Il cavallarizzo/Proemio
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Stirpe chiara di Giove,
Di Tindaro figlioli, ò Re Spartani,
À cui dal Ciel vien dato
il regger, & domar cavai feroci.
Ma leggansi pur Historici, Poeti, & Filosofi, & vedrassi se gli è più che vero, quel ch’io dico. Ne è Prencipe hoggi al mondo, che non si diletti di farne particolar professione. Per il che se i Maestri, che insegnano à’ fanciulli, & à gli huomini le lettere, & le altre arti, ancora, sono da essere istimati molto, devriano anco i Maestri d’essa, che con vocabolo più proprio, & scelto si chiamano Cavallarizzi, essere certo in gran credito appresso à ciascuno, quando questi à cavalli ferocissimi insegnano essere mansueti, & i mansueti fanno audacissimi, & gli audaci, & incitati in un subito al corso, & ai salti insegnano con bellissimo modo incontinente di ritenersi, & di fare tante, & tante altre cose, che lungo sarebbe hora, & di soverchio il raccontarle, & tutte però fatte per l’utile diletto, & honore dell’homo. Al quale tanto di più dell’altre arti recano fama, honore, & riputatione; quanto più si vede chiaramente, che sono honorati i cavallieri de i plebei, & di quelli, che titolo di cavallieri non hanno. Et veramente di maggior lode al mio parer sono degni i professori di quest’arte di quelli, che insegnano l’altr’arti al mondo, quanto che gl’homini, che imparano hanno intelletto con la ragione in eccellentia, & hanno lingua da isprimer li loro concetti, che i cavalli non l’hanno, li quali se pure intendono, & hanno ragione in se, come vogliono molti, che habbino, & io mi sforzerò di dimostrare al luogo proprio, come, possino nondimeno communicarla, & farla palese à noi, che gl’ammaestriamo in tante guise senza loquela? Et noi come possiamo far intendere loro i concetti nostri, & ciò che da loro desideriamo con l’efficacia del parlare? Grand’arte è questa adunque, la quale s’insegna con gran fatica, maggior pericolo, & molto piu intelletto. Et perciò è degna veramente da essere istimata molto, se non vogliam dire, da anteporsi all’altre. Dell’utile della quale grandissimo, che ne deriva, non solo à Prencipi, & Cavallieri, ma à ciascuno, mi riserbo à parlarne in un’altro luogo più al proposito. Ma del giovamento grande, che reca à maestri d’essa; massime quando viene accompagnata da tutte quelle parti, ò della maggiore, che dirò poi nel terzo libro quando tratteremo di quello, che à buon Cavallarizzo s’apartiene; sarebbe fuor d’ordine volerne hora ragionare; vedendosi manifestamente à che sublime grado, & di ricchezze, & d’honori asceseno a’ tempi nostri Cesare Ferramosca, & Don Ciarles della Noia col favor d’essa appresso Carlo Quinto Imperatore. Lascio stare infiniti essempi più moderni per non difondermi tanto, & perche gia si sa, che era prima il cavallier Tommaso Mantuano, & il Commendador fra Prospero Ricco Milanese, & chi dipoi furno per quest’arte, & voi il sapete liberalissimo FARNESE che havete sporto à tutti due largamente, al Tomasso, perche nella corte di Francesco Re di Francia insegnava al Duca Horatio vostro fratello; & al Commendador fra Prospero per esser stato vostro cavallarizzo, & maestro del cavalcare. Il quale non solo con la commenda, & con tant’altre rendite havete, non che arricchito, & honorato, ma insignorito ancora. Quest’arte adunque utilissima pare, & essere si comprende, quanto a’ beni di fortuna. Ma non conosco meno trappassando al rimanente, che sia se non giovevole, & di gran profitto quanto al corpo, come l’isperienza maestra delle cose ci dimostra per quelli, che l’hanno essercitata come si deve, & chi l’essercita, & io confesso dal canto mio, che havendola prima per gli studij tralasciata, & poi per quelli havendo guasta la complessione, riassumendola me l’ho in parte racconcia. Et confesso ancora come ogni fiata, ch’io per pochi giorni tralascio il