Il bel paese (1876)/Serata XXVI. - Il Vesuvio nella fase stromboliana

Serata XXVI. - Il Vesuvio nella fase stromboliana

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Serata XXVI. - Il Vesuvio nella fase stromboliana
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SERATA XXVI


Il Vesuvio nella fase stromboliana.

Le guide del Vesuvio, 1. — Bellezze del primo salire, 2. — Lava del 1858, 3. — Che cos’è la lava? 4. — L’Osservatorio, 5. — La salita alla vetta, 6. — Il cratere in eruzione, 7. — Entro il cratere, 8. — Divenuti formiche, 9. — Un capo ameno, 10. — Una volata, 11. — Il Vesuvio e lo Stromboli, 12.


1. «All’alba eccoci, io e i miei due compagni, a Rèsina, proprio al piede della montagna fumante. Imaginatevi com’io dovessi sentirmi dopo tanti anni che m’intratteneva col Vesuvio, come con un vecchio amico, senza mai averlo conosciuto di persona. Pensate, dico, s’io non provassi un qualche cosa nelle gambe, che avrei voluto divorar l’erta, precorrendo colla smania impaziente il momento in cui mi sarebbe dato di figger lo sguardo entro l’oscuro spiraglio, che m’avrebbe messo in comunicazione diretta cogli abissi infuocati del globo. Per sventura tutto è fatto colà per spoetizzare l’anima più lirica, per affogare l’entusiasmo più ardente. Armatevi di pazienza (giacchè non è permesso armarsi di bastone all’uopo) quando avrete la buona fortuna di fare una gita al Vesuvio, e la cattiva di trovarvi in quel vespajo di gente, che con strana antimonia si chiamano guide mentre son proprio (dicendolo con una parolaccia d’ultimo conio) un disguido. Imaginatevi un’orda di mascalzoni che vi assediano, vi assordano, vi taglieggiano con una insistenza, con una impassibilità che ha proprio del portento. Vi saran dieci che vi offrono il bastone nell’atto di chi voglia bastonarvi; altri dieci che pretendono ad ogni costo che montiate a cavallo; poi dieci ancora che vogliono per forza insegnarvi la via. Tacere o parlare; rivolgere buone parole o prorompere in minacce; caricarli anche di insulti, [p. 423 modifica]se foste uomo capace di farlo; per loro è tutt’una: cento volte cacciati, cento volte ritornano all’assalto. La è una vera tribolazione. Oh se il Club alpino di Napoli diventasse di fatto un Club vesuviano, avrebbe molto da fare certamente, per organizzare un buon servizio di guide al Vesuvio! Ma quanti italiani e stranieri gli sarebbero grati, e quanto ne guadagnerebbe l’onore del paese! Bisogna dire però che, per quella prima volta, la fortuna ci sorridesse, facendoci imbattere in una guida la quale sembrava mi volesse dimostrare col fatto che ogni regola ha le sue eccezioni. Mi spiace di non averle chiesto il nome; e fu certamente in punizione di questa mia trascuratezza, vorrei dire ingratitudine, che, ritornando altre volte al Vesuvio, m’avvenne d’imbarcarmi così male. La nostra guida era un uomo sui trent’anni, assai bruno di pelle, e nerissimo di barba; un vero tipo meridionale. Ma al contrario de’ suoi confratelli lo trovammo garbato, discreto, facile di parole, ma niente ciarliero. Ci incamminammo a piedi con lui».

2. «Non era meglio prendere una cavalcatura?» osservò Giovannino.

