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ALL’ILLUSTRISS. ET REVER.


GRAN CARDINALE

ALLESSANDRO FARNESE.

PROEMIO.


AA
Ancor che ne’ seculi passati (Magnanimo Farnese) alcuni di elevatissimo ingegno, & altri ne’ tempi presenti habbino scritto della natura de’ cavalli, del farne scelta, del governo, delle infirmità, delle cure, rimedij, e della disciplina loro; tuttavia à me pare, che nessuno fin à quest’hora, nè antico, nè moderno habbi trattato questa materia compitamente. Per che se ben ne scrissero, fu sì poco, che non molto a’ posteri ha possuto recare & utile & diletto, havendo un solo, sol d’una, ò di due cose scritto; & l’istessa brevemente. Come si vede haver fatto Aristotile nel suo libro della natura de gl’animali. Plinio nell’historia naturale, & altri antichi. Tra i quali giudico che Xenofonte ne habbi trattato più diffusamente, e meglio di tutti gl’altri nel suo Hippico, & Hipparco. Ma ne anc’esso con quell’ordine, che si desidera in tutte le sopradette cose; & che à ciascuno, & massime à cavalliero, molto assai possi giovare. Vegetio, & molt’altri antichi ragionando copiosamente delle infirmità, e delle cure de’ cavalli, poco, ò nulla, di dire altro si curorno. Il medesimo hanno fatto alcuni a’ tempi men remoti; li quali mentre furono intenti à scrivere d’una cosa, lasciorono l’altra. Oltra che quelli, c’hanno scritto a’ tempi nostri à me non pare, che habbiano scritto il tutto, ne con quell’ordine, & chiarezza, che si desidera. Essendo non dimeno la cosa in se molto degna, & necessaria. Come pienamente dall’uso d’essa si può vedere: & vedrassi nel successo del parlar mio. Da qui viene (Prencipe Illustrissimo) ch’io ho preso ardire à scrivere di tutto quello insieme, con ordine distinto, & chiaro, quale à materia di cavalli, & à buon cavalerizzo s’apartiene. E non già perch’io giudichi le mie forze superiori à quelle di così [p. 1v modifica]celebratissimi homini, & honorati cavallieri, ma, perche essendomi affatigato molto non solo nell’arte di cavalcare, ma delle lettere ancora, & trovato molte cose da farne stima; m’è parso di notare il ritratto d’alcuni miei studij, & fatiche in questo libro nella lingua nostra commune Italiana, accioche ciascuno mediocremente instrutto possi intendere agevolmente con questa lettione molte cose belle, & utili scritte; & sparse in diversi auttori Latini, Greci, & Italiani di simile suggetto. Non curandomi di toscanizzarlo, per esser’io Lombardo, & per sapere che à Theofrasto avenne, che per voler parlar troppo Atheniese, fu scoperto da una semplice vecchiarella per non Atheniese. Et benche il peso sia (per vero) assai maggiore di quello, che le mie forze possino tolerare; & ch’io mi conoschi essere molto dissimile dal caval Sofocleo, ancor che vecchio hormai: anzi mi veda picciol manno, al quale s’apartiene assai minor viaggio, non di manco mi confido, che per lo più, sogliono i piccioli ronzini haver animo grande; & far di se maggior prove di quelle, che l’aspettation de gl’homini non pensa. Hor l’ordine che teneremo nel presente libro, il qual piacemi d’intitolare il Cavallarizzo, sarà tale che diviso in tre capi principali, nel primo si ragionerà della natura de’ cavalli, del modo di tener razza, dell’alevar poledri, del farne scelta, del governo loro, e di molt’altre cose utili, & necessarie circa questo: Nel secondo ragionaremo del modo del cavalcare, e di frenare, e d’altro à questo, & al cavalliere appartinente: Nel Terzo, & ultimo diremo quello, che à bon cavallarizzo si conviene: lasciando à dietro quella parte del medicare, e di ferrare, come propria (secondo il mio giuditio) del marescalco, e del ferraro. Ma perche so che come è sempre stato, non mancheranno molti, li quali volendosi dimostrare più giuditiosi nel riprendere le cose altrui, che nelle operationi loro, biasmeranno questa mia fatica, voglio che sappino, che poco importano i lor biasimi, considerato che i ciechi non hanno à giudicare de i colori. Oltra che ben so io che non si pò trovare alcuno; che habbi voluto giovare al mondo con i suoi scritti, che non sia stato sottoposto alle calonnie de’ Momi, & che habbi possuto fuggire le acute punture de’ posteri, e de’ presenti. Il che ci dimostrano gli scrittori elegantissimi, li quali se ben hanno scritto in modo da non essere incolpati in parte alcuna, non dimanco in molti luoghi dalle liture (per cosi dire) & tassationi de gl’Aristarchi sono biasimati, & guasti. Riprendendo [p. 2r modifica]questi per troppo digiuno, e secco, l’oratione di quell’altro per aver più pelle, che carne; quelli per essere nel dire troppo oscuro, & affettato, & quell’altro troppo humile & basso, à rispetto di quello pieno d’ampolle, e di vesiche di vocaboli esquisiti, troppo gonfio & elevato; così come anco in questi lo stile troppo languido, & senza nervo. Non ritrovandosi in somma nessuno che da i denti dell’invidia non sia morso, & lacerato; & quel ch’è peggio non solo questo è prerogativa d’huomini eruditi, ma de gl’ignoranti ancora, e di quelli che mancano di giudizio, & arte. Di modo, che si pò dire, che i cani, che si chiamano Guzzi, & mastini ancor essi vogliono con quelli da caccia nasar la fiera. Et le capre vogliono havere il naso del rinocerotte, Et che cosa pò esser peggiore? Peggio anco è, che molte volte non possendo, nè sapendo tassare gli scritti, biasimano gli auttori stessi, nella vita, & fama loro. Ma in vero s’ingannano perche all’ultimo più ferite, & ponture riceveno essi, e si danno da se stessi, che lor diano à gl’altri. Ma per venire al particulare, e parlando di me proprio, s’alcuno troppo nasuto mi si opponesse, dicendo ch’io voglio dar precetti del cavalcare, e di tant’altre cose insieme, non havendo però mai fatto cavallo alcuno di fama grande, come hanno fatto, per il tempo andato, & fanno al presente alcuni cavalcatori, & cavalieri eccellentissimi. Et ch’io per ciò non sono stato mai in quella stima che habbia meritato servire à Re, & Imperatore. Et s’altri parimente dimostrandosi più teneri dell’honore, e dell’utile mio, & più gelosi della salute altrui, che della loro; dicessino ch’io farei meglio cercar per altra via dell’oro, e dell’argento, che col cavalcare; & col comporre materia di simile soggetto; pascendomi per questo di vento, & di fumo vano. Risponderei primieramente, ch’egli è vero ch’io non ho servito nè à Re, nè à Imparetore, ma sì bene à Prencipi grandi; & à voi massime grandissimo Farnese, che se non havete titoli tali, tenete il nome, & fatti di Cardinale, che forse non è meno. Et quel che per titolo vi manca, la virtù, & il valor vostro vi fa haver per merito. Et perciò il mondo non vi devria adorar per meno, ne vi adora, da che l’eccellentissime parti, le quali in quelli si desiderano, in voi solo tutte risplendono. Direi ancora che s’io non ho servito à tali, si deve haver riguardo non meno al destin mio fatale, che al merito delle persone. Sapendosi pur troppo chiaro, che questi honorati gradi non si danno hoggi mai secondo il merito delle virtù, [p. 2v modifica]ma secondo il van volere de gli uomini. Anzi della virtù vien detto Povera & nuda vai Filosofia. Come che da per se sola sia abondante, sia ricchissima, sia sol quella, che feliciti l’homo la virtù. Ma vorrei, che mi dicessino questi calonniatori se si persuadeno, ch’io non sappia; ò se pur sanno ch’io so, che dove è meno d’intelletto è più di fortuna? E che per questo ha più giovato, & giova la sorte, che’l sapere? E più la credenza de gl’homini goffi, fondata sopra una lor certa falsa opinione, che sopra alcuna vera ragione? Guidate però ambe le parti dal destino. Il quale quanto importi ne’ beni di fortuna lo lascio giudicare à chi sa: & à chi ne ha fatto isperienza per quaranta & otto anni ch'io son al mondo, & travagliato com’ho fatt’io. Et certo è vero, che la fortuna ogni cosa signoreggia. Nè pò prudentia humana à quella opporsi. Rispondo ancora, che molti cavalli han’fama d’esser boni, che poi per vero poco vagliono. Come di molti per essempio io potrei dire, senza partirmi di Roma, se non fusse mio costume di non voler macchiare la fama d’alcuni gran comperatori, & maestri del cavalcare. S’io non hò fatto dunque così famosi cavalli, dirò prima che poco importa d’intorno al caso; e che se così fusse sarebbe stato per non haver hauto soggetto atto à questo. Che come si dice la forma nobile non s’introduce già mai se non in materia ben disposta. Ne mi si opponga l’esser’io stato cavallarizzo vostro; che havete sempre hauto razza bona, & cavalli eccellentissimi, ch’io risponderei che la mia sorte in quel brevissimo tempo, che dimostrò volermi felicitare al mondo, col farmi degno che un sì grande, e compito Prencipe si degnasse del mio servitio, nell’istesso mi ruinò in un