cavalcare, sentirmene infermo, & malenconico. Aetio dice, che l’uso di cotal arte sopra tutti gl’altri essercitij fortifica lo spirito, & tutto il corpo, & massime lo stomaco, purga i sensi & li rende assai più acuti, & allegri. Ne meno so comprendere che quest’arte nobilissima, & honestissima facci danno alcuno all’anima, usata però come si richiede, non essendo vietata, & essendo nel numero dell’arti buone, piena tutta di destrezza, bellezza, misura, & ingegno, & che reca utilità grande, non solo in particolare à ciascuno, ma in generale alle città, à gli stati, alle Republiche, a i Regni, & à gl’Imperij, fin della quale è, & deve esser questo, & perciò annoverata da quelli, che veramente vogliono teologizare, & non cavilare, tra le attioni buone, ò come dicano indiferenti. Quanto al comporre poi di quest’opera dico, ch’io non l’ho composta pinto da forza di vanagloria, & da cieca opinione di me stesso, nè meno per acquistarne oro & argento, havendo io sempre dispensato il mio largamente, & rifiutato anco gl’honori, & le rendite, come il ritratto della vita mia, & gl’amici miei ne possono far fede, & ho pregato Iddio sempre che al viver mio non dia, nè richezze, nè povertà, ma solo le cose necessarie, oltra le quali mai l’animo mio è trapassato, nè trapassa riputando nelle ricchezze essere difficil molto schivar la superbia & altri vitij, & nella povertà molto incommoda, & malagevole la vita, oltra che ben so io, che nè con questa io nè acquistarei, nè col fumo del grido de gl’homini io vivrei, ma solo l’ho composta per desiderio di giovar al mondo nel miglior modo, che la Iddio mercè mi ha fatto gratia di posser giovare, & se non giovo, assai è haver voluto, considerato nella peregrinatione di questa vita humana, noi non siam nati solo à noi medesimi, ma alla comune utilità de gli altri: considerato oltra di questo, che nella gran casa del Magno Iddio non solamente s’offerisce l’oro, & l’argento, ma il rame ancora. Il che non è da disprezzare, che la povera vedova non poss’altro nel gazofilaccio, che una picciola monetina di cotal metallo, la quale fu nondimeno molto accetta, & per avventura più dell’oro, & degl’incensi, che offerivano gl’altri, se perchè diede quel che potè, come perche l’offerta venne dal core. Et col talento che Iddio per sua gratia m’ha donato, ho cercato di fare usura, & non di sepelirlo, come fece il servo pusilanimo, & dapoco. Et se ben pare, che alcuni altri talenti, & doni io li habbi ascosti, & sepelliti non è però, che così sia quando per ragionevoli cause io per certo non gl’habbi possuto usare. Et questo basti, atteso che l’homo non è obligato à dire tutte le cose sue, & quelle, che lui sa, ma si bene à celarne, & tacerne molte. Oltra che io credo senza dubbio alcuno che la più parte delle mie ragioni sia nota hormai & chiara, & se non à tutti à una gran parte almen d’homin sinceri, & sapienti. Non mi sono curato ancora in partorirla à guisa d’orsa, che leccando ridduce il parto à perfetta forma, ne mi sono affaticato in tritarla così pel minuto, & tesserla cosi per lo sottile come fanno molti, sapend’io bene, che Palade fu sempre nemica di chi tesse di fila sì sottili la sua tela, come di arragne. Nè ho fatto molta stima del consiglio di Platone nelle sue leggi, benche divine; nè di Quintiliano, nè di Horatio circa quel che vogliano da chi vuol mettersi al sindicato col dar fuora i frutti dell’intelletto. Ma istimando poco il biasimo, che per questo d’ignorantia me ne havrebbe possuto avenire, à rispetto dell’utile, ch’io possevo fare, & del resto che pur hora da noi è stato detto, senza aspettar, che siano più maturi i frutti di questo mio giardino, senza più dico voler limare questa mia opera, m’è parso di darla fuora. Volendo anco in questo esser più tosto biasimato da molti dotti, per poco accorto, & considerato, che da molti amici, che à ciò fare m’hanno