubbio, ma col principio di tutti i loro movimenti nella regione dei desiderî involontarî e delle suggestioni esteriori»; e che si ha un bell’impartir loro gli alti insegnamenti: «esse non arrivano alla solida cultura. Possono mandare a memoria una quantità di cose; ma non aspettate da loro nessuno sforzo d’immaginazione creatrice. Difficilmente si ottiene che esse abbiano una personalità; e il Manuel, da lunghi anni presidente della Giuria d’aggregazione delle signorine, lo accerta in molti dei suoi rapporti annuali».
Ma lasciamo stare il femminismo, del quale abbiamo già tenuto troppo lungo discorso, e torniamo alla volontà. Il Payot dà un buon esempio storico dell’indolenza abituale e degli impeti momentanei di tutto un popolo. «Gli Arabi», dice, «hanno conquistato un vasto impero. Essi non lo hanno conservato perchè è loro mancata la costanza degli sforzi con la quale si ordina l’amministrazione di un paese, si fondano le scuole, si creano le industrie». Un esempio più semplice, ma più vicino a noi, è quello offerto dal novanta per cento degli studenti, che tutti gli anni, d’estate, insaccano scienza per passar l’esame, e che, ottenuta la promozione, tornano all’ozio consueto. Un certo numero di essi studenti stanno di mezzo tra gli oziosi e i diligenti: il Payot li dice intenti ad un «lavoro ozioso». Sono quelli la cui attività manca di direzione; «poichè l’energia della volontà si rivela non tanto negli sforzi molteplici, quanto con l’orientazione verso un medesimo fine di tutte le potenze dello spirito. Ecco qua un tipo di ozioso molto frequente: è un giovane vivace, gaio, energico. Resta di rado senza far nulla. Durante il giorno ha letto qualche trattato di geologia, un articolo di Brunetière su Racine, sfogliato alcuni giornali, riletto qualche nota, abbozzato uno schema di dissertazione, tradotto alcune pagine d’inglese. Non un solo istante egli è rimasto inattivo. I suoi compagni lo ammirano per la potenza del lavoro e la varietà delle occupazioni. Per lo psicologo, c’è in questa molteplicità di lavori soltanto l’indizio d’una attenzione spontanea abbastanza ricca, ma non ancora divenuta attenzione volontaria. Cotesta pretesa potenza di lavoro svariato non rivela se non una gran debolezza di volontà».
Fermiamoci qui un momento. Il Payot se la piglia legittimamente contro questo tipo di studente che chiama sparpagliato; ma non pensa che la colpa non è tutta imputabile all’infelice. L’attività dello studente si sparpaglia perchè egli non è capace di concepire e di porre in esecuzione un piano di studî; ma a produrre quest’effetto non ha anche contribuito l’eterogenea molteplicità delle cose che gli hanno dato da studiare? Il Payot parla della geologia, della letteratura e della lingua inglese; ma bisogna mettere nel conto la fisica e la geografia, la chimica e la storia, la filosofia e la botanica, il latino e la zoologia, la statistica e il greco. Diremo noi, come il Payot inclina a credere, che la colpa sia di chi ha compilato i programmi degli studî? La riforma dei programmi eviterà mai questo prodigioso cumulo di discipline? Non dipende esso dal prodigioso accumularsi del sapere umano? E che diremmo di programmi i quali trascurassero la diffusione di parte del sapere? Ecco qua: mentre scrivo, Errico Panzacchi pubblica un articolo, che è molto lodato, per dimostrare la necessità d’impartir nelle scuole l’insegnamento della storia dell’arte, e Ugo Ojetti lo approva, notando come un caso scandaloso che uno studente di lettere ignorasse dove è posta e da chi scolpita la statua di San Giorgio. Non è veramente scandaloso? Non bisogna istituire il nuovo insegnamento? La storia dell’arte, necessaria agli artisti, non è utilissima a ognuno? E, con la storia dell’arte, non vi sono tante altre cose non meno utili e necessarie a sapersi? Tutte le volte che