subito, col non darmi pur spatio d’andare, & ritornare in Francia in suo servitio. Cosa notissima à ciascuno, che mi conosce, senza ch’io dimori pur tantillo à ragionarne. Oltra che e si sa pure di che maniera io habbi hauto i cavalli, in che guisa, & in che breve tempo i gl’habbi fatti. Ma io desidero più oltra sapere da questi tali, se l’Architettore è quello, che fa la fabrica, ò il muratore? Se’l Fisico compone le medicine di man propria per gl’infermi, ò lo spetiale? Overo se chi ha scritto ottimamente dell’arte militare, stratagemmi, e di duelli, come il Mutio, l’Alciato, & altri, fu necessario per questo, che in effetto fossero soldati duellanti, & capitani? E se lor credeno, che sia meglio il saper fare, del saper ben commandare? Certamente nò, ch’io creda, sapendosi pur troppo chiaro, che Vitruvio non [p. 3r modifica]imbrattò già mai le mani nella calcina per murare, ne Giovan Damasceno, ò Mesue, che se li dica figlio, over nipote di Re medico celebratissimo giamai compose di man propria medicine per gli infermi. Ne il Garimberto, con gl’altri, ch’io v’ho detto fu giamai non che general capitano, ma semplice soldato, che si sappia, & ha nondimeno dimostrato pur hoggi alla militia prudentemente qual debbia essere l’Imperatore, de gl’eserciti. Cosi quegl’altri lasciorno à noi gl’ottimi ordini ne’ suoi scritti del fabricare, e del medicare. Il perchè di tanto si lasciano di fama à dietro questi, che hanno dato al mondo cosi bellissimi precetti, quei muratori, spetiali, & gl’altri, quanto di più eccellentia sono gl’homini veri de i pitti, i dotti delli ignoranti, i Signori de i servi, & i prudentissimi capitani de i lor semplici soldati. Per il che di assai più fama fu Giuliocesare per i Commentarij suoi, che non fu forse per per le vittorie acquistate, & più per il sapere, che per il fare, da che questo da che quello derivò sempre. Il che dimostrò ben Marco Tullio, che non voleva, che s’imparasseno l’armi, dove tacevano le dottrine, perche dalla cognitione delle lettere, e dalle historie sì come da fonte abondantissimo procede il saper ben militare. Et credo che anco per il sapere più acquistasse, & di più fama fusse il Magno Allessandro che per l’armi, solendo dire voler più tosto avanzar gl’altri con le discipline, che con le ricchezze. Et però un’altro re famoso disse, che da i libri, & l’armi, & le ragion dell’armi havea appreso, & perciò alle lettere essere più tenuto. Posso dunque ben io senza haver fabricato questi gran palazzi, senza haver composto di man propria queste lor medicine, senza esser soldato havere scritto precetti da cavallieri, & in somma senza haver fatto questi, che lor dicano famosissimi cavalli, haver composto questa mia fabrica, sotto il cui tetto potranno per aventura agratiatamente albergare1 ancor loro, s’io non mi inganno. Horanco, ch’io potrei fare senza rispondere à quelli così teneri dell’honore, & dell’utile mio, & si gelosi della salute altrui, conoscendosi apertamente, che il lor consiglio è intempestivo, & senza sale, & non senza alcun livore, vò nondimeno, che sappino, che l’arte d’un vero cavalerizzo è eccellentissima, & utilissima, & veramente degna d’essere abbracciata, & tenuta molto cara. Della quale non si sdegnarono i Re & gli Imperatori delli esserciti essere, & farsi chiamar maestri & domatori de’ Cavalli. Come del Re Pico si legge nel settimo, nel nono, & altrove dell’Eneida. Picus equum domitor. Et di [p. 3v modifica]Mesàpo medesimamente. At Messàpus equum domitor. Et con epiteto bellissimo volendo Virgilio lodare il famoso Achille nel secondo pur dell’Eneida disse, Equorum Agitator Achillis. Famosi furono molto nel cavalcare Glauco, & Iado appresso il medesimo Virgilio nel duodecimo dell’Eneida, & famosissimi furono li dui Massimi Imperatori Alessandro Magno, e Giuliocesare. Ambi li quali furono di tanta eccellentia nel cavalcare, e di quest’arte si dilettorono tanto che in essa ferno opere miracolose, & sopra humane: & oltre à questo vedete quello, che disse Tito Imperatore delitie del mondo, quand’hebbe liberata la Grecia, come scrive Plutarco, attaccando li scudi, & la sua rotella in Delfo; volendo lodar molto cotal arte, & per essa quelli che se dilettano: li fece scrivere in sentenza questi versi.

Stirpe chiara di Giove,
Di Tindaro figlioli, ò Re Spartani,
À cui dal Ciel vien dato
il regger, & domar cavai feroci.