spinto, & pregato,esser tenuto mal amorevole, tenendo io per fermo, che se li miei riprensori havranno punto di gusto mal sano, non gli dispiacerà l’acerbo d’essa, ma s’eglino havranno qualche poco di stimolo di giovar al publico, daran’anc’essi fuor alcun’opera del medesimo soggetto, la quale possa, & debbi maturare, & emendare il fallo di questa mia. Per la qual cosa io verrò in ogni guisa ad ottenerne l’intento mio, che è di giovar al publico; havendoli io incitati à far quello, che per aventura fatto non havrebbono, quando quest’opra stata non fusse. Et da qui vedrassi poi se le lor lingue saranno migliori a i fatti che alle parole, & color che riprendono, de i ripresi. Resta ch’io hora risponda à quelli che non per detraere à quel ch’io scrivo, ma perche sanno, & desiderano di sapere, diranno me haver vestito il libro di veste altrui, e dico che non è male facendosi commoda, & attamente. Anzi di ciò mi lodo, & ciò che sappino per esser grato à chi si deve, che nello scrivere di quest’opera mi sono servito d’Aristotile, di Plinio, di Senofonte, di Lorenzo Roscio, anzi d’un originale, dal quale ciò che di buono scrisse, tolse sue. Ho cavato ancora da Pietro Crescentio, da Alberto Magno, da Columella, da Varrone, da Palladio, da Nemesiano, da Plutarco, da Horatio, da Virgilio, & da molt’altri, che lungo sarebbe il raccontarli, & nel successo del libro chiaramente si potrà vedere. Nè perch’io mi sia servito di sì preclari auttori, deggio essere ripreso, se prima i riprensori non riprendino? & Senofonte, che quel di Simone Ateniese niese traspose nel suo Hippico, & Hipparco, il quale fu il primo secondo alcuni à scriver dell’arte equestre, benche Plinio dichi esser stato un cert’homo Harmeno. Devesi anco riprendere Virgilio, che non solamente rubbò Teocrito scrivendo la Bucolica, ma Esiodo nella Georgica, & Homero nell’Eneida. Per il che così ben per questo gli converrebbe il distico che lui fece in morte di Ballista, come anco ad infiniti altri, & antichi & moderni scrittori. Il distico è questo.
Monte sub hoc lapidum tegitur Ballista sepultus
Nocte dieq: tutum carpe viator iter.
Li quai versi dicano questo.
Sotto il monte di pietra, che qui vedi
Sta sepolto Ballista; Hor và securo
Giorno & notte viatore dove vuoi.
Et così ancora devrebbeno essere ripresi molt’altri gravissimi scrittori, che il simile hanno fatto, ma perche han fatto bene non meritano riprensione, ma lode grandssima, & io perciò, & anco perche non confidato nel mio proprio sapere, nè vergognandomi di dire in un sol libro quel, che in infiniti, tanti bellissimi intelletti hanno sparso, & detto; ho fatto che ciascuno possi agevolmente leggere quel che di bono lor dicono in simile soggetto, meritarò biasimo, & non più tosto lode? Non sia vero, & massime confessando il furto, se furto si pò dire quel ch’io porto in mano, confesso apertamente, di chi egli si sia, nè tacerò di confessare, che non solo nello scrivere mi sono servito d’alcuni auttori moderni ancora, ma etiandio del bon giuditio d’alcuni miei predecessori cavallieri, che furno veramente nell’arte del cavalcare eccellentissimi, & senza pari. Et questi riduco in pochi, in Messer Evangelista Corte de i miei di Corte, del quale la fama è sì grande ancora, & così fresca per l’infinita virtù sua, ch’io non credo, che sia mai in alcun secolo per scemarsi, benche di questo io non ne habbi notitia che per alcuni soi pochi scritti, che mi lasciò mio padre, per esser lui morto poco avanti al nascer mio. In Messer Giovanangelo da Carcano gentilhomo Milanese, & in M. Giovanmaria della Girola, così detto, ma de i nobili di Corte di Pavia; il quale fu mio padre, & maestro, ma discepolo, e nipote del suddetto Evangelista. Fu Cavallarizzo il padre mio in quell’età felice, nella quale i cavalli erano veramente boni, & i boni Cavallarizzi erano in grande stima, & benissimo remunerati, di