il patrimonio intellettuale si accresce, — e questo fatto accade tutti i giorni, — non è naturale che le nuove nozioni siano partecipate agli studiosi, a tutti gli studiosi? E il patrimonio intellettuale non è di tanto cresciuto, che abbiamo visto la necessità di creare nuove scienze, di conferire la dignità di discipline indipendenti ai rami delle antiche discipline? Non abbiamo creato la psicologia, la statistica, la fisiologia, la sociologia, la biologia, la chimica organica, l’antropologia, la psichiatria, e via discorrendo? Se i cervelli non ci resistono, se le attenzioni più deboli si sparpagliano, la colpa non è tutta loro; la colpa è anche del tempo troppo sapiente, della civiltà troppo progredita in mezzo alla quale sono nati. L’avvocato, il medico, il professore hanno una biasimevole tendenza a vivere della scienza acquistata bene o male durante gli studî; ma, se anche essi volessero, potrebbero seguire tutto quanto il movimento delle loro discipline? Non avrebbero, in verità, neppure il tempo di sfogliare quel che si stampa. Il progresso della scienza è dovuto agli specialisti, a quelli che scelgono un capitolo, un paragrafo, un comma del gran libro dello scibile, e che dimenticano interamente il resto. Dall’altra parte stanno i volgarizzatori enciclopedici, quelli che sanno di tutto un poco e niente a fondo. Noi parlavamo, iniziando questi nostri ragionamenti sopra alcuni caratteri del tempo presente, della rarità delle opere di lunga lena, organiche, metodiche. Guardiamoci intorno: quali sono le pubblicazioni più copiose? Sono le memorie e i giornali. La memoria, che in poche pagine presenta il frutto di anni e anni di ricerche sopra un punto particolarissimo della scienza; il giornale, che sfiora la sociologia, la statistica, l’etnografia, la psicologia, la storia, la letteratura, la biologia, tutte quante le scienze. Il Payot nota bensì il danno prodotto dal giornale; ma non pensa che il giornale prospera appunto perchè soddisfa un bisogno della nostra società; e il bisogno di tutti quanti noi è quello di far presto; ai nostri giorni si corre, bisogna correre, sui tranvai, sulle ferrovie, sui piroscafi o sulle biciclette; bisogna volare col pensiero sui fili elettrici e sulle colonne del giornale. Presto e bene raro avviene, dice il motto; e la mediocrità è naturale conseguenza della fretta. Il trionfo delle velleità sulle volontà, l’esaurimento delle energie ne è un’altra.
II.
E il Payot non tiene conto di un’altra fatalità del nostro tempo, dalla quale anche dipende l’abulia, l’incapacità di volere e di agire. Questa fatalità è il trionfo dell’analisi.
La psicologia dimostra che un atto concepito è un atto cominciato, che fra l’idea dell’atto e l’atto stesso non c’è differenza essenziale. Dobbiamo concluderne che pensiero ed azione sono tutt’uno? In fisica abbiamo un certo numero di forze: la luce, il calore, l’elettricità. Uno studio attento ha portato ad affermare che esse non sono tanto diverse quanto sembrano, che anzi l’una si può mutare nell’altra, e che insomma la forza è unica e varie ne sono soltanto le manifestazioni. Ma che cosa importa questa nozione? Perchè l’elettricità è o può essere calore, diremo noi ad un assiderato di prendere in mano i fili di una corrente elettrica per riscaldarsi? Perchè il calore è luce, consiglieremo a chi non ha candele di mettersi a scrivere dinanzi alla bocca di un forno? Nel mondo delle forze vi sarà unità fondamentale; ma le manifestazioni dell’unica forza sono tanto diverse come se dipendessero da forze realmente diverse. Così nel mondo della materia. Abbiamo in chimica una quantità di sostanze che si possono considerare come risultanti dal diverso aggruppamento molecolare di una sostanza unica, elementare, primordiale; ma il fiele ed il miele, l’acqua e la pietra saranno perciò la stessa cosa?