Ma leggansi pur Historici, Poeti, & Filosofi, & vedrassi se gli è più che vero, quel ch’io dico. Ne è Prencipe hoggi al mondo, che non si diletti di farne particolar professione. Per il che se i Maestri, che insegnano à’ fanciulli, & à gli huomini le lettere, & le altre arti, ancora, sono da essere istimati molto, devriano anco i Maestri d’essa, che con vocabolo più proprio, & scelto si chiamano Cavallarizzi, essere certo in gran credito appresso à ciascuno, quando questi à cavalli ferocissimi insegnano essere mansueti, & i mansueti fanno audacissimi, & gli audaci, & incitati in un subito al corso, & ai salti insegnano con bellissimo modo incontinente di ritenersi, & di fare tante, & tante altre cose, che lungo sarebbe hora, & di soverchio il raccontarle, & tutte però fatte per l’utile diletto, & honore dell’homo. Al quale tanto di più dell’altre arti recano fama, honore, & riputatione; quanto più si vede chiaramente, che sono honorati i cavallieri de i plebei, & di quelli, che titolo di cavallieri non hanno. Et veramente di maggior lode al mio parer sono degni i professori di quest’arte di quelli, che insegnano l’altr’arti al mondo, quanto che gl’homini, che imparano hanno intelletto con la ragione in eccellentia, & hanno lingua da isprimer li loro concetti, che i cavalli non l’hanno, li quali se pure intendono, & hanno ragione in se, come vogliono molti, che habbino, & io mi sforzerò di dimostrare al luogo proprio, come, possino nondimeno communicarla, & [p. 4r modifica]farla palese à noi, che gl’ammaestriamo in tante guise senza loquela? Et noi come possiamo far intendere loro i concetti nostri, & ciò che da loro desideriamo con l’efficacia del parlare? Grand’arte è questa adunque, la quale s’insegna con gran fatica, maggior pericolo, & molto piu intelletto. Et perciò è degna veramente da essere istimata molto, se non vogliam dire, da anteporsi all’altre. Dell’utile della quale grandissimo, che ne deriva, non solo à Prencipi, & Cavallieri, ma à ciascuno, mi riserbo à parlarne in un’altro luogo più al proposito. Ma del giovamento grande, che reca à maestri d’essa; massime quando viene accompagnata da tutte quelle parti, ò della maggiore, che dirò poi nel terzo libro quando tratteremo di quello, che à buon Cavallarizzo s’apartiene; sarebbe fuor d’ordine volerne hora ragionare; vedendosi manifestamente à che sublime grado, & di ricchezze, & d’honori asceseno a’ tempi nostri Cesare Ferramosca, & Don Ciarles della Noia col favor d’essa appresso Carlo Quinto Imperatore. Lascio stare infiniti essempi più moderni per non difondermi tanto, & perche gia si sa, che era prima il cavallier Tommaso Mantuano, & il Commendador fra Prospero Ricco Milanese, & chi dipoi furno per quest’arte, & voi il sapete liberalissimo FARNESE che havete sporto à tutti due largamente, al Tomasso, perche nella corte di Francesco Re di Francia insegnava al Duca Horatio vostro fratello; & al Commendador fra Prospero per esser stato vostro cavallarizzo, & maestro del cavalcare. Il quale non solo con la commenda, & con tant’altre rendite havete, non che arricchito, & honorato, ma insignorito ancora. Quest’arte adunque utilissima pare, & essere si comprende, quanto a’ beni di fortuna. Ma non conosco meno trappassando al rimanente, che sia se non giovevole, & di gran profitto quanto al corpo, come l’isperienza maestra delle cose ci dimostra per quelli, che l’hanno essercitata come si deve, & chi l’essercita, & io confesso dal canto mio, che havendola prima per gli studij tralasciata, & poi per quelli havendo guasta la complessione, riassumendola me l’ho in parte racconcia. Et confesso ancora come ogni fiata, ch’io per pochi giorni tralascio il cavalcare, sentirmene infermo, & malenconico. Aetio dice, che l’uso di cotal arte sopra tutti gl’altri essercitij fortifica lo spirito, & tutto il corpo, & massime lo stomaco, purga i sensi & li rende assai più acuti, & allegri. Ne meno so comprendere che quest’arte nobilissima, & honestissima facci danno alcuno all’anima, [p. 4v modifica]usata però come si richiede, non essendo vietata, & essendo nel numero dell’arti buone, piena tutta di destrezza, bellezza, misura, & ingegno, & che reca utilità grande, non solo in particolare à ciascuno, ma in generale alle città, à gli stati, alle Republiche, a i Regni, & à gl’Imperij, fin della quale è, & deve esser questo, & perciò annoverata da quelli, che veramente vogliono teologizare, & non cavilare, tra le attioni buone, ò come dicano indiferenti. Quanto al comporre poi di quest’opera dico, ch’io non l’ho composta pinto da forza di vanagloria, & da cieca opinione di me stesso, nè meno per acquistarne oro & argento, havendo io sempre dispensato il mio largamente, & rifiutato anco gl’honori, & le rendite, come il ritratto della vita mia, & gl’amici miei ne possono far fede, & ho