questa regalissima, & non mai bastevolmente lodata Donna Isabella d’Aragona, figlia che fu d’Alfonso il guercio Re di napoli, & Duchessa di Milano. Della cui divinissima Signora essend’io paggio nel numero di ben trentacinque altri tutti nobili, appresi i principij, & la maggior parte di quel ch’io so, & scrivo. A questo aggiungo havermi giovato ancora il buon giuditio d’alcuni Cavallieri amici miei, & massime quello del molto magnifico Messer Horatio figlio del capitano Mutio Muti, il qual’Horatio nelle bone lettere, & altre virtù è molto raro; & quello ancora del Commendador fra Prospero cavallier certamente degno di molte virtù, & con pochi pari al mondo nel cavalcare, il quale fu paggio anc’esso in quel bel numero de i trentacinque, che habbian detto, & hebbe per zio, & maestro il suddetto Messer Giovangelo,& anco il padre mio, & come dissi fu molto bene riconosciuto da voi magnanimo Signore. Et perche questo? se non perche intendendovi tanto ben voi di cavallaria, & per isperientia, & come dicano, per teorica quanto altro Prencipe ò ecclesiastico ò seculare vivi al mondo, vi dilettate di ben premiare & istimare i valorosi in quest’arte. Resta hora solo, ch’io rendi conto perche più tosto habbi voluto intitolare à voi questo mio libro, che ad altro Prencipe, che sia, ò ad altr’homo vivente. Ma prima anco, ch’io venghi a questo m’occorre dire un costume di gente, antichissimo. Era appresso ad alcune nazioni costume molto osservato, che mai alcuno non lodava il vivo con pigliare le lodi, gli essordij & narrationi nel lodarlo dal sangue, & fatti de gl’antichi soi, ma dalle virtù & vita di colui, che volevano lodare, costume veramente bello & ben considerato, da che non la nobiltà de’ nostri maggiori, & le lor lodi sono quelle che ci faccino veramente nobili & ci rendino meritamente lodevoli, ma le virtù proprie, & la nostra propria vita. Seguendo adunque questo santissimo costume non starò a dire ch’io perciò ve lo intitoli; perche s’io risguardo alla grandezza de gl’avi, & maggiori nostri, non trovo Prencipe, che vi avanzi, essendo del ceppo illustrissimo di casa Farnese usciti, & Confalonieri di Santa Chiesa, Capitani generali, Duci, & Signori eccellentissimi, come fu il Signor Rainuccio, zio dell’Avo vostro, & il padre nostro, il quale militò gran tempo da cavallier valorosissimo per Capitano di gente d’armi di Cesare, sotto la disciplina del gran Prospero Colonna, allhora Generale in Italia di Carlo V. & dipoi venne à quel grado di esser Duca non solo di Castro, Stato antichissimo di casa vostra, ma di Parma, & di Piacenza; essendo anco prima fatto dal detto Carlo Marchese di Novara. Ma questi sono beni di fortuna, al cui arbitrio stà di darli, & torli, laqual anco fece ogni sforzo di torgli quelli dell’animo sì generoso, così invitto, & così bello; ma non pote, se bene si troncò lo stame, perche vive, & viverà al dispetto di morte, eternamente immortale. Ma chi potrebbe dire i fatti illustri d’un’altro Signor Rainuccio vostro zio? Il quale giovinetto di diciott’anni fu Capitan di cavalleria di Clemente VII. & militò si strenuamente, & con tanto giudicio, che ben sarebbe asceso al grado supremo della militia, se le parche non gli fossero state invidiose. Successe à questi il Duca Ottavio vostro fratello, le cui virtù preclare, & fatti illustri non hanno mestieri di poema, nè di storia, che da se sono chiari al mondo, alquale per più; prima s’aggiunse in matrimonio la gran Margherita d’Austria figlia di Cesare. Che più si può dire? Non pon freno ella, & dà leggi hoggi alla Fiandra? Non è ella sorella di Filippo Re di Spagna? Non basta questo? Non ha ella l’animo di santissima religion pieno? di giustitia, & di prudenza? Ben l’hanno sentito gl’infedeli à Christo, & al suo Re, Fiandresi, & sentano. Saria gran cosa, che questo, se per via de’ vostri io vi volevasi lodare; aggiungendovi il gran