«Uh! che poltrone! A chi abbia buone gambe nol consiglierei certamente. Una gita a piedi su quella maravigliosa montagna, sotto quel limpido cielo, in faccia a quella splendida natura, in mezzo a quel continuo variare di scene, una più incantevole dell’altra, una gita a piedi, ripeto, è quanto che si può imaginare di dilettevole, di estasiante. Poi pel geologo c’è tutto da osservare, principalmente per uno che vi giunge la prima volta. Quelle nere correnti di lava che giunsero al mare, ed oggi ancora fanno irto il lido di negre rupi, e tutto frastagliato a seni, a baje, che riflettono il tranquillo bagliore dell’aurora, mi avevan già messo in corpo un tal fremito, una tale smania di osservazioni, che non avrei voluto lasciarmi sfuggire inesplorato un palmo di quella montagna, ove si condensa tanta parte di ciò che il geologo ha fatto oggetto de’ suoi studî. Vi assicuro che fui ben contento di aver resistito alla tentazione di pigliarmi una cavalcatura. Si comincia ad ascendere. Dalle falde del cono fin verso la metà della sua altezza è tutto un giardino, tutto una terra promessa. Vigneti, ulivi, fichi d’India che verdeggiano fin sugli scogli più ignudi, distendendo le foglie carnose coperte di spine; àgave che slanciano esile e ritto il tronco fiorito da un cespo di foglie, che sembran fuse di getto in verde metallo: tutto è bello, tutto grazioso, tutto ridondante, tutto nuovo per chi è cresciuto ai piedi [p. 424 modifica]delle Alpi. Ma sopra questa base verdeggiante e fiorita sorge un colosso ignudo, nero come un gran mucchio di carbone, aspro e duro, come una montagna di bronzo. È quello propriamente il Vesuvio, che si slancia tutto d’un pezzo da quel cinto fiorito, isolandosi in mezzo allo spazio, non avendo altro sfondo che il cielo, entro il cui seno azzurro disegna il suo conico profilo d’una regolarità perfetta. Al suo fianco verso nord-ovest si svolge a semicerchio la cresta dentata del monte Somma, che accenna ad abbracciare da lontano quel Vesuvio, che nacque un giorno dalle sue viscere.

3. » Giunti là dove la coltura comincia a diradarsi, la via riesce sulla sinistra di una corrente di lava irrigidita. Essa è quella del 1858. Bisogna essere stupidi per non arrestarsi in faccia a quella gigantesca corrente, tutta nuda ancora, che basta da sola a imprimerci indelebilmente nell’animo il sentimento della potenza di uno di questi terribili ministri della natura, che noi chiamiamo vulcani, e della grandiosità di una eruzione. Imaginatevi un gran fiume di nera pece, densa e vischiosa, che si rovesci dal fianco irto e scaglionato di una montagna. Quell’immane viscidume fluisce giù giù a onde, a fiotti pari af più grandi marosi; una rupe, un sasso, la minima irregolarità che incontri, si arresta, rifluisce, si raggrinza, si increspa, si arruffa, si contorce in tutti i sensi. Le onde di sopra si accavallano su quelle di sotto, si rotolano insieme, si stirano, si torcono a spirale. Ne nasce un caos immenso, indescrivibile. Il pittore butta lontano il pennello, il letterato la penna. Per intendere che sia una di quelle correnti che si chiamano di lava a corda, bisogna vederla. Quella del 1858 è la più bella di quante ho vedute, e la più bella, io penso, di quante si possono vedere. Talora è un immenso cortinaggio, un ammasso di vele rovesciate sul lido in preda al vento, che si trastulla ruzzando fra i morbidi teli; talora è un cantiere immenso di gomene, di sarte, d’ogni foggia e d’ogni dimensione, disposte per armarne una flotta; talora.... ma poi la fantasia più scapigliata si trova troppo impotente a fronte della realtà, quando voglia descrivere quelle curve flessuose e bizzarre, quei cordami senza fine e senz’ordine, quei gruppi, quegl’intrecci inestricabili, tutto quel complesso di mobile immobilizzato, disteso sopra una superficie di due o tre chilometri quadrati. E pensare che tutto è un sol vomito di quel nero gigante, la cui bocca fuma ancora rantolando sulle nostre teste!»

«E tutto codesto è di pece?» riflettè la Biggia, che era [p. 425 modifica]rimasta colpita da quel paragone, col quale aveva cominciato la mia descrizione.

«Di pece!... Via, l’ho detto per similitudine! Il colore, la flessuosità, la lucentezza, creano veramente questa illusione: ma si tratta di lava, e non di pece».

4. «Che cos’è dunque la lava?» domandò tosto la Camilla. Ma in vece mia sorse a rispondere Giovannino, che si credeva in questo punto abbastanza scienziato per potermi sostituire.

«La lava, vedi, è» diss’egli «una materia minerale, fusa come il vetro, come il ferraccio».

«Ohibò!» gli feci io inorridito.

«L’ho letto l’altro di sul libro che si adopera in scuola, per lo studio della storia naturale», ripigliò tosto Giovannino un pochino indispettito, e non a torto, contro di me per quel mio ohibò! o piuttosto per l’atto con cui lo avevo accompagnato.