pregato Iddio sempre che al viver mio non dia, nè richezze, nè povertà, ma solo le cose necessarie, oltra le quali mai l’animo mio è trapassato, nè trapassa riputando nelle ricchezze essere difficil molto schivar la superbia & altri vitij, & nella povertà molto incommoda, & malagevole la vita, oltra che ben so io, che nè con questa io nè acquistarei, nè col fumo del grido de gl’homini io vivrei, ma solo l’ho composta per desiderio di giovar al mondo nel miglior modo, che la Iddio mercè mi ha fatto gratia di posser giovare, & se non giovo, assai è haver voluto, considerato nella peregrinatione di questa vita humana, noi non siam nati solo à noi medesimi, ma alla comune utilità de gli altri: considerato oltra di questo, che nella gran casa del Magno Iddio non solamente s’offerisce l’oro, & l’argento, ma il rame ancora. Il che non è da disprezzare, che la povera vedova non poss’altro nel gazofilaccio, che una picciola monetina di cotal metallo, la quale fu nondimeno molto accetta, & per avventura più dell’oro, & degl’incensi, che offerivano gl’altri, se perchè diede quel che potè, come perche l’offerta venne dal core. Et col talento che Iddio per sua gratia m’ha donato, ho cercato di fare usura, & non di sepelirlo, come fece il servo pusilanimo, & dapoco. Et se ben pare, che alcuni altri talenti, & doni io li habbi ascosti, & sepelliti non è però, che così sia quando per ragionevoli cause io per certo non gl’habbi possuto usare. Et questo basti, atteso che l’homo non è obligato à dire tutte le cose sue, & quelle, che lui sa, ma si bene à celarne, & tacerne molte. Oltra che io credo senza dubbio alcuno che la più parte delle mie ragioni sia nota hormai & chiara, & se non à tutti à una gran parte almen d’homin sinceri, [p. 5r modifica]& sapienti. Non mi sono curato ancora in partorirla à guisa d’orsa, che leccando ridduce il parto à perfetta forma, ne mi sono affaticato in tritarla così pel minuto, & tesserla cosi per lo sottile come fanno molti, sapend’io bene, che Palade fu sempre nemica di chi tesse di fila sì sottili la sua tela, come di arragne. Nè ho fatto molta stima del consiglio di Platone nelle sue leggi, benche divine; nè di Quintiliano, nè di Horatio circa quel che vogliano da chi vuol mettersi al sindicato col dar fuora i frutti dell’intelletto. Ma istimando poco il biasimo, che per questo d’ignorantia me ne havrebbe possuto avenire, à rispetto dell’utile, ch’io possevo fare, & del resto che pur hora da noi è stato detto, senza aspettar, che siano più maturi i frutti di questo mio giardino, senza più dico voler limare questa mia opera, m’è parso di darla fuora. Volendo anco in questo esser più tosto biasimato da molti dotti, per poco accorto, & considerato, che da molti amici, che à ciò fare m’hanno spinto, & pregato,esser tenuto mal amorevole, tenendo io per fermo, che se li miei riprensori havranno punto di gusto mal sano, non gli dispiacerà l’acerbo d’essa, ma s’eglino havranno qualche poco di stimolo di giovar al publico, daran’anc’essi fuor alcun’opera del medesimo soggetto, la quale possa, & debbi maturare, & emendare il fallo di questa mia. Per la qual cosa io verrò in ogni guisa ad ottenerne l’intento mio, che è di giovar al publico; havendoli io incitati à far quello, che per aventura fatto non havrebbono, quando quest’opra stata non fusse. Et da qui vedrassi poi se le lor lingue saranno migliori a i fatti che alle parole, & color che riprendono, de i ripresi. Resta ch’io hora risponda à quelli che non per detraere à quel ch’io scrivo, ma perche sanno, & desiderano di sapere, diranno me haver vestito il libro di veste altrui, e dico che non è male facendosi commoda, & attamente. Anzi di ciò mi lodo, & ciò che sappino per esser grato à chi si deve, che nello scrivere di quest’opera mi sono servito d’Aristotile, di Plinio, di Senofonte, di Lorenzo Roscio, anzi d’un originale, dal quale ciò che di buono scrisse, tolse sue. Ho cavato ancora da Pietro Crescentio, da Alberto Magno, da Columella, da Varrone, da Palladio, da Nemesiano, da Plutarco, da Horatio, da Virgilio, & da molt’altri, che lungo sarebbe il raccontarli, & nel successo del libro chiaramente si potrà vedere. Nè perch’io mi sia servito di sì preclari auttori, deggio essere ripreso, se prima i riprensori non riprendino? & Senofonte, che quel di Simone Ateniese [p. 5v modifica]niese traspose nel suo Hippico, & Hipparco, il quale fu il primo secondo alcuni à scriver dell’arte equestre, benche Plinio dichi esser stato un cert’homo Harmeno. Devesi anco riprendere Virgilio, che non solamente rubbò Teocrito scrivendo la Bucolica, ma Esiodo nella Georgica, & Homero nell’Eneida. Per il che così ben per questo gli converrebbe il distico che lui fece in morte di Ballista, come anco ad infiniti altri, & antichi & moderni scrittori. Il distico è questo.