Altrettanto dicasi del mondo morale. Vedemmo già che la riflessione dalla quale dipende la scienza, e l’ispirazione dalla quale nasce l’arte, sono in fondo tutt’uno: ma vedemmo pure che arte e scienza, non che confondersi, si sono sempre più distinte. L’energia vitale è una sola: non si può agire senza pensare, non si può pensare senza agire; ma ciò non vieta che questi due modi dell’attività umana si distinguano sino ad opporsi e ad escludersi. Chi si butta a capo fitto in una pugna, e dà e riceve colpi mortali, non può risolvere casi di coscienza. Archimede che medita sopra un problema, non solo non fugge all’avvicinarsi del nemico, ma non lo sente neppure avvicinarsi. Ora l’abito di riflettere continuamente, assiduamente, troppo, impedisce, od ostacola la capacità di risolversi, di agire; viceversa l’azione incessante diffusa, febbrile, non è compatibile con la meditazione. Per crederle compatibili, il Maeterlinck ha dovuto dire che agire è «aspettare, tacere e raccogliersi». Appunto uno dei caratteri del nostro secolo, di questo tempo progredito, sapiente, cosciente, troppo cosciente, è la preminenza del raccoglimento, dell’analisi di coscienza, dell’esame interiore, del pensiero speculativo. Quella stessa moltitudine di cognizioni che disvoglia tanti dallo studio per la sua troppa varietà, invoglia altri allo studio; e che altro è lo studio se non riflessione ed analisi? E gli uomini di studio non sono, per l’esperienza che ogni giorno ne vediamo, tutto il contrario degli uomini d’azione? L’infiacchimento della volontà operosa, fattiva, non è soltanto effetto del pensiero riflessivo; ma anche causa. Noi non operiamo molto perchè pensiamo troppo; e pensiamo troppo perchè operiamo poco. I due fenomeni sono ad un tempo causa ed effetto l’uno dell’altro. La guerra contro i simili e contro la natura è la dura legge dei popoli selvaggi: essi non hanno dimora stabile, errano di luogo in luogo come un gregge, si riparano, combattono, agiscono; non pensano, o pensano quel tanto che bisogna per agire. Le società civili, che non emigrano più, che non si dilaniano più — o quasi — che sono assicurate quanto è possibile dai nemici naturali, studiano, meditano, pensano. Cercate un Amiel tra gli Unni: sarà alquanto difficile trovarlo; viceversa gli Attila sono — almeno per ora — scomparsi. Noi non abbiamo grandi cose da fare, perciò pensiamo; e quanto più pensiamo, tanto meno capaci diventiamo di operare.
Il Payot, mettendo come condizione della volontà operosa la riflessione meditativa, nega che tra le due vi sia antinomia. Egli dice che il concetto dell’incompatibilità dipende da una confusione. Azione e riflessione sono incompatibili, spiega, se si confondono gli agitati con gli uomini d’azione veramente degni del nome. «L’agitato è il contrario dell’uomo d’azione. L’agitato ha bisogno d’agire: la sua attività si manifesta con l’azione frequente, incoerente, fatta giorno per giorno. Ma siccome nella vita, in politica, etc., si riesce soltanto per mezzo della continuità dello sforzo in una stessa direzione, quest’agitazione sussurrona fa molto rumore, ma poco o punto profitto. L’attività orientata, sicura di sè stessa, implica la meditazione profonda. E tutti i grandi attivi, come Errico IV e Napoleone, hanno, prima d’agire, lungamente riflettuto». Alle quali osservazioni si risponde che la distinzione fra agitazione e attività è giusta, ma non prova nulla, o ben poco. Certo: fra il pensiero profondo e l’agitazione scomposta e pazzesca c’è opposizione evidente; ma ciò non vuol dire che tra riflessione indefessa e attività fruttuosa vi sia identità. In alcuni grandi uomini, molto rari, che sono per ciò oggetto di tanta ammirazione, pensiero ed azione possono darsi la mano; ma, se è vero che essi sono eccezioni, non bisogna addurli come prova della regola. Il gas dà luce e calore insieme, ma ciò non vuol dire che non vi siano calori oscuri e luci fredde. E poi, se la grandezza dell’azione implica la grandezza del pensiero, la reciproca non è altrettanto vera. Per fare grandi o anche piccole cose, bisogna certo aver pensato poco o molto; ma si può pensare moltissimo senza far quasi nulla. E questo è appunto il pericolo, anzi l’inconveniente lamentato. Suggerire di meditare per agire è inutile, se non dannoso. Non il pensiero ci fa difetto; al contrario: noi pensiamo troppo. A chi affoga non pare che sia da offrire un bicchier d’acqua.