Per rimediare all’ingiustizia, «Hai ragione» dissi, riprendendomi. «La tua definizione della lava è quella su per giù che danno in genere anche gli scienziati. Ma è un errore, che gli scienziati dividono col volgo, lasciandosi trascinare con esso dalle apparenze. A vedere quelle correnti che discendono a guisa di fiume infuocato, chi non le direbbe composte di liquido fuoco, ossia di materia fusa, come tu hai detto? Quando però la lava si rapprende e s’arresta, accostati e vedrai. Vedrai che quella materia, liquida in apparenza, non è che un impasto di solidi cristalli, talora minutissimi, indiscernibili all’occhio, talora invece assai grossi».

«Tuttavia» replicò Giovannino, «la lava scorre quasi fosse un fiume. Come il potrebbe se non fosse liquida?».

«Non è forse capace di scorrere, il fango, la fina belletta che riempie il fondo di uno stagno? Eppure che cos’è il fango? Non altro che un ammasso di piccoli solidi, di grani di sabbia, di particelle d’argilla, impastati coll’acqua. Fa conto ch’io ti abbia già detto che cosa sia la lava. Essa non è altro infatti che un fango, una belletta cristallina, cioè un ammasso di cristalli, impastati coll’acqua».

«Ma» osservò l’Annetta, «come mai l’acqua può essere mescolata col fuoco?».

«La ragione è» diss’io, «che in questo caso il fuoco è acqua e l’acqua è fuoco. Bisognerebbe che io qui vi facessi un trattatello di fisica. Ma vi basti il sapere che io posso portar l’acqua a quel più alto grado di temperatura che mi piace; posso [p. 426 modifica]riscaldarla a tal punto che diventi fuoco, diventi cioè rovente come il ferro, quando esce liquido da un forno fusorio. Per ottener questo basterebbe che io la riscaldassi, impedendole di bollire. Per impedirle poi di bollire non ho che a chiuderla ermeticamente entro un vaso, supponiamo di ferro, il quale sia robusto abbastanza per non scoppiare, come fanno talvolta le caldaje a vapore, quando l’acqua è portata ad un grado soverchio di temperatura. Anzi, è appunto in questo stato di straordinario riscaldamento, che l’acqua acquista la facoltà di sciogliere le sostanze più insolubili, come il vetro, per ricomporlo in cristalli. È a questo modo che il signor Daubrée, riscaldando l’acqua potentemente, e mettendovi del vetro a bollire, è riuscito ad ammannirsi una specie di pappa cristallina, che è veramente una lava artificiale. Ma basta: s’andrebbe troppo per le lunghe se io volessi esporvi le osservazioni, e descrivervi le esperienze, per cui la scienza moderna fu condotta ad ammettere che le lave eruttate dai vulcani non sono che masse di cristalli, impastati coll’acqua. L’acqua stessa è quella che compone i cristalli, quando è trattenuta ermeticamente chiusa in quel gran vaso sotterraneo che è ogni vulcano. Insomma un vulcano che erompe non è nè più nè meno, come vi ho già detto, d’una caldaja a vapore che scoppia; l’acqua, trasformata immediatamente in vapore, erompe nel momento dello scoppio, e levandosi in alto forma il pino, cioè quella nube gigantesca così ben descritta da Plinio. Il fango cristallino invece, gonfiandosi pel rigonfiamento, ossia per la dilatazione del vapore acqueo, che se ne svolge, le vasi a poco a poco fino all’orlo della caldaja, e si riversa a modo d’infocata corrente, da cui tuttavia il vapore continua a svolgersi talora per anni e per secoli, alimentando le così dette fumajole. Le fumajole infatti non son altro che getti di vapor acqueo, sgorganti dalle crepature delle lave consolidate, miste ad altri vapori, a gas diversi, ed a minerali volatilizzati. Non parlatemi più dunque di materie fuse, erompenti dai vulcani. Quella corrente del 1858 di cui vi diceva, ad osservarla superficialmente, si direbbe una massa consolidata di vetro nero o di ferro fuso. Osservate però dove essa fu profondamente tagliata per ricondurvi la via che guida all’Osservatorio. Se vi ha un pochino di fusione, essa si limita a una pellicola superficiale. Nell’interno quella lava è bigia, somigliante ad una pietra comune, per esempio, al granito, ed è tutta da cima a fondo un impasto di cristalli. Ora che sappiamo che cosa sono le lave, cioè di che è composto il Vesuvio, tiriamo avanti fino all’Osservatorio. [p. 427 modifica]