Monte sub hoc lapidum tegitur Ballista sepultus
Nocte dieq: tutum carpe viator iter.
Li quai versi dicano questo.
Sotto il monte di pietra, che qui vedi
Sta sepolto Ballista; Hor và securo
Giorno & notte viatore dove vuoi.

Et così ancora devrebbeno essere ripresi molt’altri gravissimi scrittori, che il simile hanno fatto, ma perche han fatto bene non meritano riprensione, ma lode grandssima, & io perciò, & anco perche non confidato nel mio proprio sapere, nè vergognandomi di dire in un sol libro quel, che in infiniti, tanti bellissimi intelletti hanno sparso, & detto; ho fatto che ciascuno possi agevolmente leggere quel che di bono lor dicono in simile soggetto, meritarò biasimo, & non più tosto lode? Non sia vero, & massime confessando il furto, se furto si pò dire quel ch’io porto in mano, confesso apertamente, di chi egli si sia, nè tacerò di confessare, che non solo nello scrivere mi sono servito d’alcuni auttori moderni ancora, ma etiandio del bon giuditio d’alcuni miei predecessori cavallieri, che furno veramente nell’arte del cavalcare eccellentissimi, & senza pari. Et questi riduco in pochi, in Messer Evangelista Corte de i miei di Corte, del quale la fama è sì grande ancora, & così fresca per l’infinita virtù sua, ch’io non credo, che sia mai in alcun secolo per scemarsi, benche di questo io non ne habbi notitia che per alcuni soi pochi scritti, che mi lasciò mio padre, per esser lui morto poco avanti al nascer mio. In Messer Giovanangelo da Carcano gentilhomo Milanese, & in M. Giovanmaria della Girola, così detto, ma de i nobili di Corte di Pavia; il quale fu mio padre, & maestro, ma discepolo, e nipote del suddetto Evangelista. Fu Cavallarizzo il padre mio in quell’età felice, nella quale i cavalli erano veramente boni, & i boni Cavallarizzi erano in grande stima, & benissimo remunerati, di questa regalissima, & non mai bastevolmente [p. 6r modifica]lodata Donna Isabella d’Aragona, figlia che fu d’Alfonso il guercio Re di napoli, & Duchessa di Milano. Della cui divinissima Signora essend’io paggio nel numero di ben trentacinque altri tutti nobili, appresi i principij, & la maggior parte di quel ch’io so, & scrivo. A questo aggiungo havermi giovato ancora il buon giuditio d’alcuni Cavallieri amici miei, & massime quello del molto magnifico Messer Horatio figlio del capitano Mutio Muti, il qual’Horatio nelle bone lettere, & altre virtù è molto raro; & quello ancora del Commendador fra Prospero cavallier certamente degno di molte virtù, & con pochi pari al mondo nel cavalcare, il quale fu paggio anc’esso in quel bel numero de i trentacinque, che habbian detto, & hebbe per zio, & maestro il suddetto Messer Giovangelo,& anco il padre mio, & come dissi fu molto bene riconosciuto da voi magnanimo Signore. Et perche questo? se non perche intendendovi tanto ben voi di cavallaria, & per isperientia, & come dicano, per teorica quanto altro Prencipe ò ecclesiastico ò seculare vivi al mondo, vi dilettate di ben premiare & istimare i valorosi in quest’arte. Resta hora solo, ch’io rendi conto perche più tosto habbi voluto intitolare à voi questo mio libro, che ad altro Prencipe, che sia, ò ad altr’homo vivente. Ma prima anco, ch’io venghi a questo m’occorre dire un costume di gente, antichissimo. Era appresso ad alcune nazioni costume molto osservato, che mai alcuno non lodava il vivo con pigliare le lodi, gli essordij & narrationi nel lodarlo dal sangue, & fatti de gl’antichi soi, ma dalle virtù & vita di colui, che volevano lodare, costume veramente bello & ben considerato, da che non la nobiltà de’ nostri maggiori, & le lor lodi sono quelle che ci faccino veramente nobili & ci rendino meritamente lodevoli, ma le virtù proprie, & la nostra propria vita. Seguendo adunque questo santissimo costume non starò a dire ch’io perciò ve lo intitoli; perche s’io risguardo alla grandezza de gl’avi, & maggiori nostri, non trovo Prencipe, che vi avanzi, essendo del ceppo illustrissimo di casa Farnese usciti, & Confalonieri di Santa Chiesa, Capitani generali, Duci, & Signori eccellentissimi, come fu il Signor Rainuccio, zio dell’Avo vostro, & il padre nostro, il quale militò gran tempo da cavallier valorosissimo per Capitano di gente d’armi di Cesare, sotto la disciplina del gran Prospero Colonna, allhora Generale in Italia di Carlo V. & dipoi venne à quel grado di esser Duca non solo di Castro, Stato antichissimo di casa vostra, ma di Parma, & [p. 6v modifica]di Piacenza; essendo anco prima fatto dal detto Carlo Marchese di Novara. Ma