È vero che il Payot consiglia la riflessione meditativa come mezzo di affrancarsi dai pregiudizî, di confutare i luoghi comuni del pensiero volgare, pigro e fiacco, di eccitare nell’animo gagliardi impulsi e vivaci repulsioni. Non è possibile, in questo senso, negare l’efficacia dell’abito riflessivo. I cretini e gli apati non riescono a far niente. La grandezza del pensiero interiore è condizione delle grandi cose, dei grandi fatti; ma il pensiero può esaurirsi sterilmente, inutilmente; e l’abuso è da evitare.
Altro punto della quistione. L’energia della volontà non è possibile in un corpo debole: l’educazione dev’essere dunque non soltanto intellettuale e morale, ma anche fisica. E questa cosa è certa. Certa cosa è pure, come nota il Payot, che non bisogna confondere la salute con la forza muscolare, e che gli esercizî violenti in onore presso gl’Inglesi e gli Americani sono tanto criticabili quanto lodevoli i razionali esercizî ginnastici ai quali si dà la gioventù svedese. «Le grandi vittorie umane non si guadagnano più in nessun luogo coi muscoli, bensì con le scoperte, con i grandi sentimenti, con le idee feconde: e noi daremmo i muscoli di cinquecento lavoratori della terra, più quelli totalmente inutili di tutti gli uomini sportivi, per la poderosa intelligenza di un Pasteur, di un Ampère o di un Malebranche». Ma la quistione è appunto questa: che il numero dei pensatori, o più semplicemente degli individui pensanti, tende sempre a crescere; e se i Pasteur, gli Ampère, i Malebranche sono rari, numerosissimi sono invece gl’infelici che pagano col nervosismo, con la neurastenia, con la rovina della salute, l’abuso delle facoltà intellettuali. «È cosa evidentissima», dice il Payot, «che l’ufficio della forza muscolare diminuisce di giorno in giorno, poichè l’intelligenza la sostituisce con le forze incomparabilmente più potenti delle macchine; e da un’altra parte la sorte degli uomini dotati di muscoli possenti è di essere assimilati sempre più alle macchine...». Ma, se l’ufficio della forza muscolare diminuisce di giorno in giorno, diminuisce per conseguenza la stessa forza: un organo non adoperato s’indebolisce, una forza non esercitata si perde. E questo è il danno del quale siamo spettatori: nelle vene della classe pensante e dirigente scorre un sangue pallido; i suoi muscoli sono flaccidi, i suoi nervi troppo impressionabili. Non è sempre vero, come afferma il Payot, che «la debolezza corporea va accompagnata con la fiacchezza della volontà, con la brevità e il languore dell’attenzione». Se ci fosse bisogno di addurre esempî per dimostrare come una mente altissima, un’intelligenza sovrumana, un’anima miracolosa possano sussistere in un corpo stremato ed agonizzante, basterebbero gli esempî del Leopardi e dello Spinoza. La sensibilità, l’immaginazione, tutte le facoltà che dipendono dal sistema nervoso, sono grandi, squisite, straordinarie, a costo troppo spesso del sistema nervoso, del suo equilibrio, della sua salute. Questo fatto dà appunto ragione della teoria lombrosiana sulla nevrosi del genio. Vedete: ciò che si chiede è una generazione capace di volere, di volere fortemente, indefessamente; orbene: Vittorio Alfieri, per aver voluto in questo modo, è stato ascritto, forse non senza ragione, tra i psicopatici.
Ma, lasciando stare i genî e la psicopatia, guardando la media umanità, noi vediamo che l’abuso delle facoltà mentali corrisponde alla depressione della volontà e allo squilibrio nervoso. Dallo scoppio dell’epidemia romantica sino ai nostri giorni il danno è andato crescendo. Esso è fatale, è lo scotto che bisogna rassegnarsi a pagare.