5. «L’Osservatorio meteorologico vesuviano è un bel edificio, costrutto per collocarvi gli stromenti d’osservazione, e le persone degli osservatori. Sorge esso sopra un dorso rilevato che appartiene all’antico recinto del Vesuvio, cioè al monte Somma. Quel poggio direbbesi un’isola in un mare di lave, mentre le lave recenti l’hanno circondato da ogni parte così, che ad ogni nuova eruzione minacciano di affogarlo. Quasi tutte le moderne eruzioni infatti produssero delle lave, le quali si riversarono entro l’atrio del Cavallo, trasformandolo ogni volta in una gran valle di fuoco che, a guisa di fiume ardente, si riversa dalla parte del golfo. Uscendo dall’Atrio s’incontra l’eminenza su cui è posto l’Osservatorio. Questa eminenza figura dunque come una rupe che sorge in mezzo al letto di un fiume: quel fiume di lava si divide ordinariamente in due correnti, che passano l’una a destra, l’altra a sinistra dell’Osservatorio, portando la rovina e la desolazione in seno ai campi, ai villaggi, alle popolose borgate sparse sul pendio fra l’Osservatorio e il mare. Facendo una piccola sosta sulla soglia di quell’edificio, e volgendoci verso il mare, mentre l’occhio è rapito dallo spettacolo incantevole di un golfo, in cui si specchia la città più popolosa che vanti l’Italia, un golfo che è tutto un incanto, tutto un sorriso di terra e di cielo, non si può a meno di diventare tristi e pensosi mentre si dominano da quella stessa eminenza le vaste plaghe, ove dapprima verdeggiavano le viti e gli olivi, e biancheggiavano i ridenti paeselli, ora converse in aride secche, si numerano le ripetute non antiche eruzioni, rappresentate da altrettanti fiumi di lava, l’un dall’altro distinti pel diverso colore, o nero, o bigio, o giallastro, o rossiccio. Ma rompiamo gl’indugi, che lunga è la via che ci resta prima di giungere al cratere.

6. » Percorso quel promontorio, quasi camminando sulla spina dorsale di un grosso animale, eccoci all’ingresso dell’atrio del Cavallo, cioè allo sbocco della gran valle semicircolare, che se para il nero cono vesuviano dal suo vecchio recinto, cioè dal monte Somma che s’innalza sulla sinistra nostra, a guisa di un enorme spalto coronato di merli e di torri. Quella gran valle direbbesi un lago di nero ferraccio, gelato, mentre la tempesta ne sollevava le onde pesanti. Dopo non lungo cammino pei campi di lava, di lapilli, e di sabbia, eccoci alle falde del cono, che s’innalza a guisa di piramide, col vertice fumante.

» Quivi incomincian le dolenti note! Chi ha polmoni di cuojo e garretti d’acciajo, li tenga in serbo per quando avrà da [p. 428 modifica]guadagnare quella cima. Noi deviando, come pedoni, dal sentiero che dall’Osservatorio guida al punto dove solevano allora arrestarsi i cavalli, pigliammo a salire il cono immediatamente dal lato nord-ovest. S’attraversano dapprima dei campi di lava a mediocre pendio; poi, quando l’erta cominciava a rendersi più sentita, per evitare le sabbie scorrevoli, faticosissime a salirsi, la guida ci fece prendere il filo di una vecchia corrente di lava, la quale disegnava sulla superficie del cono un cordone irregolare, quasi uno di quei lunghi grumi, modellato in rilievo sopra se stessa dalle lagrime di una candela. Ma che grumo mostruoso! Il Vesuvio veduto dalla parte dell’atrio del Cavallo. miei cari. Una secca, una scogliera, tutta scorie vetrigne, tutta punte e, scaglioni quasi di metallo; proprio una scala di spine.