questi sono beni di fortuna, al cui arbitrio stà di darli, & torli, laqual anco fece ogni sforzo di torgli quelli dell’animo sì generoso, così invitto, & così bello; ma non pote, se bene si troncò lo stame, perche vive, & viverà al dispetto di morte, eternamente immortale. Ma chi potrebbe dire i fatti illustri d’un’altro Signor Rainuccio vostro zio? Il quale giovinetto di diciott’anni fu Capitan di cavalleria di Clemente VII. & militò si strenuamente, & con tanto giudicio, che ben sarebbe asceso al grado supremo della militia, se le parche non gli fossero state invidiose. Successe à questi il Duca Ottavio vostro fratello, le cui virtù preclare, & fatti illustri non hanno mestieri di poema, nè di storia, che da se sono chiari al mondo, alquale per più; prima s’aggiunse in matrimonio la gran Margherita d’Austria figlia di Cesare. Che più si può dire? Non pon freno ella, & dà leggi hoggi alla Fiandra? Non è ella sorella di Filippo Re di Spagna? Non basta questo? Non ha ella l’animo di santissima religion pieno? di giustitia, & di prudenza? Ben l’hanno sentito gl’infedeli à Christo, & al suo Re, Fiandresi, & sentano. Saria gran cosa, che questo, se per via de’ vostri io vi volevasi lodare; aggiungendovi il gran valor & sapere della felice memoria del Duca Horatio, pur vostro fratello, giovane invitto, & Capitano valorosissimo; & tanto per le divine virtù sue, accetto, prima à Francesco, & poi ad Henrico Re di Francia, che gli diede per sposa un’altra Margherita. Oh secreti misterij della disposition di Dio. Il Duca Ottavio ha Margherita, & il Duca Horatio havea Margherita; quella figlia di Carlo V. Imperatore, & questa di Henrico III. Re di Francia; sorella l’una del re di Spagna, sorella l’altra del Re di Francia, Ottavio vive glorioso. Ma che, non si potrebbe, sì come anco sperarne del Prencipe Paolo figliuolo dell’uno, & nipote dell’altro, & d’ambidue insieme vero immitatore, & herede delle loro virtù? Troppo sarebbe veramente, se nell’encomio delle sue lodi volessimo entrare, & più presto ci mancarebbe tempo per dirle, che materia da raccontarle, & Horatio morto vive eternamente. Che più? se per via di nobiltà di sangue di andasse, che direi del Cardinal vostro fratello? non potrebb’egli solo honorar tutto il mondo con le preclarissime virtù sue? per le quali al fermo non è homo di giudicio che non l’aspetti colmo de gli honori. Ma farebbe anco nulla tutto quello che fin qui si è detto, & che si potesse dire, quanto à quella parte, se gl’aggiungessimo [p. 7r modifica]la grandezza di tutte le grandezze, & la maestà di tutte le maestadi; & l’honore de gli honori. La virtù dico d’Alessandro Farnese vostro avo, il quale salendo per ghi honoratissimi gradi, ascese al supremo de i supremi, & meritò quel diadema in testa, al qual ogni corona cede, & quel manto, sotto il quale si ricoglie tutto il gregge Christiano; governando sì bene la barca di Christo, & l’uno, & l’altro stato per tre lustri, che bene il mondo l’adorò, non solo come Sommo Pontefice ottimo massimo, ma come Prencipe sapientissimo & divino. Nelle cui lodi s’io mi volessi estendere & dire, che per ciò io son stato non che inclinato, ma sforzato ad intitolarvi il libro, non basterebbe? basterobbono certo le virtù, & nobiltà eccelse sue sole, le quali sono, & saranno sempre riverite, & adorate. Ma queste non sono; non son queste quelle, che à ciò fare m’hanno inclinato, & le quali trapasso per seguir il costume ch’io vi dissi: le vostre proprie sono quelle, quelle sono che m’hanno costretto à non poter far altrimenti. Perche s’io riguardo alla nobiltà, che dal sangue illustre deriva già si vede che il sangue vostro al par d’ogn’altro è illustrissimo; se allo stato, & grado, voi sete à grado tale, che un’altro solo ve ne resta; & di ricchezze non sete voi un Re? Ma questo è niente invero all’animo pien di virtù che tenete, & questo è quello, che sopra tutti gl’altri Prencipi ha fatto ch’io ve lo intitoli. Et se non fosse che la ragion del Proemio nol comporta, che si risolverebbe in troppo gran volume, & io pur una volta desidero venire affine, & la divinissima vostra natura da se aborrisce le sue lodi, come quelle, che per lo piu apportano seco fumo di adulazione, & à lei basta, che la virtu sua nuda da per se parli, io ardirei contarne tante, & tali, ch’io non so se’l mondo hoggi le scorgesse ne gl’altri Principi tutti insieme. O’ s’io pur potessi reggere sotto sì gran salma di racontarne la parte millesima, da che per vero non reggerei, stand’io sempre