III.
La qual cosa non vuol dire che i tentativi per ottenere qualche temperamento siano biasimevoli. Il Payot avverte accortamente che un grande ostacolo all’impresa dell’educazione della volontà è nelle teorie del determinismo e del libero arbitrio. Esse sono diametralmente opposte, ma fanno male egualmente. I deterministi, sostenendo che l’uomo non è capace di fare ciò che vuole, o meglio che egli vuole ciò che deve volere, che la sua libertà è illusoria, che tutti i suoi atti e tutti i suoi pensieri sono rigorosamente prescritti, alimentano la sfiducia generale, una sfiducia fatale. Bisogna negare questo determinismo per poter attendere ad affrancare, a liberare la volontà. Così noi abbiamo veduto che Sully Prudhomme, determinista, finisce con l’essere fatalista; mentre il Maeterlinck espressamente afferma che «il carattere è ciò che più facilmente si modifica in un uomo di buona volontà». Ma se l’opera della padronanza di noi stessi ha fondamento sul concetto del libero arbitrio, questo può riuscirle, e le riesce infatti pericolosissimo, facendola credere troppo facile, semplice e naturale. «Alla formula del Fouillée», dice il Payot «secondo la quale l’idea della nostra libertà ci fa liberi, il Marion oppone precisamente questa affermazione più praticamente vera ed utile: che, stimandoci liberi, noi omettiamo di assicurarci di quale e quanta libertà possiamo godere... La libertà morale, come quella politica, come tutto ciò che ha qualche valore in questo mondo, dev’essere conquistata lottando, e continuamente difesa. Essa è la ricompensa dei forti, degli abili, dei perseveranti. Nessuno è libero se non merita di esser libero. La libertà non è né un diritto, né un fatto; è una ricompensa, la ricompensa più alta, la più feconda di felicità...».
Abbiamo detto nel precedente capitolo come il Dugas consigli di combattere il vizio dei timidi; la conquista della libertà morale, l’educazione della volontà è un’impresa molto simile e per certi rispetti quasi identica. Questa è la ragione per la quale il Payot consiglia lo stesso metodo del Dugas a coloro che egli chiama abulici, e che noi diremo svogliati, nolenti. Come quel timido che ricorreva alla cocaina per dar fermezza al proprio sguardo, chi vuol vincere il torpore fisico o intellettuale, o domare le eccitazioni dei sensi, può adoperare qualche farmaco; ma su questi mezzi fisiologici il Payot riconosce che non vale la pena di fermarsi. Egli si ferma sui mezzi morali, e ricorre, come il Dugas, all’autorità del Pascal, non che di Ignazio di Loiola, i quali raccomandano gli atti esteriori della fede come espedienti molto adatti a far nascere nell’animo il sentimento corrispondente. Tuttavia a questo processo il Payot non attribuisce un’efficacia unica e illimitata. Noi non possiamo qui seguirlo in tutta l’esposizione dei mezzi diretti a compiere l’affrancazione della volontà. Egli comincia col dimostrare la qualità sentimentale della facoltà volitiva, quindi afferma la necessità di coltivare gli stati affettivi; enumera poi i benefici effetti dell’attenzione e dell’azione che, con l’aiuto del tempo, diventa consuetudine; non che gli effetti funesti delle illusioni, dei sofismi. Abilmente espone tutte le difficoltà che si oppongono all’educazione della volontà, ma spiega come si possano vincere, e come le nostre stesse disfatte non siano inutili, poichè ci scottano, ci ammaestrano e ci preparano ad ulteriori trionfi. Le sue dimostrazioni, se anche non fossero feconde di pratici risultati, sono almeno confortatrici; se non ci dànno la possibilità di affrancarci, ce ne dànno l’illusione e la speranza. E in questo nostro tempo di colore oscuro, pieno di gemebondi predicatori della sciagura universale e irreparabile, di cogitabondi solutori di problemi insolubili, di critici dilettanti ed impotenti, non è piccola cosa.
FINE.