Non era via da vestito di cappa,

potevamo dire con Dante, sicchè anche noi a mala pena, potevam su montar di chiappa in chiappa1 colle ginocchia in bocca, trafelati, grondanti sudore. È una partita poco dilettevole che dura circa due ore, comprese le fermatelle per pigliar fiato, consolate dalla vista incantevole del golfo che va mano mano spiegando entro un circolo sempre più vasto le sue inesauribili [p. 429 modifica]bellezze. Ecco Napoli! Ecco Rèsina, e Torre del Greco! ecco là in fondo verso mezzogiorno l’isola di Capri, che si stacca dal grande sperone che divide il golfo di Napoli da quello di Salerno. Ecco a occidente Ischia come un grande smeraldo, sormontata dal suo Epomeo, che dorme da secoli, lasciando che i suoi campi di lave ardenti vengano trasformati in colti e giardini! Accanto ad essa sorge, gemma minore, l’isola di Procida. A nord il capo Miseno, donde il gran Plinio stette dapprima a contemplare l’eruzione del Vesuvio. A oriente l’isoletta di Nisita! Fra il capo Miseno e Nisita si stende la bellissima baja di Pozzuoli, scavata in seno a quella portentosa regione dei campi Flegrei, dove fumano le stufe di Nerone, dove soffia la solfatara, dove sorse, come per incanto, il monte Nuovo, che accrebbe quell’esercito di vulcani, a cui erano ascritti nei tempi preistorici il vulcano d’Averno, col suo lago craterico, il monte Barbaro, il cratere degli Astroni, e altri che coprono cogli antichissimi coni un’immensa voragine di fuoco, pronta ad erompere di nuovo, a crear nuovi monti, a spargere di nuovo il terrore e la morte in seno a quelle terre così pacifiche e ridenti.... Ma il Vesuvio?... Il Vesuvio noi vogliamo.... e si ricomincia a salire, a salir senza posa, con smania sempre crescente, quella negra piramide, che sembra crescere alla sua volta altrettanto sopra le nostre teste in luogo di abbassarsi. Ma il fumo, che prima ci appariva oscillante come nube leggera sul vertice, si è ingrossato, si è fatto più denso, e si svolge in globi che si alzano distinti, netti l’uno sopra l’altro, rotolando per l’aria come nubi temporalesche. Già il nostro orecchio era rimasto colpito da rombi sordi come da colpi lontanissimi di tuono. Dunque il Vesuvio freme.... ferve. — Oh delizia! Fra poco saremo lassù, e potremo gettare per la prima volta uno sguardo entro la gola di un vulcano. — E su, e su, coll’anelito crescente, con un passo che tanto più si ostina, quanto più si sente contrastato dall’erta. La negra piramide ora si va abbassando davvero, ormai non ci sovrasta che un nero cumulo, rotondo, quasi una bica di carbone. Eccoci quasi al lembo del cratere.... già ne odoriamo il fumo.... Due passi ancora e ci buttiamo sdrajati sull’orlo di una voragine fumante, tra il diletto che ci esalta e ci rinnova guardando e la fatica che ci ha tolto il respiro.

7. » Bisogna sapere che il Vesuvio aveva avuto una forte eruzione nel 1861; l’ultima delle tante rese celebri dai disastri di Torre del Greco. Dopo quell’eruzione finse di riposare per circa un anno; ma nel 1863 un accesso di furore lo desta, e slancia [p. 430 modifica]dal cratere una tempesta di massi. Tornò a pigliar sonno, ma per poco; poichè nel 1865 ricominciò a ruggire come un leone, vomitando dalla bocca semiaperta colonne di fumo e grandini di pietruzze, ossia lapilli. Noi lo sorprendemmo appunto in questa nuova fase, che era appunto la fase stromboliana. Seduti sull’orlo del cratere potemmo lungamente inebbriarci di quel grandioso spettacolo. Sotto ai nostri piedi si apriva una voragine circolare, che avea forse un chilometro di circonferenza. Essa era circondata da pareti rovinose, quasi a picco, come fosse un gran tino con doghe di scogli dell’altezza di circa 65 metri. Il fondo del tino era piano; ma nel suo mezzo si levava un cono di color bigio, dell’altezza di circa 30 metri, la cui base si dilatava quasi abbastanza per toccare quella del recinto, non rimanendo fra questa e quella che uno spazio circolare, della larghezza di pochi metri. Quel cono, intercluso nel grande, era tronco e svasato anch’esso al vertice; aveva cioè un piccolo cratere, da cui uscivano il fumo continuamente e a volte a volte detonazioni e getti di pietre. Pochi giorni prima del nostro arrivo, il Vesuvio aveva sofferto un impeto di vomito: la lava, sgorgata dal piccolo cratere, e discesa lungo il fianco del cono interno, si era dilagata sul piano circolare che separava il cono stesso dal recinto, formandovi un pavimento liscio, tutto d’un getto, quasi quello spazio circolare fosse stato ripieno di ferro fuso.