stupido, & confuso qualunche fiata ne considero sol due sole, ne so risolvermi, che più vaglia in voi, ò la religione, la quale sempre accompagnate con infinite virtù, & massime con le bone lettere, ò pur la cavalleria laqual così bene essercitaste nel fior de gl’anni vostri, & massime nella non men crudele, che pericolosa guerra per Cristani, di Germania contra l’Angravio, & Luterani, con ardir degno veramente di voi novo Alessandro Magno, con quella prudentia, che vi fa non che parere, ma certo essere un Quinto Fabio, & con tutte quelle parti eccellentissima, che hebbe, & che mancorno à Giuliocesare. Per il che rimanendo tutto attonito, [p. 7v modifica]& pien di stupore, non so pigliar altro partito nel risolvermi, ritorno à dire, se non l’istesso, ch’aggrada à voi, che è lasciar parlar da per se sole alle infinite virtù vostre, & io con gl’altri à mirarle, & stupendo tacere, & adorarvi. Et così facendo in segno di vero silentio, maraviglia, stupore, & adoratione vi consacro questa mia lingua, le mani, & l’intelletto con queste mie vigilie insieme, le quali più volte sono stato in dubbio di donarvi, come indegno di tanto nume, pur al fin considerato, che il picciol dono della vedova poverella non fu sprezzato, & che il grande Artaserse con lieto volto, & sincero animo accettò il don dell’acqua da un pover fante, & che Antonino Imperatore non solo accettò il poema, ma rivocò dall’esilio il padre del poeta, donandogli anco per ogni verso una moneta d’oro, li quai versi furno, s’io non m’inganno quattro milia & ottocento, & che Alessandro Magno, non solo di doppio premio rimeritava i fedeli servitori, ma à chi gl’appresentava cosa alcuna, faceva conoscer chiaro, che non meno egli superava il mondo per il valore & prudentia d’invittissimo Capitano, che per liberalità di Re magnanimo. Il che si conobbe chiaro quando, che ad Aristotile per havergli presentato il libro della natura de gl’animali, in contracambio diede tanti talenti, che ascendevano alla somma di cinquantamilia ducati. Considerato adunque tutto questo, & conoscendo, che voi non siate di manc’animo, ne di minor virtù di questi tali, ho preso ardire chente elle si siano donarle à voi. Egli è ben vero, che in questo io ho ardito molto più di quello, che forse alcun’altro havrebbe fatto, assicurandomi di venire al giudicio dell’ingegno vostro, massimamente provocand’io quello, del quale potrebbono temere i più savij al mondo. Et non ho fatto come molti, che senza intitolar li lor libri à sì grandi Heroi li lasciano al commun giudizio de gl’homini bassi, ancor che scientiati molto. Per il che non hanno ad havere il timore, che ho ad haver io, che li miei consacro à voi, imperoche se io li publicassi, & non li dedicassi à voi, potrei dire, perche leggete voi queste cose ò dottissimo Cardinale, le quali sono scritte al basso volgo, & alla moltitudine de’ cavalcatori? Ma dedicandoli, come io dedico, & facendone voi giudice, ho da temer molto, & tanto più quanto, che sempre è stato, & sempre sia temere del giudicio de’ dotti. Et veramente se io fussi un altro Demostene overo inventore del naso dello stile, ho grandemente da temere, havendo voi per giudice, ma un sol conforto trovo, che gran differentia è in eleggersi il giudice, & in [p. 8r modifica]haverlo à forte. Ancor che altro apparato si richieda, quando si invita uno, & altro quando da se vien egli à te non invitato. Ma mi confido, che havendovi io invitato, & eletto giudice, & protettore, tanto più mi farete benigno, stand’io dunque con questa costantissima fede vi supplico quanto più humile, & caldamente posso, che vi degnate accettarlo con quell’animo che solete accettare le cose che con gran core vi si donano da’ vostri servi fedeli, & degnatevi di leggerlo per ispasso alcuna volta per donarli spirito vitale con la vostra lettione, sì come già deste à me con invocare il nome nostro, in iscriverlo, la qual lettione in quel tempo sarà più commoda, nel quale vi sarà concesso alquanto il ritirarvi da tante cure, & importantissimi maneggi, quanti vi abondano per le mani. Sono certissimo che sotto l’ombra de’ bei Gigli vi rimarrà sempre verde, sempre florido & scuro, ancor che lacerato, & da contrari, & invidiosi venti combattuto. Il perche potrò ben dire quel che disse Darete Frigio al suo libro, à questo mio. O Iddio voglia, che tu sij d’invidia degno, & lacerato, per haver poi ad avere un sì gran difensore, che à malgrado del tempo ti farà vivere sempre florido, & sereno.

Vale.

Note

  1. aggiatamente albergare