valor & sapere della felice memoria del Duca Horatio, pur vostro fratello, giovane invitto, & Capitano valorosissimo; & tanto per le divine virtù sue, accetto, prima à Francesco, & poi ad Henrico Re di Francia, che gli diede per sposa un’altra Margherita. Oh secreti misterij della disposition di Dio. Il Duca Ottavio ha Margherita, & il Duca Horatio havea Margherita; quella figlia di Carlo V. Imperatore, & questa di Henrico III. Re di Francia; sorella l’una del re di Spagna, sorella l’altra del Re di Francia, Ottavio vive glorioso. Ma che, non si potrebbe, sì come anco sperarne del Prencipe Paolo figliuolo dell’uno, & nipote dell’altro, & d’ambidue insieme vero immitatore, & herede delle loro virtù? Troppo sarebbe veramente, se nell’encomio delle sue lodi volessimo entrare, & più presto ci mancarebbe tempo per dirle, che materia da raccontarle, & Horatio morto vive eternamente. Che più? se per via di nobiltà di sangue di andasse, che direi del Cardinal vostro fratello? non potrebb’egli solo honorar tutto il mondo con le preclarissime virtù sue? per le quali al fermo non è homo di giudicio che non l’aspetti colmo de gli honori. Ma farebbe anco nulla tutto quello che fin qui si è detto, & che si potesse dire, quanto à quella parte, se gl’aggiungessimo la grandezza di tutte le grandezze, & la maestà di tutte le maestadi; & l’honore de gli honori. La virtù dico d’Alessandro Farnese vostro avo, il quale salendo per ghi honoratissimi gradi, ascese al supremo de i supremi, & meritò quel diadema in testa, al qual ogni corona cede, & quel manto, sotto il quale si ricoglie tutto il gregge Christiano; governando sì bene la barca di Christo, & l’uno, & l’altro stato per tre lustri, che bene il mondo l’adorò, non solo come Sommo Pontefice ottimo massimo, ma come Prencipe sapientissimo & divino. Nelle cui lodi s’io mi volessi estendere & dire, che per ciò io son stato non che inclinato, ma sforzato ad intitolarvi il libro, non basterebbe? basterobbono certo le virtù, & nobiltà eccelse sue sole, le quali sono, & saranno sempre riverite, & adorate. Ma queste non sono; non son queste quelle, che à ciò fare m’hanno inclinato, & le quali trapasso per seguir il costume ch’io vi dissi: le vostre proprie sono quelle, quelle sono che m’hanno costretto à non poter far altrimenti. Perche s’io riguardo alla nobiltà, che dal sangue illustre deriva già si vede che il sangue vostro al par d’ogn’altro è illustrissimo; se allo stato, & grado, voi sete à grado tale, che un’altro solo ve ne resta; & di ricchezze non sete voi un Re? Ma questo è niente invero all’animo pien di virtù che tenete, & questo è quello, che sopra tutti gl’altri Prencipi ha fatto ch’io ve lo intitoli. Et se non fosse che la ragion del Proemio nol comporta, che si risolverebbe in troppo gran volume, & io pur una volta desidero venire affine, & la divinissima vostra natura da se aborrisce le sue lodi, come quelle, che per lo piu apportano seco fumo di adulazione, & à lei basta, che la virtu sua nuda da per se parli, io ardirei contarne tante, & tali, ch’io non so se’l mondo hoggi le scorgesse ne gl’altri Principi tutti insieme. O’ s’io pur potessi reggere sotto sì gran salma di racontarne la parte millesima, da che per vero non reggerei, stand’io sempre stupido, & confuso qualunche fiata ne considero sol due sole, ne so risolvermi, che più vaglia in voi, ò la religione, la quale sempre accompagnate con infinite virtù, & massime con le bone lettere, ò pur la cavalleria laqual così bene essercitaste nel fior de gl’anni vostri, & massime nella non men crudele, che pericolosa guerra per Cristani, di Germania contra l’Angravio, & Luterani, con ardir degno veramente di voi novo Alessandro Magno, con quella prudentia, che vi fa non che parere, ma certo essere un Quinto Fabio, & con tutte quelle parti eccellentissima, che hebbe, & che mancorno à Giuliocesare. Per