» Da qualche minuto stavamo guardando il fumo che si levava, volubile e tranquillo, dalla voragine centrale. D’un tratto si ode un rumore, ch’è tutt’insieme il rantolo di un grosso mastino, un conato di vomito e il russare di un gigante. Il fumo si addensa, ed eccoti una profonda detonazione, come un gran tonfo e al tempo stesso un getto di pietre, disperse come le scintille di un fuoco d’artifizio, formando un pennacchio, che si svolge da un denso globo di fumo, simile a quello che esce dalla bocca del cannone quando gli si accosta la miccia. Le pietruzze nere, alcune rosse di fuoco, descritta una parabola, ricadono a modo di grandine sul cono che le aveva lanciate. Il vulcano, come nulla fosse avvenuto stassi di nuovo tranquillamente fumando, finchè succede un secondo scoppio con una nuova grandinata di sassi. Questo spettacolo si rinnova di cinque in cinque minuti. È, ve n’assicuro, uno spettacolo inebbriante. E’ mi sembrava di trovarmi in diretta comunicazione cogli abissi. La fantasia, cacciandosi entro quella voragine, entro quel fumo che la rendeva interamente, cieca allo sguardo, ricercava le viscere del vulcano [p. 431 modifica]e scesa giù in fondo si trovava in un mondo di fuoco, sopra un mare di lava, bollente nel furore della tempesta.

8. » Non sazio di guardare, ma pur desideroso di più vive impressioni, e di più proficui studî, pensai fra me: — se fosse possibile discendere?... calarci giù nel cratere?... ficcare lo sguardo più davvicino entro la bocca di quel cannone caricato a mitraglia?... — Fino a quel tempo il cratere era rimasto inaccessibile: da due o tre giorni però alcune frane, staccatesi dal recinto, si erano disposte a scarpa, e rendevano, se non agevole, possibile la discesa. La guida, benchè prudentissima, si esibì di condurci giù in fondo. Ci levammo allora, e camminando sul labbro occidentale del cratere, giungemmo nel punto opposto, cioè sul lato di sud-est, dove una frana prometteva più facile e più breve la discesa. Non si trattava che di discendere, o piuttosto di lasciarci sdrucciolar giù: sopra un mucchio di secchi lapilli, in mezzo ai vapori solfurei, il che fu eseguito senza alcuna difficoltà. Imaginatevi se io era contento di trovarmi così tosto sul fondo di quella voragine che avevo contemplato dall’alto; di posare il piede su quel pavimento di lava ancor caldo, e di trovarmi alla base del piccolo cono, teatro di così stupendi fenomeni. Intanto una brigatella di tedeschi era comparsa sull’orlo del grande cratere, e giratolo nel nostro senso, cioè da nord-ovest a sud-est, si era arrestata un po’ prima, pigliando di mira un’altra frana, che la loro guida aveva preferito di scegliere per la discesa. La nostra non mancò di tacciare d’imprudenza il collega, come avesse preferito un passo difficile e pericoloso. Perchè non pensassimo che il suo giudizio fosse suggerito o da invidia, o dalla voglia di dir male dei fatti altrui, eccoti una frana staccarsi proprio nell’atto che i nuovi arrivati scendevano per l’aspra china, ed uno di essi dovette alla propria destrezza se non rimase acciaccato o peggio da un masso, che si dirigeva, scendendo rotoloni, alla sua volta. Ma quella lezione non bastava. La guida imprudente voleva fare il bravo, e spinse gli improvvidi tedeschi a salire il piccolo cono, fino alla bocca aperta e fumante. Mentre la nostra guida crollava la testa in atto di disapprovazione, io pensava fra me se mai non avessimo a che fare con un pusillanime, che ci impedisse l’eroico piacere di spingere anche noi lo sguardo, fin dove si potesse giù in fondo. D’un tratto il gigante s’infuria e con rantoli più spessi e più forti, seguiti da più terribile detonazione, lancia una colonna di densissimo fumo, con una girandola di pietre veramente formidabile. Fu allora soltanto che io distinsi delle pietre veramente [p. 432 modifica]rosse come pezzi di bragia. Quei forestieri, che avevano volto il dorso al primo rantolo, precipitandosi giù dal cono, furono appena in tempo a sottrarsi a quella mitraglia, che li avrebbe potuto offendere seriamente. Dovetti persuadermi che la nostra guida non era pusillanime, ma prudente. Quanto a noi pertanto ci accontentammo di rimanerci a contemplare più da vicino quello spettacolo, che ci aveva tanto commossi da lontano.

9. » Soddisfatti, ma non mai sazî, pensammo però che era tempo di uscire dal cratere. Ma volere e potere, per quanto si dica, sono due cose ben diverse, ed io ebbi l’occasione allora di sospettare che fossero due cose opposte. Ritornati a piè della piccola frana di lapilli, che ci aveva prestato una così agevole discesa, credevamo di poterla rimontare colla stessa facilità. Ma sì: aspetta un poco.... Lasciarsi sdrucciolar giù da un mucchio di sabbia o di ghiaja, la è cosa facile per chicchessia, foss’anche un sacco di cenci; ma salirvi.... gli è un altro par di maniche. Imaginate di dover ascendere una montagnola di miglio, dove siete certi che non salite un passo che per discenderne due. Dovemmo in breve accorgerci di trovarci nella condizione della formica, caduta entro l’imbuto preparato con arte satanica dal suo nemico, il formicaleone. S’affatica invano la prigioniera per riguadagnarne l’orlo, agitando lesta lesta le povere gambette sulla sabbia così scorrevole, che si direbbe liquida. Così ci affannavamo noi, mutando invano i passi con rapidità convulsa, sul manchevole lapillo, che si sfondava franando continuamente disotto ai piedi. Vi sarà capitato, senza dubbio, di fuggire, in sogno da qualcuno che vi insegue, e di sentirvi i piè che non puntano, le gambe colpite come da paralisi, e di agitarvi ansanti, sbuffanti su per l’erta, senza poter fuggire. Ebbene, salvo l’esser desti e non in sogno, era precisamente il nostro caso. Imaginatevi che al gran formicaleone, voglio dire il vulcano, fosse saltato il grillo, come al pirata delle formiche, di regalarci in quel frangente una grandine di sassate.... nè non ci erano d’ajuto certamente quelle emanazioni solfuree, che, sfuggendo dal soffice lapillo, venivano a soffocarci il respiro. Basta; in qualche modo ne uscimmo, ma fu un’ardua impresa; ve n’assicuro.

10. » Eccoci di nuovo seduti sull’orlo del cratere per riposarci, e per godere ancora alcun po’ di quella scena di boati e di sbuffi. Intanto, poco lungi da noi, s’era messo a sedere un Inglese, un vecchio dai capelli tra il biondo e il bianco, dal naso rosso e dai denti lunghi e prominenti. Egli era beato di trovarsi [p. 433 modifica]così a tu per tu col Vesuvio, ed ogni volta che il bestione, dopo aver rantolato più forte, la finiva con uno scoppio ed un getto di pietre maggiore dell’ordinario, l’Inglese batteva le mani, applaudendo, come fosse in teatro. E’ mi richiamava quei brutali Spagnuoli, che battono le mani e gridano: — Bravo toro! — quando l’animale inferocito, inforca colle corna e butta in aria un cristiano.

11. » La discesa dal cono fino all’atrio del Cavallo fu una vera rivincita sopra la fatica sostenuta nell’ascendere, e quella durata per uscire dal cratere. In quell’epoca, dalla cima del cono fino all’atrio del Cavallo, il fianco settentrionale del cono era coperto di un grosso strato di sabbia scorrevolissima e di lapillo, e la discesa era tale da quella parte. Come si fa quale la trovereste per ripetere la similitudine, se la montagna fosse un gran mucchio di miglio o di grano turco. Discendere ad agio è impossibile; ai primi passi sentesi il suolo mancare sotto i piedi; la montagna sembra sfasciarsi; vi par d’essere senza appoggio, quasi in aria, sopra nubi polverose e di rotolar giù a precipizio. Ma pur si cammina.... pur si discende. La via e il viandante discendono insieme. I passi si alternano con velocità sempre maggiore, sotto i passi si muove l’orma, e intorno all’orma si muove il suolo dell’orma improntata; esso par che v’inghiotta, e voi sempre a galla; nè si sfonda, nè si incespica, nè si stramazza. Dunque giù a salti, a balzelloni, quasi volando sopra una nube di polvere, confusi entro un’aureola di polvere, e sotto i piedi un fragore, un crepitio sonoro, metallico, quasi scendesse al tutto disciolto un sacco di carbonella. Finalmente ci troviam fermi nell’Atrio. Guardiamo l’orologio.... sette minuti per discendere dal cratere all’atrio del Cavallo! Sette minuti per far quella via, che nel salire ci era costata almeno un’ora e mezzo!... È uno spasso che i visitatori del Vesuvio hanno goduto fino al 1869».