il che rimanendo tutto attonito, & pien di stupore, non so pigliar altro partito nel risolvermi, ritorno à dire, se non l’istesso, ch’aggrada à voi, che è lasciar parlar da per se sole alle infinite virtù vostre, & io con gl’altri à mirarle, & stupendo tacere, & adorarvi. Et così facendo in segno di vero silentio, maraviglia, stupore, & adoratione vi consacro questa mia lingua, le mani, & l’intelletto con queste mie vigilie insieme, le quali più volte sono stato in dubbio di donarvi, come indegno di tanto nume, pur al fin considerato, che il picciol dono della vedova poverella non fu sprezzato, & che il grande Artaserse con lieto volto, & sincero animo accettò il don dell’acqua da un pover fante, & che Antonino Imperatore non solo accettò il poema, ma rivocò dall’esilio il padre del poeta, donandogli anco per ogni verso una moneta d’oro, li quai versi furno, s’io non m’inganno quattro milia & ottocento, & che Alessandro Magno, non solo di doppio premio rimeritava i fedeli servitori, ma à chi gl’appresentava cosa alcuna, faceva conoscer chiaro, che non meno egli superava il mondo per il valore & prudentia d’invittissimo Capitano, che per liberalità di Re magnanimo. Il che si conobbe chiaro quando, che ad Aristotile per havergli presentato il libro della natura de gl’animali, in contracambio diede tanti talenti, che ascendevano alla somma di cinquantamilia ducati. Considerato adunque tutto questo, & conoscendo, che voi non siate di manc’animo, ne di minor virtù di questi tali, ho preso ardire chente elle si siano donarle à voi. Egli è ben vero, che in questo io ho ardito molto più di quello, che forse alcun’altro havrebbe fatto, assicurandomi di venire al giudicio dell’ingegno vostro, massimamente provocand’io quello, del quale potrebbono temere i più savij al mondo. Et non ho fatto come molti, che senza intitolar li lor libri à sì grandi Heroi li lasciano al commun giudizio de gl’homini bassi, ancor che scientiati molto. Per il che non hanno ad havere il timore, che ho ad haver io, che li miei consacro à voi, imperoche se io li publicassi, & non li dedicassi à voi, potrei dire, perche leggete voi queste cose ò dottissimo Cardinale, le quali sono scritte al basso volgo, & alla moltitudine de’ cavalcatori? Ma dedicandoli, come io dedico, & facendone voi giudice, ho da temer molto, & tanto più quanto, che sempre è stato, & sempre sia temere del giudicio de’ dotti. Et veramente se io fussi un altro Demostene overo inventore del naso dello stile, ho grandemente da temere, havendo voi per giudice, ma un sol conforto trovo, che gran differentia è in eleggersi il giudice, & in haverlo à forte. Ancor che altro apparato si richieda, quando si invita uno, & altro quando da se vien egli à te non invitato. Ma mi confido, che havendovi io invitato, & eletto giudice, & protettore, tanto più mi farete benigno, stand’io dunque con questa costantissima fede vi supplico quanto più humile, & caldamente posso, che vi degnate accettarlo con quell’animo che solete accettare le cose che con gran core vi si donano da’ vostri servi fedeli, & degnatevi di leggerlo per ispasso alcuna volta per donarli spirito vitale con la vostra lettione, sì come già deste à me con invocare il nome nostro, in iscriverlo, la qual lettione in quel tempo sarà più commoda, nel quale vi sarà concesso alquanto il ritirarvi da tante cure, & importantissimi maneggi, quanti vi abondano per le mani. Sono certissimo che sotto l’ombra de’ bei Gigli vi rimarrà sempre verde, sempre florido & scuro, ancor che lacerato, & da contrari, & invidiosi venti combattuto. Il perche potrò ben dire quel che disse Darete Frigio al suo libro, à questo mio. O Iddio voglia, che tu sij d’invidia degno, & lacerato, per haver poi ad avere un sì gran difensore, che à malgrado del tempo ti farà vivere sempre florido, & sereno.
Vale.
Note
- ↑ aggiatamente albergare