«E perchè soltanto sino al 1869» domandò la Marietta.

12. «Lo vedrete, poichè intendo di ricondurvi meco al Vesuvio appunto nel 1869. Intanto questa prima gita che insieme abbiam fatto, vi può aver dato un’idea della fase stromboliana, nella quale, come vi dissi, si trovava allora il Vesuvio».

«Ma» riflettè la Marietta, «lo Stromboli ce l’hai descritto ben diversamente. Non ci hai detto che il Vesuvio ti si presentasse come una caldaja bollente, dove la lava si alza e si abbassa, a modo di bollente pece. La lava tu nemmen la vedesti».

«È vero: ma, se rifletti meglio, fra lo stato ordinario dello [p. 434 modifica]Stromboli, e quello in cui mi si presentò il Vesuvio, non c’è alcuna differenza sostanziale. L’unica differenza sta in ciò, che nello Stromboli, come in altri vulcani, le lave rimangono visibili nel loro stato di fluidità entro il cratere; mentre nel Vesuvio e negli altri vulcani le lave, solidificandosi d’ordinario alla superficie, formano un pavimento, una specie di soffitto sulle lave ribollenti al di sotto. I fenomeni stromboliani del resto hanno luogo egualmente: rigonfiamento della lava, scoppio di masse di vapori con detonazioni, getti di scorie e di lapilli. Ma questi fenomeni si manifestano attraverso il pavimento del cratere, mediante una o più aperture.

» — Però — voi direte — quella lava che si gonfia poi scoppia, poi risiede compressa, per tornarsi di nuovo a gonfiare, qui manco si vede. — Se non la si vede, la si sente, che è poi tutt’uno. Talvolta la si vede anche, ed è quando la lava si gonfia tanto, che viene a traboccare, riversandosi al di fuori dell’orifizio, aperto nel palco, come vi dissi che era avvenuto alcuni giorni prima ch’io salissi al Vesuvio. Il Vesuvio insomma, come io lo vedeva la prima volta, non presentava che per un piccolo pertugio soltanto ciò che lo Stromboli lasciò vedere allo Spallanzani in tutta l’ampiezza del cratere. Se il fumo e i getti di pietre non m’avessero impedito di guardare in fondo a quell’orifizio, avremmo veduto la lava gonfiarsi e risiedere come nello Stromboli. Il signor Abich, salito il Vesuvio nel 1834, ne trovò il cratere chiuso del pari sul fondo da solido pavimento. Esso pavimento però presentava circa una ventina di orifizî stromboliani, posti in fila sopra una retta, in guisa da disegnare una lunga crepatura. Ogni orifizio era sormontato da un piccolo cono, dell’altezza dai 18 ai 25 piedi, ciascuno col proprio cratere imbutiforme. Ognuno di quei coni rappresentava un piccolo vulcano in piena attività. Una densa colonna di vapori fischiava con suono assordante da ciascun cratere, e dilatavasi in una pesante nube, a riflessi di ogni gradazione. Lapilli e bombe piovevano ovunque all’ingiro. Il Vesuvio era dunque anche allora in piena fase stromboliana, come io lo trovai nel 1865. In questa però non perdurò lungo tempo, sicchè, tornandovi la seconda volta, cioè nel 1869, era passato alla terza fase, cioè alla fase pozzuoliana».

«Fase pozzuoliana!...» sclamò il Battista. «Che razza di nome è codesto? Mi ricordo che questo nome l’hai detto, quando parlavi delle tre fasi. Ma nè tu ci dicesti, nè noi abbiamo domandato nulla circa l’origine di quel nome». [p. 435 modifica]

«Il nome deve esprimere la cosa; nè io vo’ adesso perdermi in discorsi sul nome, mentre della cosa voglio interamente tacere. Tacere però vuol dire rimandare il discorso a un’altra fiata. E invero, non potremmo dire di conoscere nè il Vesuvio in ispecie, nè i vulcani in genere, se ci rimanesse ignota una fase, la quale forse meglio delle due già studiate, ci mostra ciò che siano i vulcani come manifestazioni dell’attività del globo una ed infinitamente molteplice. Ci rivedremo dunque il prossimo giovedì, pronti a toccare per una seconda volta la cima del Vesuvio».


Note

  1. Inf., C. XXIV.